Sono stato facile profeta, un mese fa, a prevedere come sarebbe andata a finire (qui). Che la decisione di Berlusconi di autorizzare i bombardamenti in Libia costituisse il suo suicidio politico, non ci voleva molto a capirlo. Oh, certo, ci saranno i soliti analisti politici che si preoccuperanno di assicurarvi che la fine di Berlusconi è dovuta soprattutto alle sue intemperanze morali. Io invece vi dico che agli italiani, di Ruby & C., non interessa un fico secco. Gli interessa invece della guerra in Libia. Interessa loro di Gheddafi? Ne dubito. Interessano loro le vittime civili, non solo quelle — messe in mostra dalla TV — di Gheddafi, ma anche quelle — occultate, ma innegabili — della NATO? Forse. Certamente però interessa loro che in un momento di gravissima crisi economica, in cui si chiede a tutti di fare sacrifici, si trovino poi i soldi per una guerra, di cui ancora qualcuno deve spiegarci il perché. Chi pagherà questa guerra? Già si stanno preparando nuove manovre finanziarie, per “mettere a posto i conti”. E chi ne pagherà il prezzo? Gli italiani, appunto, i quali, stufi di questa situazione, hanno voluto mandare un segnale a chi li governa.
Non so se il segnale sarà compreso. Basta vedere le reazioni ai risultati elettorali, per rendersi conto che nessuno a capito nulla. Che la sinistra canti vittoria, non può che suscitare il dubbio: ma ci fanno o ci sono? I “vincitori” di queste elezioni penseranno che gli italiani stiano chiedendo loro di riprendere al piú presto una politica di stampo zapateriano, senza accorgersi che in questi stessi giorni, in Spagna, quel tipo di politica è stata definitivamente liquidata.
Che fare, allora? Ricompattarci tutti al centro, con Casini, Fini, Rutelli (e Montezemolo)? Se c’è qualcuno che esce sconfitto da queste elezioni, è proprio il “terzo polo”, che dimostra in tal modo la sua vera natura: una operazione di laboratorio, promossa dai poteri forti, come alternativa al berlusconismo; un’operazione che, come tutte quelle di carattere azionista che l’hanno preceduta, non potrà mai raccogliere il consenso popolare.
Ieri Andrea Tornielli ha riferito di un incontro del Segretario della CEI, Mons. Mariano Crociata, con i parlamentari cattolici dei diversi schieramenti. È da un po’ di tempo che si parla della necessità, in Italia, di “una nuova generazione di politici cattolici”. Un discorso ampiamente condivisibile, anche se, almeno per il momento, si fa fatica a vedere in che modo sia possibile attuarlo. La Chiesa possiede ancora le abilità educative (famiglia, parrocchia, scuola, università, associazioni, movimenti) necessarie per poter formare una nuova generazione di politici cattolici? Non credo che si possa accusare di disfattismo chi si permette di avanzare qualche dubbio in proposito.
Personalmente penso che, nella situazione in cui ci troviamo, non ci si possa fare illusioni su una ricomposizione immediata, come oggi si dice, del “tessuto sociale” in senso cristiano. Dopo secoli di smantellamento della “cristianità” (ché di questo si tratta: la crisi che stiamo vivendo non è, come molti credono, il risultato delle scelte avventate degli ultimi decenni, ma la conseguenza di premesse che affondano le radici lontano nel tempo), non si può pretendere di ricostruirla in quattro e quattr’otto. Al punto in cui siamo arrivati, sono convinto che non si possa piú pensare di risolvere la situazione con interventi limitati, unicamente tesi a salvare il salvabile. La stessa esperienza postbellica della DC dovrebbe insegnare qualcosa (per non parlare delle piú recenti esperienze di presenza dei cattolici nei due poli contrapposti). Penso che non rimanga altro da fare che ricominciare tutto da capo, tornare all’epoca degli apostoli e riprendere ad annunciare il kerygma di Cristo morto e risorto. Nel frattempo tutto ciò che ci circonda sarà definitivamente crollato, e allora si potrà cominciare a ricostruire da zero.
In questi giorni mi è tornato in mente un intervento che feci piú di dieci anni fa, il 19 giugno 1998, quando ero ancora alla Querce, per la presentazione di un libro scritto da un nostro insegnante impegnato in politica: Breviario del buon governo del Prof. Franco Banchi. Mi permetto di riproporvelo, perché ho l’impressione che, nonostante il tempo trascorso, conservi tutta la sua attualità.
Un punto di riferimento essenziale
Spesso si ripete, a ragione, che la politica può essere — deve essere — per il cristiano, una forma di carità. Essa è certamente un servizio, e il servizio è una delle espressioni piú alte della carità. Ma non si dice mai che l’impegno politico per un cristiano è, innanzi tutto, una forma di apostolato. Di solito si dà a questa espressione un significato restrittivo, come se stesse a indicare esclusivamente l’annunzio del vangelo, un compito per altro solitamente demandato al clero.
Afferma il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’apostolato dei laici: «La missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e di perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico» (Apostolicam actuositatem, n. 5). Dunque un’unica missione, che però si realizza in due direzioni: l’evangelizzazione e la “sacramentalizzazione” da una parte, l’animazione cristiana delle realtà terrene dall’altra. L’apostolato consiste nell’attività della Chiesa ordinata alla realizzazione di questa missione (cf ibidem, n. 2). La Chiesa esercita l’apostolato mediante tutti i suoi membri, sia chierici sia laici, anche se, in genere, ai primi è riservata preferibilmente la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti, ai secondi l’animazione cristiana della società. Si tratta comunque pur sempre del medesimo apostolato, svolto in due ordini diversi, quello spirituale e quello temporale. A proposito di tali ordini, il Concilio aggiunge: «Questi ordini, sebbene siano distinti, nell’unico disegno di Dio sono cosí legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creazione, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno» (ibidem, n. 5). Ne deriva il seguente corollario: «In ambedue gli ordini il laico, che è a un tempo fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sola coscienza cristiana (“una conscientia christiana continenter duci debet”)» (ibidem).
Dunque, due sono gli ordini, ma una sola è — deve essere — la coscienza: il cristiano deve essere guidato nel suo impegno temporale esclusivamente dalla coscienza cristiana. Bando perciò a tutte le dicotomie — vere e proprie schizofrenie! — che hanno segnato e, purtroppo, spesso continuano a segnare la presenza dei cattolici in politica. Talvolta si pensa che il cristiano abbia due coscienze: una, quella cristiana, a cui far riferimento nella propria vita personale, e un’altra, quella civile, necessariamente “laica”, a cui far riferimento nel proprio impegno nel mondo. Tale atteggiamento è assolutamente inaccettabile per un credente. Più volte, nei giorni scorsi, L’Osservatore romano ci ha riproposto l’esempio di re Baldovino, che preferí dimettersi — ed era disposto a rinunciare al trono — pur di non firmare una legge contraria alla sua coscienza cristiana.
Ma non corriamo, in tal modo, il pericolo di ricadere in una nuova forma di integralismo?
Per evitare l’integralismo
La riflessione della Chiesa negli ultimi anni ha portato a una nuova importante acquisizione, che, se osservata, impedirà di cadere nel pericolo, sempre incombente, dell’integralismo.
La nuova acquisizione consiste nel distinguere vari momenti nell’impegno cristiano, una specie di rifrazione, attraverso la quale, si scoprono, prima dell’impegno propriamente politico, una serie di momenti pre-politici, che non possono in alcun modo essere trascurati, se si vuole svolgere una corretta azione politica.
Innanzi tutto il momento spirituale: il momento della fede, della preghiera, del silenzio, dell’ascolto della parola di Dio, della formazione biblica, teologica e spirituale. È il punto di partenza, che non si può mai tralasciare: è il momento necessario per “abbeverarsi” alla fonte.
Quindi il momento culturale, il momento dell’inculturazione del vangelo, dell’incarnazione del messaggio nelle categorie proprie di una determinata cultura. A questo proposito, meraviglia come oggi si parli tanto di inculturazione con riferimento ai popoli del terzo mondo, e poi a casa nostra si esiga un cristianesimo “tutto spirituale”, purificato da qualsiasi incrostazione culturale. Per capire l’importanza della mediazione culturale, non è necessario ricorrere a Gramsci, con la sua “teoria dell’egemonia”, dal momento che i cristiani hanno sempre fatto ciò che poi Gramsci ha teorizzato: si pensi alla prima diffusione del vangelo o anche, piú vicino a noi, a ciò che avvenne nell’Italia postunitaria, mentre vigeva il Non expedit. Constatiamo con piacere che la Chiesa italiana si è messa su questa strada, con la decisione, presa al Convegno di Palermo, di procedere all’elaborazione di un nuovo “progetto culturale”.
In terzo luogo, il momento sociale, che consiste nell’animazione della società civile. Si pensi ai vari campi in cui è solitamente impegnato il volontariato: i giovani, i tossicodipendenti, gli handicappati, gli anziani, i lavoratori, i disoccupati, gli extracomunitari, gli emarginati in genere. Si pensi ancora alla difesa della vita e dell’ambiente. In questo vasto campo il punto di riferimento rimane la dottrina sociale della Chiesa, che durante quest’ultimo secolo ha allargato i suoi orizzonti dalla questione operaia a tutti i problemi della società odierna.
Infine il momento specificamente politico, che consiste nella presenza del cristiano nelle istituzioni (quartiere, comune, provincia, regione, Stato) e che può comportare anche l’assunzione di determinate responsabilità, ma che non può in alcun modo trasformarsi in pura e semplice “occupazione del potere”. L’autenticità di quest’ultimo momento dipende tutta dai momenti precedenti: solo chi è disposto a percorrere le tappe pre-politiche, sarà anche un buon politico cattolico.
Un errore da evitare
Occorre assolutamente evitare l’errore di pensare che l’unico problema sia da che parte stare, se a destra o a sinistra, o se non sia piuttosto necessario ricostituire un “grande centro”, in cui far confluire tutti i cattolici.
Il problema, in realtà, è molto più profondo. Attualmente noi ci troviamo di fronte non solo a una sinistra, ma anche a una destra e, ahimè, anche a un centro completamente secolarizzati. Allora il vero problema è quello di rievangelizzare la politica. Occorre ricominciare da capo, come duemila anni fa: il cristiano, ovunque schierato, è chiamato a “permeare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico”. Su questo piano, sul piano della fede e dei valori morali, tutti i cattolici sono — devono essere — uniti, al di là degli schieramenti. Devono essere non cattolici di destra, di sinistra o di centro, non “cattolici liberali” o “cattolici democratici”, “cattocomunisti” o “clericofascisti”, ma semplicemente cattolici — come ci ricordava giorni fa L’Osservatore romano (15-16 giugno 1998) — “cattolici senza aggettivi”.
Solo una postilla, a proposito del “progetto culturale”: son passati tredici anni, e il “progetto culturale” è rimasto, appunto, un grande progetto. Questo per dire che non bastano le belle idee, le grandi intuizioni, i programmi dai vasti orizzonti. Forse bisogna proprio ripartire dall’essenziale.