Fino a qualche anno fa mi sono
occupato, in forma piú o meno diretta, di formazione all’interno del mio Ordine
religioso. Quel che lamentavo sovente era la “molteplicità delle formazioni”:
praticamente tanti erano i modi di formare, quanti erano i formatori.
Nonostante ci fossero le Costituzioni, la Ratio institutionis, le
delibere dei Capitoli generali, le tradizioni domestiche, di fatto ciascun
novizio o studente veniva formato a seconda dei gusti personali del Padre
Maestro che si ritrovava ad avere. Con quali conseguenze sull’unità della
Congregazione, vi lascio immaginare. In tutte le riunioni dei formatori e nei Capitoli
ho sempre insistito sulla necessità dell’unità della formazione e, devo riconoscere,
delle delibere in tal senso sono state anche approvate; ma ho l’impressione che,
nonostante le delibere, la situazione sia rimasta pressoché immutata.
Beh, quel che lamentavo riguardo
alla formazione nel mio Ordine, in realtà costituisce un problema generale, che
tocca ogni ambito, diffuso in tutta la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II,
col quale ciascuno si è sentito autorizzato a fare di testa propria. Non mi si
fraintenda, non sto criticando il Concilio: accetto con convinzione tutte le
riforme da esso promosse e successivamente realizzate; sono riforme che si
rendevano necessarie per il mutamento dei tempi. Negli anni dopo il Concilio i
Papi e i Dicasteri della Curia Romana hanno fatto un enorme sforzo di
aggiornamento in tutti i settori, lasciando talora spazio anche alla possibilità
di ulteriori adattamenti alle situazioni locali, ma sempre entro i limiti
previsti dalle nuove normative. Il problema è che spesso tali normative sono
state completamente ignorate dalla “base”, la quale anzi riteneva che, col
Concilio, si era fatta piazza pulita di ogni legalismo e che unico criterio di
azione fosse ormai l’attenzione al soffio dello Spirito, solitamente
coincidente — guarda caso — con i propri gusti personali.
Perché, direte voi, questa lunga
introduzione? Dove vuole arrivare Padre Scalese? È la riflessione che mi è
venuta in mente quando, l’altro giorno, ho letto una notizia che mi ha lasciato
alquanto perplesso: il Papa, il giovedí santo, celebrerà la Messa in Cena Domini
nel carcere minorile di Casal del Marmo. Beh, dove sta il problema? Non è un
bellissimo gesto quello deciso da Papa Bergoglio? “Visitare i carcerati” non è
forse una delle opere di misericordia corporale? Il Papa non può decidere
liberamente dove celebrare la Messa del giovedí santo?
Vorrei cominciare col rispondere
a quest’ultima domanda, perché credo che da una corretta risposta ad essa
dipenda tutto il resto. È vero che il Papa può decidere quel che vuole: egli è
il legislatore supremo. Ma può decidere, appunto, legiferando. Se esiste
una legge che a lui non piace, può cambiarla; ma, se una legge esistente, fatta
da lui o da uno dei suoi predecessori, lui non la cambia, non mi sembra
opportuno che la disattenda. Non sono un canonista, ma non mi pare che al Papa possa
applicarsi il principio “Princeps legibus solutus”: non sarebbe molto
corretto nei confronti di quanti quelle leggi sono tenuti a osservarle. Questo,
come principio generale.
Nel caso presente, non si tratta
propriamente di leggi, ma di indicazioni pastorali, che comunque hanno, a mio
parere, un valore piuttosto vincolante. Una trentina d’anni fa fu pubblicato il
Cæremoniale Episcoporum, che non credo fosse destinato soltanto ai
cerimonieri delle cattedrali, ma innanzi tutto ai Vescovi stessi. Faccio notare
che non mi riferisco al Cerimoniale del 1600, ma a quello del 1984, “ex
decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate
Ioannis Pauli PP. II promulgatum”. Ebbene, che cosa si dice nel suddetto Cerimoniale
a proposito dei riti del Triduo pasquale?
«Tenendo quindi presenti la
particolare dignità di questi giorni e la grande importanza spirituale e
pastorale di queste celebrazioni nella vita della Chiesa, è sommamente
conveniente che il Vescovo presieda nella sua chiesa cattedrale la Messa nella Cena
del Signore, l’azione liturgica del venerdí santo “nella passione del
Signore”, e la veglia pasquale, soprattutto se in essa si devono celebrare i
sacramenti della iniziazione cristiana» (n. 296).
E, specificamente a proposito del
giovedí santo, il Cerimoniale prosegue:
«Il Vescovo, anche se ha già
celebrato al mattino la Messa del crisma, abbia ugualmente a cuore di celebrare
anche la Messa della Cena del Signore con la piena partecipazione di
presbiteri, diaconi, ministri e fedeli intorno a sé» (n. 298).
Non si tratta di norme tassative,
ma di indicazioni in ogni caso pressanti, dalle quali, a mio parere, solo per
gravissime ragioni ci si potrebbe discostare. Ma, a quanto è stato riferito,
Papa Francesco non fa altro che continuare un’abitudine che aveva quando era
Arcivescovo di Buenos Aires (il che lascia presumere che intenda ripetere il
gesto ogni anno). È chiaro che il problema non sorge solo ora che Bergoglio è
diventato Papa, ma esisteva già quando era Arcivescovo. Posso supporre il
ragionamento che avrà fatto: “Ho già celebrato questa mattina la Messa del
crisma con tutto il mio clero; questa sera la Messa in Cena Domini sarà
celebrata nelle diverse parrocchie; con chi celebro io in cattedrale? Magari non
ci saranno neppure i seminaristi perché mandati ad aiutare nelle rispettive
parrocchie. Quindi me ne vado a celebrar Messa ai carcerati (o agli ammalati o
agli anziani) e cosí faccio anche un’opera di misericordia”. Un ragionamento
abbastanza comprensibile, addirittura encomiabile, ma che rischia di “smontare”
tutto d’un tratto quanto il Concilio aveva autorevolmente dichiarato:
«Il
Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui
deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti
devono dare la piú grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si
svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che
c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e
attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche,
soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo
altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri»
(Sacrosanctum Concilium, n. 41).
Un testo che viene ripreso dal Cerimoniale,
che aggiunge:
«Dunque le sacre celebrazioni
presiedute dal Vescovo, manifestano il mistero della Chiesa a cui è presente
Cristo; perciò non sono un semplice apparato di cerimonie … In tempi
determinati e nei giorni piú importanti dell’anno liturgico si preveda questa
piena manifestazione della Chiesa particolare a cui siano invitati il popolo
proveniente dalle diverse parti della diocesi e, per quanto sarà possibile, i
presbiteri» (nn. 12-13).
«La principale manifestazione della Chiesa locale si ha
quando il Vescovo, come grande sacerdote del suo gregge, celebra l’Eucaristia
soprattutto nella chiesa cattedrale, circondato dal suo presbiterio e dai
ministri, con la partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio.
– Questa Messa, chiamata stazionale, manifesta l’unità della Chiesa locale e la
diversità dei ministeri attorno al Vescovo e alla sacra Eucaristia. – Quindi ad
essa siano convocati quanti piú fedeli è possibile, i presbiteri concelebrino
con il Vescovo, i diaconi prestino il loro servizio, gli accoliti e i lettori
esercitino le loro funzioni» (n. 119).
«Questa forma di Messa sia osservata soprattutto nelle
maggiori solennità dell’anno liturgico, quando il Vescovo confeziona il sacro
crisma e nella Messa vespertina in Cena Domini, nelle celebrazioni del
santo fondatore della Chiesa locale o del patrono della diocesi, nel giorno
anniversario dell’ordinazione del Vescovo, nelle grandi assemblee del popolo
cristiano, nella visita pastorale» (n. 120).
Nel comunicato con cui si informa
della decisione di Papa Francesco, si aggiunge: «Com’è noto, la Messa della
Cena del Signore è caratterizzata dall’annuncio del comandamento dell’amore e
dal gesto della lavanda dei piedi» (21 marzo 2013). Anche in questo caso il
Cerimoniale dei Vescovi appare piú completo e preciso:
«Con questa Messa dunque si fa
memoria della istituzione dell’Eucaristia, o memoriale della Pasqua del
Signore, con la quale si rende perennemente presente tra di noi, sotto i segni
del sacramento, il sacrificio della nuova alleanza; si fa ugualmente memoria
della istituzione del sacerdozio, con il quale si rende presente nel mondo la
missione e il sacrificio di Cristo; infine si fa memoria dell’amore con cui
il Signore ci ha amati fino alla morte. Il Vescovo si preoccupi di proporre
opportunamente ai fedeli tutte queste verità mediante il ministero della
parola, affinché possano penetrare piú profondamente con la loro pietà in cosí
grandi misteri e possano viverli piú intensamente nella vita concreta» (n.
297).
La lavanda dei piedi è certamente
un momento significativo della celebrazione del giovedí santo, ma sarebbe un
errore considerarlo il suo elemento essenziale. Tanto è vero che non è un rito
obbligatorio: esso viene compiuto solo «dove motivi pastorali lo consigliano»
(n. 301). Purtroppo, negli ultimi anni, in diversi luoghi, esso è stato
caricato di significati che esorbitano dal suo valore originario.
Qualcuno dirà che sto facendo di un’inezia
una montagna; qualcuno mi accuserà di pignoleria, se non addirittura di
rubricismo o di legalismo; qualcuno sicuramente scomoderà anche i farisei, che
accusavano Gesú di non osservare la legge quando guariva di sabato;
qualcuno dirà che voglio insegnare il mestiere al Papa. Ciascuno dica quel che
vuole. Nessuno però può impedirmi di pensare che certe decisioni,
apparentemente innocue, potrebbero avere conseguenze devastanti:
a) innanzi tutto, disattendendo
le norme esistenti, anche quelle che potrebbero apparire secondarie, si rischia
di mettere in discussione alcuni valori fondamentali, che il Concilio ha rimesso
in luce e ha voluto che divenissero patrimonio comune della Chiesa;
b) in secondo luogo, potrebbe
passare l’idea che le norme ci sono, sí, ma non è poi cosí importante rispettarle:
se il Papa ritiene possibile trascurarle, significa che non sono poi cosí
importanti; e se lo fa lui, perché non potrei fare io altrettanto?;
c) inoltre si potrebbe
dare l’impressione che non esista alcuna norma oggettiva e stabile, valida per tutti e per sempre, ma che tutto dipenda esclusivamente
dalla discrezionalità del responsabile di turno;
d) infine c’è il rischio
che il relativismo, tanto osteggiato a parole nella società, diventi di fatto
la norma suprema anche all’interno della Chiesa.