domenica 31 marzo 2013

Buona Pasqua!



«Quid quæritis viventem cum mortuis?» 
(Lc 24:5)

domenica 24 marzo 2013

Relativismo nella Chiesa?


Fino a qualche anno fa mi sono occupato, in forma piú o meno diretta, di formazione all’interno del mio Ordine religioso. Quel che lamentavo sovente era la “molteplicità delle formazioni”: praticamente tanti erano i modi di formare, quanti erano i formatori. Nonostante ci fossero le Costituzioni, la Ratio institutionis, le delibere dei Capitoli generali, le tradizioni domestiche, di fatto ciascun novizio o studente veniva formato a seconda dei gusti personali del Padre Maestro che si ritrovava ad avere. Con quali conseguenze sull’unità della Congregazione, vi lascio immaginare. In tutte le riunioni dei formatori e nei Capitoli ho sempre insistito sulla necessità dell’unità della formazione e, devo riconoscere, delle delibere in tal senso sono state anche approvate; ma ho l’impressione che, nonostante le delibere, la situazione sia rimasta pressoché immutata.

Beh, quel che lamentavo riguardo alla formazione nel mio Ordine, in realtà costituisce un problema generale, che tocca ogni ambito, diffuso in tutta la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, col quale ciascuno si è sentito autorizzato a fare di testa propria. Non mi si fraintenda, non sto criticando il Concilio: accetto con convinzione tutte le riforme da esso promosse e successivamente realizzate; sono riforme che si rendevano necessarie per il mutamento dei tempi. Negli anni dopo il Concilio i Papi e i Dicasteri della Curia Romana hanno fatto un enorme sforzo di aggiornamento in tutti i settori, lasciando talora spazio anche alla possibilità di ulteriori adattamenti alle situazioni locali, ma sempre entro i limiti previsti dalle nuove normative. Il problema è che spesso tali normative sono state completamente ignorate dalla “base”, la quale anzi riteneva che, col Concilio, si era fatta piazza pulita di ogni legalismo e che unico criterio di azione fosse ormai l’attenzione al soffio dello Spirito, solitamente coincidente — guarda caso — con i propri gusti personali.

Perché, direte voi, questa lunga introduzione? Dove vuole arrivare Padre Scalese? È la riflessione che mi è venuta in mente quando, l’altro giorno, ho letto una notizia che mi ha lasciato alquanto perplesso: il Papa, il giovedí santo, celebrerà la Messa in Cena Domini nel carcere minorile di Casal del Marmo. Beh, dove sta il problema? Non è un bellissimo gesto quello deciso da Papa Bergoglio? “Visitare i carcerati” non è forse una delle opere di misericordia corporale? Il Papa non può decidere liberamente dove celebrare la Messa del giovedí santo?

Vorrei cominciare col rispondere a quest’ultima domanda, perché credo che da una corretta risposta ad essa dipenda tutto il resto. È vero che il Papa può decidere quel che vuole: egli è il legislatore supremo. Ma può decidere, appunto, legiferando. Se esiste una legge che a lui non piace, può cambiarla; ma, se una legge esistente, fatta da lui o da uno dei suoi predecessori, lui non la cambia, non mi sembra opportuno che la disattenda. Non sono un canonista, ma non mi pare che al Papa possa applicarsi il principio “Princeps legibus solutus”: non sarebbe molto corretto nei confronti di quanti quelle leggi sono tenuti a osservarle. Questo, come principio generale.

Nel caso presente, non si tratta propriamente di leggi, ma di indicazioni pastorali, che comunque hanno, a mio parere, un valore piuttosto vincolante. Una trentina d’anni fa fu pubblicato il Cæremoniale Episcoporum, che non credo fosse destinato soltanto ai cerimonieri delle cattedrali, ma innanzi tutto ai Vescovi stessi. Faccio notare che non mi riferisco al Cerimoniale del 1600, ma a quello del 1984, “ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum”. Ebbene, che cosa si dice nel suddetto Cerimoniale a proposito dei riti del Triduo pasquale?

«Tenendo quindi presenti la particolare dignità di questi giorni e la grande importanza spirituale e pastorale di queste celebrazioni nella vita della Chiesa, è sommamente conveniente che il Vescovo presieda nella sua chiesa cattedrale la Messa nella Cena del Signore, l’azione liturgica del venerdí santo “nella passione del Signore”, e la veglia pasquale, soprattutto se in essa si devono celebrare i sacramenti della iniziazione cristiana» (n. 296).

E, specificamente a proposito del giovedí santo, il Cerimoniale prosegue:

«Il Vescovo, anche se ha già celebrato al mattino la Messa del crisma, abbia ugualmente a cuore di celebrare anche la Messa della Cena del Signore con la piena partecipazione di presbiteri, diaconi, ministri e fedeli intorno a sé» (n. 298).

Non si tratta di norme tassative, ma di indicazioni in ogni caso pressanti, dalle quali, a mio parere, solo per gravissime ragioni ci si potrebbe discostare. Ma, a quanto è stato riferito, Papa Francesco non fa altro che continuare un’abitudine che aveva quando era Arcivescovo di Buenos Aires (il che lascia presumere che intenda ripetere il gesto ogni anno). È chiaro che il problema non sorge solo ora che Bergoglio è diventato Papa, ma esisteva già quando era Arcivescovo. Posso supporre il ragionamento che avrà fatto: “Ho già celebrato questa mattina la Messa del crisma con tutto il mio clero; questa sera la Messa in Cena Domini sarà celebrata nelle diverse parrocchie; con chi celebro io in cattedrale? Magari non ci saranno neppure i seminaristi perché mandati ad aiutare nelle rispettive parrocchie. Quindi me ne vado a celebrar Messa ai carcerati (o agli ammalati o agli anziani) e cosí faccio anche un’opera di misericordia”. Un ragionamento abbastanza comprensibile, addirittura encomiabile, ma che rischia di “smontare” tutto d’un tratto quanto il Concilio aveva autorevolmente dichiarato:

«Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la piú grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri» (Sacrosanctum Concilium, n. 41).

Un testo che viene ripreso dal Cerimoniale, che aggiunge:

«Dunque le sacre celebrazioni presiedute dal Vescovo, manifestano il mistero della Chiesa a cui è presente Cristo; perciò non sono un semplice apparato di cerimonie … In tempi determinati e nei giorni piú importanti dell’anno liturgico si preveda questa piena manifestazione della Chiesa particolare a cui siano invitati il popolo proveniente dalle diverse parti della diocesi e, per quanto sarà possibile, i presbiteri» (nn. 12-13).

«La principale manifestazione della Chiesa locale si ha quando il Vescovo, come grande sacerdote del suo gregge, celebra l’Eucaristia soprattutto nella chiesa cattedrale, circondato dal suo presbiterio e dai ministri, con la partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio. – Questa Messa, chiamata stazionale, manifesta l’unità della Chiesa locale e la diversità dei ministeri attorno al Vescovo e alla sacra Eucaristia. – Quindi ad essa siano convocati quanti piú fedeli è possibile, i presbiteri concelebrino con il Vescovo, i diaconi prestino il loro servizio, gli accoliti e i lettori esercitino le loro funzioni» (n. 119).

«Questa forma di Messa sia osservata soprattutto nelle maggiori solennità dell’anno liturgico, quando il Vescovo confeziona il sacro crisma e nella Messa vespertina in Cena Domini, nelle celebrazioni del santo fondatore della Chiesa locale o del patrono della diocesi, nel giorno anniversario dell’ordinazione del Vescovo, nelle grandi assemblee del popolo cristiano, nella visita pastorale» (n. 120).

Nel comunicato con cui si informa della decisione di Papa Francesco, si aggiunge: «Com’è noto, la Messa della Cena del Signore è caratterizzata dall’annuncio del comandamento dell’amore e dal gesto della lavanda dei piedi» (21 marzo 2013). Anche in questo caso il Cerimoniale dei Vescovi appare piú completo e preciso:

«Con questa Messa dunque si fa memoria della istituzione dell’Eucaristia, o memoriale della Pasqua del Signore, con la quale si rende perennemente presente tra di noi, sotto i segni del sacramento, il sacrificio della nuova alleanza; si fa ugualmente memoria della istituzione del sacerdozio, con il quale si rende presente nel mondo la missione e il sacrificio di Cristo; infine si fa memoria dell’amore con cui il Signore ci ha amati fino alla morte. Il Vescovo si preoccupi di proporre opportunamente ai fedeli tutte queste verità mediante il ministero della parola, affinché possano penetrare piú profondamente con la loro pietà in cosí grandi misteri e possano viverli piú intensamente nella vita concreta» (n. 297).

La lavanda dei piedi è certamente un momento significativo della celebrazione del giovedí santo, ma sarebbe un errore considerarlo il suo elemento essenziale. Tanto è vero che non è un rito obbligatorio: esso viene compiuto solo «dove motivi pastorali lo consigliano» (n. 301). Purtroppo, negli ultimi anni, in diversi luoghi, esso è stato caricato di significati che esorbitano dal suo valore originario.

Qualcuno dirà che sto facendo di un’inezia una montagna; qualcuno mi accuserà di pignoleria, se non addirittura di rubricismo o di legalismo; qualcuno sicuramente scomoderà anche i farisei, che accusavano Gesú di non osservare la legge quando guariva di sabato; qualcuno dirà che voglio insegnare il mestiere al Papa. Ciascuno dica quel che vuole. Nessuno però può impedirmi di pensare che certe decisioni, apparentemente innocue, potrebbero avere conseguenze devastanti:
a) innanzi tutto, disattendendo le norme esistenti, anche quelle che potrebbero apparire secondarie, si rischia di mettere in discussione alcuni valori fondamentali, che il Concilio ha rimesso in luce e ha voluto che divenissero patrimonio comune della Chiesa;
b) in secondo luogo, potrebbe passare l’idea che le norme ci sono, sí, ma non è poi cosí importante rispettarle: se il Papa ritiene possibile trascurarle, significa che non sono poi cosí importanti; e se lo fa lui, perché non potrei fare io altrettanto?;
c) inoltre si potrebbe dare l’impressione che non esista alcuna norma oggettiva e stabile, valida per tutti e per sempre, ma che tutto dipenda esclusivamente dalla discrezionalità del responsabile di turno;
d) infine c’è il rischio che il relativismo, tanto osteggiato a parole nella società, diventi di fatto la norma suprema anche all’interno della Chiesa.

domenica 17 marzo 2013

“Viva il Papa!”


Forse qualcuno dei miei lettori stava già pensando che fossi tornato in letargo. In effetti, “una rondine non fa primavera”, ma in questo caso il mio silenzio è stato causato semplicemente da mancanza di tempo materiale. D’altronde, dopo una inattività di quasi due anni, non è facile tornare a scrivere con regolarità.

Qualcuno mi ha chiesto di dire qualcosa a proposito dell’elezione del nuovo Papa. Beh, sarei ipocrita se dicessi di aver sprizzato gioia nel momento in cui il Card. Tauran ha dato l’annuncio. Personalmente avrei preferito il Card. Scola, che stimo, o il Card. Tagle, che conosco. Sentire che era stato eletto il Card. Bergoglio è stata sicuramente una sorpresa. Talvolta le sorprese possono essere accolte gioiosamente (ed è ciò che è avvenuto per la maggior parte dei fedeli). Nel mio caso questo non è avvenuto, non perché avessi qualcosa contro il Card. Bergoglio, che non conoscevo, ma semplicemente perché condizionato da ciò che si era detto sul suo conto, a proposito del precedente conclave: sarebbe stato lui il candidato del partito anti-Ratzinger, quello per intenderci guidato dal Card. Martini. Ebbene, il fatto di sapere che era stato eletto appunto l’«anti-Ratzinger» mi ha dato lí per lí l’impressione di una deliberata scelta polemica dei Cardinali contro il precedente Pontefice. È vero che questa impressione è stata immediatamente smentita dallo stesso neo-eletto; però è altrettanto vero che tutta una serie di piccoli dettagli, astutamente amplificati dai media, sembravano confermare quella prima impressione: il rifiuto di un certo abbigliamento, il ritorno a una liturgia pre-benedettiana, ecc.

In questi casi, però, è bene non lasciarsi condizionare troppo dalle prime impressioni, dalle reazioni istintive, e cercare di riflettere e considerare le cose con una certa razionalità. Innanzi tutto, è bene non farsi condizionare dai media, che ci presentano solo certi aspetti, e lo fanno unicamente per provocare in noi determinate reazioni. Che senso ha, per esempio, insistere nel mostrarci le scarpe nere del Papa, se non per convogliare il messaggio: Benedetto XVI usava scarpe Prada e quindi era antievangelico; Francesco, al contrario, è un Papa realmente povero. Non so se avete notato come si siano volutamente messe in giro frasi, attribuite al neo-eletto Pontefice (se vere o false sinceramente non saprei), che hanno rallegrato molti, ma hanno ferito altri: Papa Bergoglio avrebbe detto a Mons. Marini, che lo stata aiutando a vestirsi, a proposito della mozzetta: «Questa se la metta lei! È finito il tempo delle carnevalate!»; l’indomani, a Santa Maria Maggiore, visto il Card. Law, Arciprete emerito della basilica, avrebbe intimato: «Allontanatelo dalla basilica!». Non credo che, cosí facendo, si renda un buon servizio al nuovo Papa.

In secondo luogo, dobbiamo liberarci dai nostri pregiudizi. Non possiamo giudicare le persone dopo pochi minuti che le abbiamo incontrate: diamo loro almeno il tempo di presentarsi e farsi conoscere. Di per sé non dovremmo mai giudicare nessuno, ma se proprio smaniamo dal farlo, aspettiamo almeno che uno incominci ad agire, e poi giudichiamo il suo operato (mai le sue intenzioni!). Questo in qualsiasi senso: sia in bene che in male. Certe esaltazioni acritiche sarebbe meglio lasciarle da parte: a Papa Francesco piace uno stile informale? Benissimo, ha tutto il diritto di usarlo (anche perché è caratteristico di certi paesi); ma non si parli di una svolta nella storia della Chiesa, quasi che basti saldare il conto in albergo per salvare la Chiesa. Ben venga la semplicità, se questa aiuterà qualcuno a riaccostarsi alla Chiesa. Ma, per favore, non identifichiamo automaticamente lo stile informale con l’umiltà. Si può essere umili anche sottomettendosi a un cerimoniere che ti mette indosso una mozzetta di velluto con l’ermellino. Lasciatemi, per un attimo, mettermi sullo stesso piano di certi acuti “osservatori”: l’attuale Pontefice, sotto la semplice talare bianca, ha sempre fatto uso finora della camicia con i polsini e i gemelli; Papa Ratzinger, sotto la talare bianca, il rocchetto e la mozzetta, spesso indossava una semplice maglia con le maniche lunghe.

Un aspetto che ha mandato in visibilio le folle è stata la scelta del nome. Certo, il Santo Padre può scegliere il nome che vuole. Non si può accusarlo di aver rotto con la tradizione: gli ultimi Papi hanno tutti scelto un nome piú o meno originale: Roncalli ha scelto un nome che non si usava piú dal Trecento; Montini, dal Seicento; Luciani ha addirittura adottato un doppio nome (cosa mai avvenuta prima nella storia della Chiesa); quindi, liberissimo Bergoglio di scegliere il nome di Francesco. È chiaro però che ogni nome è un programma; lo stesso Bergoglio lo ha spiegato ieri ai giornalisti: “Francesco”, significa povertà, pace, amore alla natura. Un programma condivisibilissimo, a patto che non si trasformi in ideologia: pauperismo, pacifismo, ecologismo. Spero di cuore che il nuovo Papa incarni il vero San Francesco, non il surrogato che ci viene solitamente proposto dai media (e spesso dagli stessi Francescani). Personalmente, di San Francesco io sottolineerei soprattutto la vocazione: «Va’ e ripara la mia Chiesa!».

Naturalmente, come non mi piacciono i facili entusiasmi, ancor meno mi piacciono le stroncature senza appello, da una parte e dall’altra. Mi hanno dato estremamente noia (ma non mi hanno meravigliato piú di tanto) i tentativi di coinvolgere Bergoglio con la dittatura militare del Generale Videla, come pure la ridicola accusa di misoginia («Le donne non sono fatte per governare!»). D’altra parte, mi lasciano di stucco le reazioni scomposte di alcuni tradizionalisti: dopo aver per anni accusato i fratelli di fede di disobbedienza al Papa, perché non si adeguavano al suo stile celebrativo, tutto d’un tratto, non appena il Papa è cambiato, hanno incominciato a offendere il nuovo Pontefice, basandosi esclusivamente su quegli elementi esteriori intenzionalmente sottolineati dai media, proprio per mettere in evidenza la discontinuità dell’attuale pontificato con quello precedente.

Certo, una qualche discontinuità nelle forme e nello stile esteriore non può essere negata; ma ciò significa reale rottura di Francesco I con Benedetto XVI e con la tradizione della Chiesa? Diciamo la verità, almeno per il momento, tutto si riduce a questioni piuttosto marginali, come il modo di abbigliarsi o di celebrare. Quanto al primo aspetto, abbiamo già detto; quanto al secondo, non credo proprio che Papa Francesco voglia distruggere la liturgia. Bisogna tener conto che è un gesuita; e chi conosce anche solo un po’ i gesuiti sa che non sono dei grandi liturgisti, non per partito preso, ma per formazione, direi per costituzione. Si direbbe che per loro il movimento liturgico e il Vaticano II non siano mai esistiti; fondamentalmente, essi sono rimasti sempre un po’ tridentini. Del resto, basta prendere gli Esercizi spirituali per rendersene conto: sembrerebbe che per Sant’Ignazio l’esame di coscienza fosse piú importante della partecipazione alla Messa. Se si voleva un Papa liturgista, allora bisognava eleggere un benedettino, non certo un gesuita. I gesuiti sono molto piú attenti alla spiritualità che non alla liturgia: essi sono dei veri “contemplativi nell’azione”, per cui possiamo aspettarci da Papa Bergoglio un grande aiuto per la nostra vita spirituale.

Sono convinto che Papa Francesco riserverà a tutti delle belle sorprese (certo non quelle anticipate dai media). Quando furono eletti Giovanni Paolo II e Benedetto XVI provai una grande gioia e nutrivo grandi attese, che però in qualche caso furono successivamente deluse. Questa volta, come detto, all’Habemus Papam non ho sperimentato lo stesso entusiasmo; spero quindi che le soddisfazioni vengano in seguito. Ma, in fondo, anche se non venissero, non cambierebbe nulla: un Papa non viene eletto per soddisfare le nostre attese, ma per confermarci nella fede e servire la Chiesa. In questo momento non ci viene chiesto né di osannare il Papa né di criticarlo; ci viene chiesto semplicemente di sottometterci a lui («Subesse Romano Pontifici … omnino esse de necessitate salutis», Bonifacio VIII, bolla Unam sanctam), di pregare per lui e di «rimanere in perfetta tranquillità … [tenendo] presente che solo Gesú Cristo governa la sua Chiesa» (Rosmini, Massime di perfezione cristiana, III massima).

Anche un eventuale scarso feeling con il nuovo Pontefice potrebbe avere effetti tutto sommato benefici, perché ci costringerebbe a non fermarci alla sua persona, ma ad andare oltre, a colui che egli rappresenta; ci costringerebbe a distinguere fra la persona e l’ufficio che essa ricopre. Può essere utile ricordare in proposito quanto si racconta di Don Bosco; sembrerebbe che si riferisca ai nostri giorni:

A Torino giungevano le notizie di Roma ed anche qui continuavano ad ogni occasione le grida frenetiche, ostinate di “Viva Pio IX!”. Mons. Fransoni [Arcivescovo di Torino] però aveva compreso tra i primi che sotto quelle esagerate espressioni di entusiasmo si celava l’artificio delle sette, e sollecitato dal Papa a muovere i fedeli in aiuto degli Irlandesi che lottavano contro la fame, il 7 giugno 1847 scriveva in una sua lettera pastorale: «Quella essere un mezzo assai acconcio di mostrare ossequio al Pontefice, e perciò averglisi a dar plauso. Non come quei tali che applaudono a Pio IX, non per quello che è, ma per quello che vorrebbero Egli fosse. Doversi ancora riflettere, che non il battere fragoroso di palma a palma, né l’incomposto acclamar tumultuoso, sono gli applausi che possono a Lui tornar graditi, bensí l’ascoltarne docilmente gli avvisi, e il pronto eseguirne, non che i comandi, gli inviti». Don Bosco non la pensava diversamente dal suo Arcivescovo. Naturalmente anche all’Oratorio era un gridare a tutta gola di viva e di osanna al gran Pontefice; tanto piú che Don Bosco parlava sempre del Papa colla massima stima; ripeteva frequentemente essere necessario di stare uniti al Papa perché egli era quell’anello che unisce i fedeli a Dio, e preconizzava fatali cadute e castighi a quelli che presumevano osteggiare o censurare anche menomamente la Santa Sede; e tanto era l’amore che sapeva infondere verso di questa ne’ suoi giovani, che sentivansi disposti ad esserle sempre obbedienti e fedeli e a difenderla anche a costo della vita. I giovani adunque ripetevano: “Evviva Pio IX!”; ma con meraviglia intesero Don Bosco che cercava di cambiar loro le parole in bocca: «Non gridate “Viva Pio IX!”, ma “Viva il Papa!”». «Ma perché, gli domandarono, Ella vuole che gridiamo “Viva il Papa!”? Pio IX non è appunto il Papa?». «Avete ragione, replicava Don Bosco: ma voi non vedete piú in là del senso naturale; vi è certa gente che vuol separare il Sovrano di Roma dal Pontefice, l’uomo dalla sua divina dignità. Si loda la persona, ma non veggo che si voglia prestar riverenza alla dignità di cui è rivestita. Dunque, se vogliamo metterci al sicuro, gridiamo “Viva il Papa!”». E tutti i giovani ripetevano: “Viva il Papa!” (Memorie biografiche, vol. III, cap. 21).

domenica 10 marzo 2013

Papa emerito?


Dopo venti mesi di letargo, il Querciolino errante (che da tre anni si è pressoché sedentarizzato) torna a far sentire (chissà se solo per una volta o in maniera piú assidua) la sua voce. Come mai, direte voi? Se neppure tanti eventi accaduti in questi quasi due anni lo avevano ridestato dal sonno, come mai proprio ora si rifà vivo?

Stiamo vivendo un momento davvero storico, con la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato e, ora, con i meccanismi che si sono messi in moto per l’elezione del nuovo Papa. Si è scritto tanto in quest’ultimo mese a proposito di tali eventi: molte delle cose dette sono interessanti, altre meno. In ogni caso c’è stato, e continua a esserci, un vivace dibattito. Che bisogno c’era, allora, di aggiungere un’altra voce al coro già cosí numeroso che si sta esibendo in questi giorni?

Se intervengo, è solo per aggiungere qualche riflessione, che mi sembra non sia stata ancora fatta. Il problema che vorrei affrontare è se la rinuncia operata da Benedetto XVI — certamente una novità, un unicum nella storia della Chiesa (i casi precedenti, è stato fatto autorevolmente notare, non possono in alcun modo essere paragonati col caso presente) — costituisca un atto “rivoluzionario”, una svolta radicale, una rottura con la tradizione della Chiesa, o se non sia piuttosto qualcosa che si situa, nonostante l’oggettiva novità, in continuità con il passato, qualcosa che è sempre stato possibile, ancorché praticamente finora mai avvenuto.

Certamente si potrà discutere sull’opportunità di un gesto come quello di Benedetto XVI: ciascuno di noi vede le cose dal proprio punto di vista e quindi è portato a esprimere una valutazione se fosse opportuno o no procedere alla rinuncia al pontificato. Bisognerà però ammettere che, ponendosi su questo piano, si potranno individuare infinite motivazioni sia a favore sia contro la rinuncia. Mi limiterò soltanto a due argomenti, entrambi validi, che possono giustificare l’opportunità o la non-opportunità della rinuncia. Fra i tanti motivi, che sono stati portati per giustificare il gesto di Benedetto XVI, il più interessante, nella sua banalità, mi è parso quello del Card. Georges Cottier: «Oggi si vive piú a lungo … Il vigore e la lucidità però possono non esserci piú». Al contrario, la difficoltà piú seria contro la rinuncia mi sembra essere il rischio di relativismo, insito nelle dimissioni di un Papa. Però capite bene che, se andiamo avanti su questa strada, troveremo sempre innumerevoli argomenti a favore e innumerevoli argomenti contro la rinuncia, senza mai trovare l’argomento risolutivo. Per cui dobbiamo rassegnarci e accettare, con assoluto rispetto, la scelta compiuta, di fronte a Dio, da Benedetto XVI. Nessuno di noi può violare la coscienza di un uomo, tanto piú se si tratta della coscienza del Papa. È totalmente fuori luogo esprimere giudizi sul suo gesto, tanto piú i giudizi estremi, sia in senso positivo («Un gesto coraggioso!») sia in senso negativo («Un atto di viltà!»).

Se però dal livello dell’opportunità passiamo a quello della legittimità, mi pare che il discorso cambi completamente. Se ci chiediamo se quanto è avvenuto sia legittimo, cioè giuridicamente possibile, credo che non ci debbano essere dubbi: è tutto (sottolineo “tutto”, volendo comprendere anche i dettagli) pienamente legittimo. La possibilità di rinuncia è prevista dal can. 332 § 2: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Si badi bene che tale possibilità non viene in alcun modo limitata: non si parla neppure, come in altri casi, di “gravi motivi”. Le uniche condizioni previste per la validità della rinuncia sono la sua piena libertà e la sua debita manifestazione (condizioni che, nella fattispecie, sono state pienamente rispettate). Questo dovrebbe rassicurarci e liberarci completamente dal sospetto che, con l’imminente conclave, si possa procedere all’elezione di un “antipapa”.

Se sulla legittimità giuridica della rinuncia non ci piove, visto che è espressamente contemplata dal diritto canonico, può dirsi altrettanto delle decisioni prese riguardo ai risvolti pratici della rinuncia, risvolti non previsti dal diritto, trattandosi di una situazione totalmente nuova? Mi riferisco al fatto che Benedetto XVI abbia deciso di continuare a usare tale nome, di adottare per sé il titolo inedito di “Papa emerito” o “Romano Pontefice emerito”, di conservare l’appellativo di “Sua Santità” e di continuare a indossare la veste bianca. Quantunque su questi aspetti non esista alcun punto di riferimento oggettivo, mi sembra che, anche in questi casi, ci si sia mossi nella piú completa correttezza giuridica.

La questione centrale è quella del titolo di “Papa emerito”, contestato da alcuni con la sorprendente motivazione che… non può esistere un Papa emerito: o si è Papa o non lo si è. Infatti. Ma un Papa emerito non è piú Papa; è soltanto un Papa… emerito. Che cosa significa “emerito”? Lo spiega il can. 185: «A colui che perde l’ufficio per raggiunti limiti d’età o per rinuncia accettata, può essere conferito il titolo di emerito». Si noti: non si sta parlando dei Vescovi (a cui si riferisce il can. 402), ma della “perdita dell’ufficio ecclesiastico”, di un qualsiasi ufficio ecclesiastico. Il supremo pontificato è o non è un ufficio ecclesiastico? Sí. Benedetto XVI, con la sua rinuncia, ha perso o non ha perso il suo ufficio? Sí. Può o non può assumere il titolo di “Papa emerito”? A norma del can. 185, si direbbe proprio di sí. Tale titolo non significa che Benedetto XVI sia ancora Papa, ma solo che è stato Papa (e questo nessuno può negarlo).

È stata fatta un’analogia con i Vescovi, e si è detto che il Vescovo emerito continua a essere Vescovo. Certo, ma il suo titolo non è, semplicemente, “Vescovo emerito”, bensí Vescovo emerito di una determinata sede: «Il Vescovo, la cui rinuncia all’ufficio sia stata accettata, mantiene il titolo di emerito della sua diocesi» (can. 402 § 1). L’aggettivo “emerito” non si riferisce propriamente a “Vescovo”, ma all’ufficio che quel Vescovo aveva di essere pastore di una determinata diocesi.

Qualcuno (p. es. Padre Gianfranco Ghirlanda su La Civiltà Cattolica) aveva suggerito di adottare, appunto, il titolo di “Vescovo emerito di Roma”. Con tutto il rispetto per chi ha sostenuto tale tesi, chiedo: qual è il titolo del Vescovo di Roma? “Papa”. Se, dunque, si può dire (e certamente si può dire) “Vescovo emerito di Roma”, perché non si potrebbe dire “Papa emerito”? A maggior ragione, si potrà usare l’espressione “Romano Pontefice emerito” (si noti che non si è mai parlato di “Sommo Pontefice emerito”), dal momento che Romanus Pontifex non è altro che il corrispondente latino di “Vescovo di Roma”.

Ma il mio sospetto è che, dietro questa querelle canonica, si nasconda un’errata visione teologica del ministero petrino. Sembrerebbe di capire che, secondo alcuni, il Successore di Pietro abbia un duplice ufficio, quello di Vescovo di Roma e quello di Papa, intendendo tale termine come sinonimo di “pastore supremo della Chiesa universale”, quasi che, per ipotesi, uno potesse esercitare soltanto uno dei due uffici disgiunto dall’altro. Tutto ciò è semplicemente assurdo. È il Vescovo di Roma che, in quanto tale, esercita il primato su tutta la Chiesa. Il termine “Papa” non sta a indicare un ufficio ulteriore rispetto a quello di Vescovo di Roma, ma è semplicemente il titolo proprio del Vescovo di Roma.

Qualcuno ha contestato anche il mantenimento del nome “Benedetto XVI”, sostenendo che bisognerebbe tornare a chiamare Benedetto XVI “Cardinale Ratzinger”, dando per scontato che un Papa dimissionario torni a essere un Cardinale. E dove sta scritto? È vero che questo è storicamente avvenuto, ma ciò non significa che debba automaticamente avvenire. Il Cardinale Ratzinger, divenendo Papa, ha cessato di essere membro del Sacro Collegio; per rientrarvi a farne parte, dovrebbe essere di nuovo creato Cardinale dal suo successore; ma mi sembrerebbe una cosa del tutto fuori luogo. Non vedo dove sia lo scandalo se, una volta rinunciato al suo ufficio, Benedetto XVI mantiene il nome assunto il giorno dell’elezione al pontificato. Un re, quando abdica, non conserva forse il nome che aveva quando regnava?

Il resto (l’appellativo “Sua Santità”, l’abito bianco) viene da sé. È normale che chi ha goduto di un certo titolo, lo mantenga anche dopo la perdita dell’ufficio. Nel mio Ordine religioso il Superiore generale ha diritto a essere chiamato “Reverendissimo”, titolo che conserva per il resto dei suoi giorni, anche dopo aver terminato il suo mandato. Del resto, abbiamo incominciato a chiamare “Santità” anche alcuni Patriarchi orientali non cattolici; e non dovremmo chiamare “Santità” il Papa emerito? Sulla talare bianca non mi sembra che possano esserci assolutamente problemi: anch’io, quando ero in missione, ne facevo uso (e continuo a farne uso nella foto di questo blog, proprio perché è stata un’esperienza che ha segnato la mia vita). Anzi, non vedrei nulla di strano (per quanto non credo che potrà mai avvenire) se Benedetto XVI assistesse, in abito corale, a qualche celebrazione del nuovo Pontefice, cosí come accade normalmente nelle diocesi con i rispettivi Vescovi emeriti.

Vorrei terminare con una riflessione. Penso che la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ci costringa a un approfondimento del ruolo del Papa. Ci aiuta lui stesso a farlo. Nell’ultima udienza generale ha affermato: «Il “sempre” è anche un “per sempre” — non c’è piú un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto piú la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per cosí dire, nel recinto di San Pietro» (27 febbraio 2013). Se è vero che, con la sua rinuncia, Benedetto XVI ha perso qualsiasi tipo di giurisdizione, ciò non significa che, con ciò, è tornato a essere un semplice fedele o, se vogliamo, un semplice Vescovo in pensione. Sembrerebbe di capire che il ministero petrino non si esaurisca nell’esercizio dell’autorità, ma possieda una dimensione spirituale (il “servizio della preghiera”), che continua al di là della rinuncia: è ciò che Benedetto XVI vuole esprimere con il suo ritirarsi in clausura, con il suo “salire sul monte” a pregare per la Chiesa. La Chiesa la si serve, sí, governandola, ma la si serve anche, e forse soprattutto, pregando per essa. Lo stesso luogo, da lui scelto, per espletare questo servizio (“nel recinto di San Pietro”), sta a indicare la continuità fra il prima e il dopo la rinuncia. Forse il titolo di “Papa emerito” vuole esprimere anche tale continuità.