Dopo venti mesi di letargo, il Querciolino
errante (che da tre anni si è pressoché sedentarizzato) torna a far sentire
(chissà se solo per una volta o in maniera piú assidua) la sua voce. Come mai,
direte voi? Se neppure tanti eventi accaduti in questi quasi due anni lo
avevano ridestato dal sonno, come mai proprio ora si rifà vivo?
Stiamo vivendo un momento davvero
storico, con la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato e, ora, con i
meccanismi che si sono messi in moto per l’elezione del nuovo Papa. Si è
scritto tanto in quest’ultimo mese a proposito di tali eventi: molte delle cose
dette sono interessanti, altre meno. In ogni caso c’è stato, e continua a
esserci, un vivace dibattito. Che bisogno c’era, allora, di aggiungere un’altra
voce al coro già cosí numeroso che si sta esibendo in questi giorni?
Se intervengo, è solo per
aggiungere qualche riflessione, che mi sembra non sia stata ancora fatta. Il
problema che vorrei affrontare è se la rinuncia operata da Benedetto XVI — certamente
una novità, un unicum nella storia della Chiesa (i casi precedenti, è
stato fatto autorevolmente notare, non possono in alcun modo essere paragonati
col caso presente) — costituisca un atto “rivoluzionario”, una svolta radicale,
una rottura con la tradizione della Chiesa, o se non sia piuttosto qualcosa che
si situa, nonostante l’oggettiva novità, in continuità con il passato, qualcosa
che è sempre stato possibile, ancorché praticamente finora mai avvenuto.
Certamente si potrà discutere
sull’opportunità di un gesto come quello di Benedetto XVI: ciascuno di noi
vede le cose dal proprio punto di vista e quindi è portato a esprimere una valutazione
se fosse opportuno o no procedere alla rinuncia al pontificato. Bisognerà però
ammettere che, ponendosi su questo piano, si potranno individuare infinite
motivazioni sia a favore sia contro la rinuncia. Mi limiterò soltanto a due argomenti,
entrambi validi, che possono giustificare l’opportunità o la non-opportunità
della rinuncia. Fra i tanti motivi, che sono stati portati per giustificare il
gesto di Benedetto XVI, il più interessante, nella sua banalità, mi è parso
quello del Card. Georges Cottier:
«Oggi si vive piú a lungo … Il vigore e
la lucidità però possono non esserci piú». Al contrario, la difficoltà piú
seria contro la rinuncia mi sembra essere il rischio di relativismo, insito
nelle dimissioni di un Papa. Però capite bene che, se andiamo avanti su questa
strada, troveremo sempre innumerevoli argomenti a favore e innumerevoli
argomenti contro la rinuncia, senza mai trovare l’argomento risolutivo. Per cui
dobbiamo rassegnarci e accettare, con assoluto rispetto, la scelta compiuta, di
fronte a Dio, da Benedetto XVI. Nessuno di noi può violare la coscienza di un
uomo, tanto piú se si tratta della coscienza del Papa. È totalmente fuori luogo
esprimere giudizi sul suo gesto, tanto piú i giudizi estremi, sia in senso
positivo («Un gesto coraggioso!») sia in senso negativo («Un atto di viltà!»).
Se però dal livello dell’opportunità
passiamo a quello della legittimità, mi pare che il discorso cambi
completamente. Se ci chiediamo se quanto è avvenuto sia legittimo, cioè
giuridicamente possibile, credo che non ci debbano essere dubbi: è tutto (sottolineo “tutto”, volendo
comprendere anche i dettagli) pienamente legittimo. La possibilità di rinuncia
è prevista dal can. 332 § 2: «Nel caso
che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che
la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si
richiede invece che qualcuno la accetti». Si badi bene che tale possibilità
non viene in alcun modo limitata: non si parla neppure, come in altri casi, di
“gravi motivi”. Le uniche condizioni previste per la validità della rinuncia
sono la sua piena libertà e la sua debita manifestazione (condizioni che, nella
fattispecie, sono state pienamente rispettate). Questo dovrebbe rassicurarci e
liberarci completamente dal sospetto che, con l’imminente conclave, si possa
procedere all’elezione di un “antipapa”.
Se sulla legittimità giuridica
della rinuncia non ci piove, visto che è espressamente contemplata dal diritto canonico,
può dirsi altrettanto delle decisioni prese riguardo ai risvolti pratici della
rinuncia, risvolti non previsti dal diritto, trattandosi di una situazione
totalmente nuova? Mi riferisco al fatto che Benedetto XVI abbia deciso di
continuare a usare tale nome, di adottare per sé il titolo inedito di “Papa
emerito” o “Romano Pontefice emerito”, di conservare l’appellativo di “Sua
Santità” e di continuare a indossare la veste bianca. Quantunque su questi aspetti
non esista alcun punto di riferimento oggettivo, mi sembra che, anche in questi
casi, ci si sia mossi nella piú completa correttezza giuridica.
La questione centrale è quella
del titolo di “Papa emerito”, contestato da alcuni con la sorprendente
motivazione che… non può esistere un Papa emerito: o si è Papa o non lo si è.
Infatti. Ma un Papa emerito non è piú Papa; è soltanto un Papa… emerito. Che
cosa significa “emerito”? Lo spiega il can. 185: «A colui che perde l’ufficio per raggiunti limiti d’età o per rinuncia
accettata, può essere conferito il titolo di emerito». Si noti: non si sta
parlando dei Vescovi (a cui si riferisce il can. 402), ma della “perdita dell’ufficio ecclesiastico”, di un qualsiasi
ufficio ecclesiastico. Il supremo pontificato è o non è un ufficio
ecclesiastico? Sí. Benedetto XVI, con la sua rinuncia, ha perso o non ha perso
il suo ufficio? Sí. Può o non può assumere il titolo di “Papa emerito”? A norma
del can. 185, si direbbe proprio di sí. Tale titolo non significa che Benedetto
XVI sia ancora Papa, ma solo che è stato Papa (e questo nessuno può negarlo).
È stata fatta un’analogia con i
Vescovi, e si è detto che il Vescovo emerito continua a essere Vescovo. Certo,
ma il suo titolo non è, semplicemente, “Vescovo emerito”, bensí Vescovo emerito
di una determinata sede: «Il Vescovo, la
cui rinuncia all’ufficio sia stata accettata, mantiene il titolo di emerito
della sua diocesi» (can. 402 § 1). L’aggettivo “emerito” non si riferisce
propriamente a “Vescovo”, ma all’ufficio che quel Vescovo aveva di essere pastore
di una determinata diocesi.
Qualcuno (p. es. Padre Gianfranco
Ghirlanda su La Civiltà Cattolica)
aveva suggerito di adottare, appunto, il titolo di “Vescovo emerito di Roma”.
Con tutto il rispetto per chi ha sostenuto tale tesi, chiedo: qual è il titolo
del Vescovo di Roma? “Papa”. Se, dunque, si può dire (e certamente si può dire)
“Vescovo emerito di Roma”, perché non si potrebbe dire “Papa emerito”? A
maggior ragione, si potrà usare l’espressione “Romano Pontefice emerito” (si
noti che non si è mai parlato di “Sommo Pontefice emerito”), dal momento che Romanus Pontifex non è altro che il corrispondente
latino di “Vescovo di Roma”.
Ma il mio sospetto è che, dietro
questa querelle canonica, si nasconda un’errata visione teologica del
ministero petrino. Sembrerebbe di capire che, secondo alcuni, il Successore di Pietro
abbia un duplice ufficio, quello di Vescovo di Roma e quello di Papa,
intendendo tale termine come sinonimo di “pastore supremo della Chiesa
universale”, quasi che, per ipotesi, uno potesse esercitare soltanto uno dei due
uffici disgiunto dall’altro. Tutto ciò è semplicemente assurdo. È il Vescovo di
Roma che, in quanto tale, esercita il primato su tutta la Chiesa. Il termine “Papa” non sta a
indicare un ufficio ulteriore rispetto a quello di Vescovo di Roma, ma è
semplicemente il titolo proprio del Vescovo di Roma.
Qualcuno ha contestato anche il
mantenimento del nome “Benedetto XVI”, sostenendo che bisognerebbe tornare a
chiamare Benedetto XVI “Cardinale Ratzinger”, dando per scontato che un Papa
dimissionario torni a essere un Cardinale. E dove sta scritto? È vero che questo
è storicamente avvenuto, ma ciò non significa che debba automaticamente
avvenire. Il Cardinale Ratzinger, divenendo Papa, ha cessato di essere membro
del Sacro Collegio; per rientrarvi a farne parte, dovrebbe essere di nuovo creato
Cardinale dal suo successore; ma mi sembrerebbe una cosa del tutto fuori luogo.
Non vedo dove sia lo scandalo se, una volta rinunciato al suo ufficio, Benedetto
XVI mantiene il nome assunto il giorno dell’elezione al pontificato. Un re,
quando abdica, non conserva forse il nome che aveva quando regnava?
Il resto (l’appellativo “Sua
Santità”, l’abito bianco) viene da sé. È normale che chi ha goduto di un certo
titolo, lo mantenga anche dopo la perdita dell’ufficio. Nel mio Ordine
religioso il Superiore generale ha diritto a essere chiamato “Reverendissimo”,
titolo che conserva per il resto dei suoi giorni, anche dopo aver terminato il
suo mandato. Del resto, abbiamo incominciato a chiamare “Santità” anche alcuni
Patriarchi orientali non cattolici; e non dovremmo chiamare “Santità” il Papa emerito? Sulla talare
bianca non mi sembra che possano esserci assolutamente problemi: anch’io,
quando ero in missione, ne facevo uso (e continuo a farne uso nella foto di
questo blog, proprio perché è stata un’esperienza che ha segnato la mia vita).
Anzi, non vedrei nulla di strano (per quanto non credo che potrà mai avvenire)
se Benedetto XVI assistesse, in abito corale, a qualche celebrazione del nuovo Pontefice,
cosí come accade normalmente nelle diocesi con i rispettivi Vescovi emeriti.
Vorrei terminare con una
riflessione. Penso che la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ci costringa
a un approfondimento del ruolo del Papa. Ci aiuta lui stesso a farlo.
Nell’ultima udienza generale ha affermato: «Il
“sempre” è anche un “per sempre” — non c’è piú un ritornare nel privato. La mia
decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo.
Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti,
conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il
Signore Crocifisso. Non porto piú la potestà dell’officio per il governo della
Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per cosí dire, nel recinto di San
Pietro» (27 febbraio 2013). Se è vero che, con la sua rinuncia, Benedetto
XVI ha perso qualsiasi tipo di giurisdizione, ciò non significa che, con ciò, è
tornato a essere un semplice fedele o, se vogliamo, un semplice Vescovo in
pensione. Sembrerebbe di capire che il ministero petrino non si esaurisca nell’esercizio
dell’autorità, ma possieda una dimensione spirituale (il “servizio della
preghiera”), che continua al di là della rinuncia: è ciò che Benedetto XVI
vuole esprimere con il suo ritirarsi in clausura, con il suo “salire sul monte”
a pregare per la Chiesa. La Chiesa la si serve, sí, governandola, ma la si
serve anche, e forse soprattutto, pregando per essa. Lo stesso luogo, da lui
scelto, per espletare questo servizio (“nel recinto di San Pietro”), sta a
indicare la continuità fra il prima e il dopo la rinuncia. Forse il titolo di “Papa
emerito” vuole esprimere anche tale continuità.