martedì 5 gennaio 2016

«Non c'è distinzione fra Giudeo e Greco»


Il 10 dicembre 2015 la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, in occasione del 50° anniversario della dichiarazione conciliare Nostra ætate (28 ottobre 1965), ha pubblicato il documento “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”. Il documento si presenta come una serie di “riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche”. Nella prefazione sono indicati i temi trattati nel documento: «l’importanza della rivelazione, il rapporto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, la relazione tra l’universalità della salvezza in Gesú Cristo e la convinzione che l’alleanza di Dio con Israele non è mai stata revocata, ed il compito evangelizzatore della Chiesa in riferimento all’ebraismo». La medesima prefazione precisa, opportunamente, che «il testo non è un documento magisteriale o un insegnamento dottrinale della Chiesa cattolica», ma vuole solo «essere un punto di partenza per un ulteriore approfondimento teologico, teso ad arricchire e ad intensificare la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico». Tale precisazione è molto importante, perché in genere i media (che per altro hanno evidenziato del documento quasi esclusivamente l’asserzione, fatta al n. 40, che «la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei») non si sono preoccupati di evidenziarla, inducendo cosí l’opinione pubblica a pensare che si tratti di una presa di posizione ufficiale della Chiesa cattolica.

Si tratta di un documento fondamentalmente onesto: al n. 39, per esempio, si riconosce che l’affermazione che «l’alleanza stretta da Dio con il suo popolo Israele è sempre in vigore e non sarà mai invalidata … non si trova esplicitamente espressa in Nostra ætate», ma che è stata espressa per la prima volta da Giovanni Paolo II a Magonza nel 1980, per essere poi ripresa dal Catechismo della Chiesa cattolica (n. 121). Dobbiamo aggiungere qui che la medesima affermazione è stata successivamente fatta propria dall’attuale Pontefice nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 247). In tal modo risulta piú facile ricostruire l’evolu­zione di quella che sembrerebbe costituire la tesi centrale del documento.

Il documento riafferma apertamente, a piú riprese, la fede cattolica nell’unicità della mediazione di Cristo e nell’esclusione di due vie salvifiche parallele: «Non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto “Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo”. La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini» (n. 25); «La teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesú di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana. Confessare la mediazione salvifica universale e dunque anche esclusiva di Gesú Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana tanto quanto confessare il Dio uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi in Gesú Cristo, si è manifestato pienamente come il Dio di tutti i popoli, nella misura in cui in Cristo si è compiuta la promessa che tutti i popoli pregheranno il Dio di Israele come l’unico Dio (cf Is 56:1-8). Nel documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede “Circa una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica” si afferma dunque che la Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come “due vie parallele di salvezza” e che la Chiesa deve “testimoniare il Cristo Redentore a tutti” (n. I, 7). La fede cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesú Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è “altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4:12)» (n. 35).

Da tale ineccepibile riaffermazione della fede cattolica però non viene tratta la naturale conseguenza, che cioè anche gli ebrei, per salvarsi, devono percorrere l’unica via di salvezza, che è Cristo. Anzi, si sostiene — difficile afferrare con quale logica — che «dalla confessione cristiana di un’unica via di salvezza non consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio perché non credono in Gesú Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio». E, per provare tale sorprendente dichiarazione, ci si appella a San Paolo, «il quale, nella Lettera ai Romani, esprime la sua convinzione non soltanto che non può esserci una rottura nella storia della salvezza, ma anche che la salvezza viene dagli ebrei (cf anche Gv 4:22). Dio ha affidato a Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo misterioso piano di salvezza rivolto a tutti i popoli (cf 1 Tm 2:4) senza coinvolgere il suo “figlio primogenito” (Es 4:22). Vediamo dunque chiaramente che Paolo, nella Lettera ai Romani, risponde in maniera negativa e determinata alla domanda che lui stesso si è posto, ovvero se Dio abbia ripudiato il suo popolo. In maniera altrettanto decisa afferma: “perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Rm 11:29)» (n. 36).

Sinceramente, si fa fatica a rintracciare nella lettera ai Romani il fondamento di tali asserzioni. Si ha l’impressione che si formuli una tesi a priori, e poi la si attribuisca a Paolo, senza esibirne le prove. È significativo che nel passo appena riportato, dove si fa riferimento alla lettera ai Romani, di tale lettera si citi soltanto 11:29. D’altra parte, anche nel resto del documento i testi della lettera ai Romani che vengono citati sono limitati: 9:4 («Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse»); 11:1-2 («Io domando dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! … Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio»); 11:16-21 (l’apologo dell’oleastro innestato nell’olivo). Testi bellissimi, sia ben chiaro, ma che non autorizzano a trarre le conclusioni a cui giunge il documento, a meno che non li si isoli dal contesto, che viene infatti per lo piú sistematicamente ignorato. Se leggiamo i capitoli 9-11 nella loro interezza e senza preconcetti ideologici, ci accorgiamo che Paolo non è affatto tenero con i suoi correligionari; usa espressioni oggi considerate “politicamente scorrette”: tanto per fare qualche esempio, «un popolo disobbediente e ribelle!» (10:21; cf 11:31); «sono stati resi ostinati» (11:7; cf 11:25); «siano accecati i loro occhi» (11:10); «quanto al vangelo, essi sono nemici» (11:28). Il comportamento degli ebrei viene definito da Paolo: “caduta” (11:11-12; cf 11:22); “fallimento” (11:12); “rifiuto” (11:15; non è ben chiaro se il rifiuto vada inteso in senso attivo o passivo). È evidente che con ciò Paolo non vuole che gli ebrei siano considerati una massa damnata, perduta per sempre, senza alcuna possibilità di salvezza.

Il pensiero di Paolo viene bene illustrato dalla metafora dell’olivo (11:16-24), su cui si sofferma il documento al n. 34 (facendo però delle riflessioni che non trovano riscontro nel testo paolino e ignorando ciò che effettivamente dice l’Apostolo). Il ragionamento di Paolo è di una chiarezza straordinaria: alcuni rami sono stati tagliati, perché altri, provenienti da un olivo selvatico (“oleastro”) venissero innestati; anche i rami tagliati potranno essere re-innestati, a patto che non perseverino nell’incredulità. La condizione degli ebrei non è definitiva: essa è stata permessa per favorire la conversione dei pagani, ma verrà il giorno (quando saranno entrate tutte quante le genti) in cui «tutto Israele sarà salvato» (11:26). Ma ciò non avverrà a prescindere da Cristo, bensí grazie a lui e attraverso di lui.

La stessa citazione di 11:29 («i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!»), ripetuta piú volte dal documento come prova definitiva del fatto che l’alleanza con Israele non è stata revocata e che quindi gli ebrei parteciperebbero alla salvezza «senza una confessione esplicita di Cristo» (n. 36), viene interpretata in maniera superficiale e riduttiva: fra i doni — “irrevocabili” — concessi da Dio al suo popolo va certamente annoverata l’alleanza; ma Paolo ai doni aggiunge molto significativamente anche la “chiamata”. I doni di Dio comportano sempre una chiamata, una chiamata a cui si deve rispondere; e la risposta alla chiamata di Dio è la fede. Senza fede — senza la fede in Cristo! — non c’è salvezza. E questo vale per tutti, pagani ed ebrei.

Se non si segue questa logica, che è la logica della parola di Dio, si finisce in un groviglio, da cui poi non si sa come uscire. Sostenere, come fa il documento, che gli ebrei possono salvarsi indipendentemente da Cristo, è difficilmente conciliabile con la fede cattolica riaffermata dallo stesso documento, per cui alla fine non resta che rifugiarsi nel mistero: «Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile» (n. 36).

Il documento non si accorge che, ammettendo per gli ebrei una “corsia preferenziale” verso la salvezza, va contro uno dei capisaldi della dottrina paolina: «Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco» (Rm 10:12; cf 1 Cor 12:13; Gal 3: 28; Col 3:11). Di fronte a Dio siamo tutti uguali, peccatori bisognosi di salvezza: «Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesú» (Rm 3:22-24); «Dio ha rinchiusi tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti» (Rm 11:32); «La Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché la promessa venisse data ai credenti mediante la fede in Gesú Cristo» (Gal 3:22).

Una delle tesi principali del documento è la asserita “delegittimazione” della cosiddetta “teologia della sostituzione” (altrimenti detta, con orribile espressione diffusa nel mondo anglosassone, “supersessionismo”). Dopo aver velocemente descritto, da un punto di vista storico, l’origine di tale teologia (ne viene onestamente riconosciuta la derivazione patristica) e il suo successivo sviluppo nel medioevo, il documento prosegue: «Con la Dichiarazione Nostra ætate (n. 4), la Chiesa professa inequivocabilmente, all’interno di un nuovo quadro teologico, le radici ebraiche del cristianesimo. Mentre mantiene salda l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in Cristo, essa non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto. Viene cosí delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili ed una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa. Da un rapporto originariamente stretto tra ebraismo e cristianesimo si era sviluppata una lunga relazione di tensioni che, dopo il Concilio Vaticano Secondo, è stata gradualmente trasformata in dialogo costruttivo» (n. 17).

Il documento dimentica di dire che non sono solo i Santi Padri e i teologi medievali a usare espressioni quali “nuovo Israele” e “nuovo popolo di Dio” (si spera che non siano anch’esse espressioni da considerare “delegittimate”!), dal momento che le ritroviamo, tali e quali, in quello che è il documento piú autorevole del Concilio Vaticano II, la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (n. 10). Anzi, la stessa dichiarazione Nostra ætate — ma questo viene onestamente riportato (n. 23) — rivendica alla Chiesa il titolo di “nuovo popolo di Dio” (n. 4).

Il successivo n. 18 va citato per intero, per evidenziare il metodo — non del tutto corretto — che viene usato dal documento per accostarsi alla parola di Dio: «Si è tentato spesso di individuare il fondamento della teoria della sostituzione nella Lettera agli Ebrei. Tuttavia, questa epistola non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di origine ebraica, che iniziavano a sentirsi stanchi ed insicuri. Il suo intento è di rafforzare la loro fede e di incoraggiarli nella loro perseveranza, indicando Gesú Cristo come il vero e definitivo sommo sacerdote, il mediatore della Nuova Alleanza. È questo il contesto che occorre tenere a mente per comprendere il contrasto, nella Lettera, tra una prima Alleanza, puramente terrena, ed una seconda Alleanza, nuova (cf Eb 9:15; 12:24) e migliore (cf 8:7). La prima Alleanza è definita antiquata, già invecchiata e prossima a sparire (cf 8:13), mentre la nuova Alleanza è detta eterna (cf 13:20). Per giustificare questo contrasto, l’epistola si riferisce alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia 31:31-34 (cf Eb 8:8-12). Ciò mostra che la Lettera agli Ebrei non intende provare la falsità delle promesse dell’Antica Alleanza, ma, al contrario, la loro fondatezza. Il riferimento alle promesse veterotestamentarie vuole essere d’aiuto ai cristiani, rendendoli sicuri della salvezza in Cristo. Il punto cruciale della Lettera agli Ebrei non è dunque la contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza cosí come la intendiamo oggi, e neanche il contrasto tra Chiesa ed ebraismo. Piuttosto, la contrapposizione è tra il sacerdozio eterno celeste di Cristo ed il sacerdozio provvisorio terreno. Il tema centrale nella Lettera agli Ebrei, davanti alla nuova situazione creatasi, è l’interpretazione cristologica della Nuova Alleanza. E questo è precisamente il motivo per cui Nostra ætate (n. 4) non ha fatto riferimento alla Lettera agli Ebrei, ma alle riflessioni di San Paolo nella Lettera ai Romani 9-11».

Ancora una volta, si fa fatica a seguire il ragionamento del documento: si citano i testi che hanno favorito la nascita della teologia della sostituzione (in particolare, Eb 8:13), ma poi, senza darne una spiegazione alternativa, si giunge a conclusioni opposte, di cui risulta difficile cogliere il fondamento. Si fanno tante asserzioni giuste (p. es., che la lettera non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di origine ebraica), ma che non sempre appaiono del tutto pertinenti.

Un’affermazione importante è che al centro della lettera agli Ebrei c’è “la contrapposizione … tra il sacerdozio eterno celeste di Cristo ed il sacerdozio provvisorio terreno”. Non ci si accorge però dello stretto rapporto che intercorre nella lettera fra sacerdozio e alleanza: il sacerdozio di Cristo è, appunto, sacerdozio della Nuova Alleanza: «Egli ha avuto un ministero tanto piú eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è mediatore» (8:6).

Ma c’è un altro aspetto che mi sembra centrale nella lettera agli Ebrei e che solitamente (non solo nel documento, ma anche nella maggior parte delle edizioni moderne della Bibbia) viene totalmente ignorato. Si tratta del concetto di translatio sacerdotii, che potrebbe addirittura costituire la chiave di lettura della lettera e rappresentare una pista da seguire per una eventuale revisione della teologia della sostituzione e del rapporto della Chiesa con il popolo d’Israele. In 7:12 tutte le moderne traduzioni leggono: «Mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della Legge». Sembrerebbe di capire che, con Cristo, sia avvenuta soltanto una “trasformazione” del sacerdozio: per usare le espressioni del nostro documento, da un sacerdozio provvisorio/terreno si sarebbe passati al sacerdozio eterno/celeste di Cristo. Se però andiamo a leggere il testo latino (che traduce letteralmente l’originale greco), ci accorgeremo che il significato è un altro: «Translato sacerdotio, necesse est, ut et legis translatio fiat». Non si sta parlando di “mutazione”, ma di “trasferimento”. Il termine greco, a tutti comprensibile, è μετάθεσις, “metàtesi”, che anche in italiano significa “trasposizione”. Il sacerdozio, secondo la lettera agli Ebrei, è stato trasferito. La stessa lettera accenna a un trasferimento di tribú: dalla tribú di Levi alla tribú di Giuda (7:13-14); ma è facile intuire che il trasferimento è avvenuto tra Aronne e Cristo, tra Israele e la Chiesa.

Il testo della lettera agli Ebrei sostiene che, avvenuto il trasferimento del sacerdozio, è necessario un trasferimento della legge. E infatti, poco piú avanti, si afferma: «Si ha cosí l’abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità — la Legge infatti non ha portato nulla alla perfezione — e si ha invece l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale noi ci avviciniamo a Dio» (7:18-19).

Lo stesso discorso può farsi a proposito del culto, strettamente legato al sacerdozio. Nel capitolo 10, descrivendo l’ingresso di Cristo nel mondo, dopo aver citato il Salmo 40, la lettera afferma: «Dopo aver detto: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Cosí egli abolisce il primo [sacrificio] per costituire quello nuovo» (10:8-9). Il verbo usato (ἀναιρεῖ) è molto forte: in questo caso si tratta di vera e propria “rimozione”.

Inevitabile l’estensione dello stesso concetto all’alleanza. Nel capitolo 8, dopo aver citato il lungo testo del profeta Geremia sulla nuova alleanza, la lettera agli Ebrei conclude: «Dicendo nuova [alleanza], Dio ha dichiarata antica la prima: ma ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire» (8:13). Anche qui si usa un termine molto forte: ἀφανισμός, che significa “distruzione”, “sparizione”.

Checché ne dica il documento, la lettera agli Ebrei è molto chiara a proposito del rapporto tra antico e nuovo sacerdozio, antica e nuova legge, antico e nuovo culto, antica e nuova alleanza, realtà fra loro strettamente legate. Semmai, andranno precisati i termini; ma non si può ignorare il loro evidente significato globale: il vecchio ordinamento è stato rimpiazzato dal nuovo.

Per concludere e per cercare di chiarire e fissare alcuni punti, potremmo porci alcune domande:

1. Dio ha ripudiato il suo popolo? È la domanda che si pone Paolo in Rm 11:1 e alla quale risponde senza esitazione: «Impossibile … Dio non ha ripudiato il suo popolo (cf 1 Sam 12:22; Sal 93/94:14), che egli ha scelto fin da principio» (Rm 11:1-2).

2. L’alleanza con Israele è stata revocata? Come correttamente fa notare il documento, Nostra ætate non risponde a tale domanda; però il successivo magistero della Chiesa è giunto ormai a una conclusione, sulla quale sembra difficile che si possa tornare: «L’Antica Alleanza non è mai stata revocata» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 121). Il fondamento di tale affermazione può essere individuato nel testo paolino che dà il titolo al documento: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11:29, anche se si potrebbe discutere sulla correttezza della traduzione di ἀμεταμέλητα con “irrevocabili”: forse sarebbe piú corretto tradurre con “senza ripensamento”).

3. Quale è il rapporto tra l’Antica e la Nuova Alleanza? Il documento risponde: «La Nuova Alleanza non revoca le precedenti alleanze, ma le porta a compimento» (n. 27); «La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza» (n. 32). Su tali affermazioni si può sostanzialmente convenire. Penso che il testo che meglio descrive i rapporti tra Antica e Nuova Alleanza sia la costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II (ciò che si dice dei due “Testamenti” può essere tranquillamente riferito alle rispettive “Alleanze”): «Dio, il quale ha ispirato i libri dell’uno e dell’altro Testamento e ne è l’autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova Alleanza nel sangue suo, tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento, che essi a loro volta illuminano e spiegano» (n. 16).

4. Esistono due vie parallele di salvezza? Come abbiamo visto, aveva già risposto a questa domanda il documento pubblicato dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo nel 1985: «La Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come due vie parallele di salvezza» (n. I, 7). Tale risposta viene ora ripresa dal recente documento: «Non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto “Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo”. La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini» (n. 25); «La teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesú di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana» (n. 35). Se questo è vero, non ci si può non porre un’altra domanda:

5. Quale via devono percorrere gli ebrei per giungere alla salvezza? La risposta del documento a tale questione non è chiara, ma sembrerebbe ammettere che ci sia la possibilità per gli ebrei di partecipare alla salvezza senza una confessione esplicita di Cristo (n. 36). Gesú ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14:6). Paolo aggiunge: «Uno solo è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesú» (1 Tm 2:5). Se esiste una sola via per giungere a Dio e questa via è Cristo, non si possono poi prevedere scorciatoie per alcuni, sostenendo che essi avevano un’alleanza precedente con Dio: «Se la prima alleanza fosse stata perfetta, non sarebbe stato il caso di stabilirne un’altra» (Eb 8:7). Se l’Antica Alleanza fosse stata sufficiente a conseguire la salvezza, che bisogno c’era di Cristo? «Se la giustificazione viene dalla Legge (= Antica Alleanza), Cristo è morto invano» (Gal 2:21).

6. La Chiesa deve annunciare Cristo agli ebrei? Il documento risponde: «La Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto — per principio — di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesú Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah» (n. 40). Ciò non sembra molto coerente con quanto lo stesso documento afferma al n. 35, riprendendo le parole del documento del 1985 (che a sua volta citava le Guidelines and Suggestions for Implementing the Conciliar Declaration “Nostra Ætate” (n. 4) del 1974): «La Chiesa deve testimoniare il Cristo Redentore a tutti». Non è inoltre molto chiaro che cosa si intenda con “missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei”. Ciò che conta è, ancora una volta, non prevedere, per gli ebrei, una situazione privilegiata, quasi che essi non abbiano bisogno del vangelo per salvarsi. Dice San Paolo: «Non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rm 1:16). Prima del Giudeo, poi del Greco: spesso ci dimentichiamo che, alle origini, la salvezza è stata annunciata innanzi tutto ai giudei, solo successivamente ai pagani. 

7. È ancora possibile una “teologia della sostituzione”? Come abbiamo visto, la risposta del documento a tale domanda è categorica: «Viene delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili ed una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa» (n. 17); «La Chiesa non sostituisce Israele» (n. 23); «La Nuova Alleanza non può mai sostituire l’Antica» (n. 27); «La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza» (n. 32); «Israele [è] il popolo eletto e amato da Dio, il popolo dell’alleanza, che non è mai stata sostituita o revocata» (n. 34). Sembrerebbe dunque che non rimanga piú nessuno spazio per una qualsiasi “teologia della sostituzione”. Premesso che non si tratta di una dottrina della Chiesa, ma per l’appunto di una teologia, non si vede perché essa non possa essere considerata “legittima”: essa è un tentativo di interpretazione del dato rivelato, ha il suo fondamento nella Scrittura e una lunga tradizione alle spalle. Può essere discussa; può essere rivista (noi stessi abbiamo indicato una possibile pista da seguire); si può proporre, purché sia altrettanto fondata, una teologia alternativa, ma non la si può considerare “delegittimata” a priori. Solo un intervento magisteriale, che finora non c’è stato, potrebbe farlo. Rimane, per finire, ancora una domanda:

8. Come può essere descritto il rapporto fra la Chiesa e Israele? Solitamente lo si intende in termini di rottura: a un certo punto, la Chiesa si sarebbe staccata da Israele e avrebbe preso la sua strada, lasciando che Israele proseguisse per la propria, dando con ciò per scontata la continuità fra l’antico Israele e il giudaismo post-biblico. In realtà, se c’è qualcuno che ha rotto e si è staccato, questo è proprio il giudaismo post-biblico. Il vero erede dell’antico Israele non è il giudaismo post-biblico, ma la Chiesa. Il cristianesimo non può essere considerato un’“eresia” dell’ebraismo, ma la sua legittima continuazione. Non esiste alcuna rottura fra la Chiesa e l’antico Israele, ma perfetta continuità: la Chiesa è la naturale evoluzione dell’antico Israele. Questa è la visione di Paolo nell’apologo dell’olivo (Rm 11:16-21): l’olivo è sempre lo stesso; alcuni rami sono stati tagliati (il giudaismo post-biblico); altri, provenienti dall’olivo selvatico, sono stati innestati (i pagani). La Chiesa non sono solo i rami innestati, ma l’olivo stesso. Chiesa e Israele si identificano: prima di Cristo l’olivo si chiamava “Israele”; dopo Cristo, “Chiesa” o “nuovo Israele”; ma la realtà è la stessa; si tratta del medesimo e unico popolo di Dio, esteso con Cristo a tutte le genti.

«O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen» (Rm 11:33.36).