Prima di scrivere un post, rifletto sempre a lungo sull’argomento che intendo trattare, perché, anche se l’ispirazione — come spesso accade — è immediata, desidero poi considerare tutti gli aspetti del problema, comprese eventuali obiezioni, convinto che la verità non sta mai solo da una parte, ma al di sopra delle varie parti in conflitto tra loro. Forse dipende da un’ansia di perfezionismo, che vorrebbe evitare qualsiasi possibile contraddittorio; e quindi preferisco anticipare tutte le possibili osservazioni, nell’illusione di giungere a una conclusione pressoché definitiva sull’argomento: dire l’ultima parola, in modo che non ci sia poi piú nulla da aggiungere. Di solito però mi càpita, una volta pubblicato il post, di continuare a pensare a quanto ho scritto e di fare altre riflessioni, non necessariamente in contrasto con le precedenti, ma che approfondiscono ulteriormente l’argomento. Mi era successo, per esempio, con uno dei post che ha avuto maggiore risonanza nella storia di questo blog (“Semina Verbi”), sul quale avevo successivamente sentito il bisogno di tornare per fare alcune precisazioni e approfondimenti (“Religione e senso religioso”). Mi è successo di nuovo in questi giorni, dopo la pubblicazione della lunga riflessione sul documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (“Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco”). Questi “ripensamenti” sono in genere occasionati da stimoli provenienti da ulteriori letture; nella fattispecie, dalla parola di Dio proclamata nella liturgia dei giorni scorsi. Mi riferisco al vangelo di domenica (le nozze di Cana) e a quello di ieri, lunedí della II settimana del T. O. (la parabola del vino e degli otri).
A proposito del vangelo di domenica (Gv 2:1-11), ho già postato sul blog la mia omelia, scritta però in inglese e quindi non a tutti accessibile. Riprendo il filo delle mie riflessioni: quello delle nozze di Cana non è solo il primo dei miracoli di Gesú; come dice Giovanni, è l’«inizio dei segni compiuti da Gesú». Tutto ciò che accade è portatore di un profondo significato, che non si limita al fatto che Gesú era cosí bravo da riuscire a trasformare l’acqua in vino. Ogni particolare della narrazione ha un suo significato. A cominciare dal contesto: siamo a una festa di nozze; nell’Antico Testamento il matrimonio è stato sempre usato come immagine dell’alleanza fra Dio e il suo popolo. Già questo ci fa capire di che cosa si tratta: il “segno” di Cana ci parla dell’alleanza fra Dio e il suo popolo. «Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri (letteralmente, “due o tre misure”)»: si noti, le anfore sono sei, una in meno per raggiungere il numero perfetto (sette); sono di pietra, come le tavole della legge mosaica; servono per la purificazione rituale dei Giudei, ma sono vuote. Sembra la descrizione esatta dell’antica alleanza: imperfetta e incapace di salvare (al massimo utile per una purificazione rituale). Gesú non dice di distruggere le anfore (l’antica alleanza non è dunque abrogata), ma di riempirle (l’antica alleanza va perfezionata, portata a compimento). Gesú dice ai servi di riempire d’acqua le anfore e quelli le riempiono fino all’orlo. L’acqua, nel vangelo di Giovanni, è simbolo dello Spirito, che è esattamente ciò che manca all’antica alleanza (c’è la legge, ma senza lo Spirito) ed è ciò che è venuto a portare Gesú. E da questo riempimento delle anfore (l’antica alleanza) con l’acqua (il dono dello Spirito) scaturisce il vino nuovo (la nuova alleanza). A voler essere precisi, il vino non viene detto “nuovo”, ma “buono” (letteralmente, καλός = “bello”, cioè il vino autentico, il vero vino), in contrasto con quello precedente, ormai esaurito, detto “meno buono” (in greco, ἐλάσσων = “inferiore”, cioè il vino scadente). Non può non venire in mente, a questo proposito, l’aggettivo usato dalla lettera agli Ebrei (8:6) per descrivere la nuova alleanza: un’alleanza migliore, fondata su migliori promesse (in greco, κρείττων = “piú forte”, “migliore”, “superiore”). Le due alleanze non possono in alcun modo essere messe sullo stesso piano, quasi che una valga l’altra.
E veniamo al vangelo di ieri (Mc 2:18-22). Anche se in genere i commentatori non sottolineano la cosa, a me pare che si possa vedere in questo brano il testo sinottico “parallelo” alle nozze di Cana (ritroviamo lo stesso testo, con poche varianti, anche in Matteo e Luca). Non si parla di miracolo, ma si parla anche qui di sposo e di invitati a nozze, e anche qui si parla vino, in questo caso di “vino nuovo” (οἶνος νέος). Al posto delle anfore, ci sono gli otri, “vecchi” e “nuovi”: in questo caso, il vino nuovo va versato in otri nuovi, perché, se versato in otri vecchi, fermentando, potrebbe spaccarli. Qui il significato sembrerebbe divergere da quello delle nozze di Cana: mentre lí le anfore vengono conservate e riempite d’acqua che si trasforma in vino (l’antica alleanza non viene abolita, ma trasformata nella nuova), qui i vecchi otri devono essere messi da parte e sostituiti da otri nuovi: «Vino nuovo in otri nuovi». Questo brano sembrerebbe dunque dare ragione alla “teologia della sostituzione”, mentre le nozze di Cana sembrerebbero giustificare una “teologia della pienezza o del compimento”. Però, a leggere con attenzione il brano, ci accorgiamo che, laddove in italiano si parla di “rattoppo nuovo”, nel testo originale si trova l’espressione τὸ πλήρωμα ... τὸ καινόν (letteralmente, “la nuova pienezza”), confermando che la nuova alleanza, pur sbarazzandosi della vecchia, ne costituisce il compimento, la pienezza, il “pleròma”.
Queste considerazioni mi venivano in mente questa mattina leggendo il titolo dell’articolo di fondo di Avvenire: “Ebraismo e cristianesimo: una direzione, due strade”. Anche se poi nell’articolo non si sviluppa il concetto, basta il titolo per dimostrare che l’idea è quella: checché affermi l’ininterrotto insegnamento della Chiesa (compreso il confuso e contraddittorio documento del 10 dicembre 2015), ormai la convinzione generale è che ebraismo e cristianesimo sono due strade che conducono alla stessa meta; antica e nuova alleanza si equivalgono: attraverso di esse ebrei e cristiani possono, rispettivamente, giungere alla salvezza. Con quale fondamento biblico, resta tutto da dimostrare.