Qualcuno dirà che voglio fare le pulci al Santo Padre. Il fatto è che
quando un Pontefice — con i suoi buoni motivi che non sarò io a contestare —
decide di abbandonare quell’aura sacrale che aveva finora avvolto la sua
persona, per mettersi al livello degli altri, è inevitabile che, cosí facendo,
si esponga a possibili critiche. Penso che questo Papa Francesco lo abbia previsto e che,
tutto sommato, non solo non gli dia fastidio, ma gli faccia pure piacere. È
ovvio che, se un Papa non limita il suo magistero alle encicliche e ai discorsi
ufficiali, ma ritiene utile tenere quotidianamente una meditazione a braccio
sulla liturgia del giorno, qualcuno possa avanzare degli appunti alle sue
riflessioni, che non sono — come ho avuto modo di dire in altra occasione — “magistero”
propriamente detto, ma semplice esercizio del munus docendi della
Chiesa, come nel caso di qualsiasi altro sacerdote. Ciò che conta è che, se si
fa una legittima critica, essa si mantenga nei limiti della buona educazione ed
entro i parametri previsti dal diritto:
In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, [i fedeli] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone (can. 212, § 3).
Venerdí scorso, 5 maggio, la liturgia proponeva, nella prima lettura, il
racconto della conversione di Paolo (At 9:1-20). Papa Francesco ha preso spunto
dal brano biblico per tornare su uno dei temi che, in questo periodo, ricorrono
piú frequentemente non solo nei suoi interventi, ma anche in quelli di altri
prelati: la rigidità (si veda il testo sul sito della Santa Sede). Nella sua meditazione il Papa ha fatto
una distinzione fra i “rigidi onesti” (fra i quali ha messo Saulo) e i “rigidi
ipocriti”, quelli cioè caratterizzati da una doppia vita (come esempio dei
quali ha portato i dottori della legge). La distinzione, naturalmente, ha un
fondamento reale: è vero che esistono rigidi onesti e rigidi ipocriti; ma mi è
sembrato che l’enfasi non venisse posta tanto sull’opposizione
onestà-ipocrisia, quanto piuttosto sulla rigidità. Mi par di capire che il vero
male non starebbe tanto nell’ipocrisia, quanto nella rigidità. L’onestà di
Saulo sembra scomparire di fronte al suo “peccato originale”, che sarebbe la rigidità.
Non si considera il fatto che quell’onestà, pur senza costituire un titolo
all’elezione divina, mette Saulo nella condizione di poter essere scelto da Dio
per il compimento dei suoi disegni.
Papa Bergoglio fa poi un’affermazione, dal mio punto di vista, piuttosto
discutibile:
Saulo «era un ragazzo, rigido, idealista, con la rigidità della legge che aveva imparato nella scuola di Gamaliele».
Personalmente, sono sempre stato convinto che la formazione ricevuta da
Saulo fosse determinante per il suo futuro apostolato. Del resto, la
Provvidenza tutto dispone in vista della realizzazione dei suoi piani. Orbene,
non mi sembra proprio che si possa affermare che Saulo apprese la rigidità alla
scuola di Gamaliele. Semmai, è vero il contrario. Se c’era un fariseo “aperto”,
questi è proprio Gamaliele. La TOB lo definisce «un fariseo di tendenza
liberale nell’interpretazione della legge» (nota ad At 5:34). È vero che, di
fronte ai giudei, Paolo dichiara di essere stato «formato alla scuola di
Gamaliele nell’osservanza scrupolosa della legge dei padri» (At 22:3); ma è
altrettanto vero che, nel suo discorso dinanzi al sinedrio, Gamaliele dimostra
una saggezza, una moderazione, una tolleranza, un’apertura mentale, che difficilmente
possono essere attribuite a una persona “rigida”. Certamente Saulo apprese da
Gamaliele l’osservanza scrupolosa della legge; ma come potremmo pensare che non
assorbí, insieme, anche un pizzico della sua apertura mentale?
Quando il Papa parla della conversione di Saulo, la descrive nei seguenti
termini:
«Lí c’è l’incontro di quell’uomo che ispira minacce e stragi con un altro uomo che parla con un linguaggio di mitezza: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”».
Giustissimo parlare di “incontro”: in questo consiste l’esperienza vissuta
da Saulo sulla via di Damasco. Ciò che mi pare alquanto discutibile — sebbene comprensibile
in un simile contesto — è la contrapposizione tra “quell’uomo che spira minacce
e stragi” e “un altro uomo che parla con un messaggio di mitezza”. Si ha
l’impressione che, anziché sottolineare l’incontro tra due persone, ci sia la
preoccupazione di affibbiare a queste un’etichetta: da una parte c’è
una persona rigida e dall’altra una persona mite. E ciò che
avviene, prima di essere l’incontro fra due persone, è lo scontro fra
due qualità, la rigidità e la mitezza, con il sopravvento della seconda
sulla prima. La mia potrebbe sembrare una pignoleria, ma non lo è: ciò che
qualifica una persona non sarebbe piú l’essere persona, a prescindere da
qualsiasi ulteriore determinazione, ma il possedere una determinata qualità,
l’essere cioè rigidi o miti. E, se proprio vogliamo dirla tutta, questa
mentalità rischia di uccidere il cristianesimo, non tanto perché giudica le
persone, quanto perché lo rende un’astrazione: sostituisce la divinità di
Cristo con alcuni valori morali (nella fattispecie, la mitezza). La conversione
di Saulo non è piú l’incontro fra un povero peccatore e il Figlio di Dio suo
Signore, ma fra la rigidità e la mitezza.
Qualche appunto si potrebbe fare anche a proposito della descrizione del
dopo-conversione:
«Il ragazzo rigido che si è fatto uomo rigido — ma onesto! — si fece bambino» lasciandosi «condurre dove il Signore lo ha chiamato»: è «la forza della mitezza del Signore». Saulo «rimasto cieco dopo questa visione», venne guidato «per mano a Damasco».
Direi che è molto bella questa rilettura spirituale del testo biblico.
Però, anche in questo caso, ritengo che vadano fatte alcune precisazioni.
Sembrerebbe di capire dalle parole del Papa che Saulo, dopo la sua conversione
si sia trasformato: abbia abbandonato la sua rigidità per diventare mite, come
quel Gesú che aveva incontrato. Personalmente, sono sempre stato del parere che
Paolo, dopo la sua conversione, non sia cambiato affatto, sia rimasto lo stesso
di prima. L’unica cosa che è cambiata è stata la “causa” per cui combatteva:
prima, era “accanito nel sostenere le tradizioni dei padri” (Gal 1:14); poi,
trasferisce lo stesso zelo nell’annuncio del Signore che gli era apparso sulla
via di Damasco. Anzi, verrebbe da pensare che Dio abbia scelto Saulo proprio
per il suo carattere — dunque per la sua “rigidità”! — perché essa poteva rivelarsi
uno strumento utile, se messa a servizio della causa del Vangelo. Del resto, questo
non vale solo per Paolo, ma per tutti i santi. Si pensi, tanto per fare un
esempio a caso, a Ignazio di Loyola: soldato era e soldato rimane, anche dopo
la conversione; cambia solo il Re per cui combatte!
Che Paolo non fosse cambiato poi molto dopo la conversione, mi pare che
emerga abbastanza chiaramente da quanto egli scrive nella lettera ai Filippesi:
I veri circoncisi siamo noi, che celebriamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci vantiamo in Cristo Gesú senza porre fiducia nella carne, sebbene anche in essa io possa confidare. Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io piú di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribú di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesú, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesú. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassú, in Cristo Gesú (Fil 3:3-14).
Da questo testo traspare chiaramente che ciò che conta nell’essere
cristiani non è tanto una trasformazione morale della persona (Paolo era
“irreprensibile” già prima della conversione!), quanto piuttosto l’incontro con
Cristo (la “sublimità della conoscenza di Cristo Gesú”). Ciò che conta, dunque,
non è l’essere piú o meno rigidi, ma il mettersi — cosí come si è — al servizio
di Cristo.
Un altro particolare, che si tende a trascurare: il ruolo di Anania. Non si
mostra forse anche lui piuttosto rigido quando il Signore gli chiede di recarsi
da Saulo? Anche di lui si dice, in un altro passo degli Atti, che era un
«devoto osservante della legge» (At 22:12), esattamente come Saulo. Eppure Dio si serve di
lui per fare di Paolo un cristiano: Anania costituisce il primo incontro di
Saulo con la Chiesa.
Non è mancato nella meditazione di Papa Francesco un pensiero per i rigidi
che ci sono oggi nella Chiesa, specialmente giovani (pensava forse a certi
seminaristi?):
«Io penso, quando dico questo, a tanti ragazzi che sono caduti nella tentazione della rigidità, oggi, nella Chiesa: alcuni sono onesti, sono buoni, dobbiamo pregare perché il Signore li aiuti a crescere sulla strada della mitezza».
Non è la prima volta che affiora questa preoccupazione del Papa per i
giovani “rigidi”. Io penso però che il Santo Padre — che pure, in tante
occasioni, dimostra di essere un fine psicologo — in questo caso non abbia
capito i giovani. Quella che lui chiama “rigidità” non è una “tentazione” in
cui possono cadere alcuni di loro, ma è semplicemente una componente naturale
della loro giovinezza. La potremmo chiamare anche “idealismo”, “estremismo”, “radicalismo”;
sarebbe la stessa cosa. Se un giovane non avesse un pizzico di “rigidità”, non
sarebbe giovane. La vita poi si incarica di smussare gli spigoli, di renderci
piú moderati ed equilibrati (piú “miti”); ma guai se un giovane non fosse
idealista; e guai a noi, se non fossimo capaci di comprendere — anzi, di
valorizzare e incanalare — l’innato estremismo dei giovani.
Insomma, ho l’impressione che, senza accorgerci, stiamo trasformando a poco
a poco il cristianesimo in una sorta di moralismo asfissiante. Sforziamoci di
accettare le persone come sono; non etichettiamole prima ancora di
conoscerle; valorizziamole per quello che sono, anche in ciò che, a prima
vista, potrebbe apparire meno politicamente corretto. Soprattutto, non
dimentichiamo mai che «da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (Mt
3:9; Lc 3:8).
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