Confesso di non aver mai seguito con eccessiva attenzione i Papi nei loro
viaggi apostolici. Son sempre stato del parere che, quando un Papa visita un
paese, è giusto che se lo godano i fedeli e gli abitanti di quel paese. I
discorsi che pronuncia in quella particolare circostanza sono in genere rivolti
a loro e non a tutta la cristianità. Di solito perciò mi limito a leggere i
titoli dei resoconti giornalistici, pur sapendo che, il piú delle volte, essi
evidenziano solo alcuni aspetti, spesso marginali, di quanto ha effettivamente
detto il Santo Padre.
Mi sono regolato allo stesso modo anche in occasione della recente visita
di Papa Francesco in Egitto. Devo dire però che alcuni titoli hanno stuzzicato
la mia curiosità, per cui mi sono andato a leggere il testo completo dei due
discorsi rivolti ai cattolici egiziani: quello al clero, ai religiosi e ai
seminaristi nel Seminario patriarcale di Maadi (qui) e l’omelia della Messa celebrata nell’Air
Defense Stadium (qui). La visita del Papa in Egitto è durata
due giorni (28-29 aprile): il primo è stato dedicato ai musulmani e ai copti;
il secondo, ai cattolici. Non mi soffermerò sul primo giorno, che aveva una
valenza piú ecumenica e universale, ma solo sui due interventi di sabato 29. Di
questi interventi inoltre prenderò in considerazione soltanto alcuni punti,
quelli messi in evidenza dai media. Con ciò ovviamente si finisce per
trascurare l’insieme della visita; ma Antiquo robore non è uno strumento
di informazione ecclesiale, è solo un blog che raccoglie alcuni “pensieri in libertà”
e al quale piace indugiare sui dettagli.
Ciò che colpisce in Papa Francesco, non solo in questa occasione, ma in
generale, è il diverso trattamento da lui riservato a quanti stanno dentro e a
quanti stanno fuori della Chiesa cattolica: tanto si mostra cordiale con quelli
di fuori, quanto si mostra ruvido, a volte addirittura sferzante, nei confronti
dei cattolici. Per carità, un padre deve saper essere l’uno e l’altro: allevare
un figlio non significa coprirlo di carezze; un vero educatore assume di solito
un atteggiamento piuttosto austero, perché esige il massimo dai suoi discepoli.
Un padre, soprattutto, conosce i difetti dei suoi figli e quindi interviene per
correggerli. Ammonisce il Saggio: «Chi risparmia il bastone odia suo figlio,
chi lo ama è pronto a correggerlo» (Pr 13:24). È giusto invece comportarsi
educatamente con gli estranei.
Qualcuno ha fatto notare che, almeno in Egitto, vista la particolare
situazione in cui si trovano a vivere i cristiani di quel paese, sarebbe stato
il caso di insistere non tanto sulla correzione quanto piuttosto sulla
consolazione. Ma va detto, in tutta onestà, che il Papa non ha mancato di
incoraggiare questi nostri fratelli (naturalmente i media si son ben guardati dal
sottolineare questo aspetto):
Desidero innanzitutto ringraziarvi per la vostra testimonianza e per tutto il bene che realizzate ogni giorno, operando in mezzo a tante sfide e spesso poche consolazioni. Desidero anche incoraggiarvi! Non abbiate paura del peso del quotidiano, del peso delle circostanze difficili che alcuni di voi devono attraversare. Noi veneriamo la Santa Croce, strumento e segno della nostra salvezza. Chi scappa dalla Croce scappa dalla Risurrezione! «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc 12:32).
Ha tuttavia ritenuto di dover mettere in guardia anche loro dalle
“tentazioni” che le persone consacrate incontrano ogni giorno sulla loro strada
(interessante il riferimento al magistero dei padri del deserto!): la
tentazione di lasciarsi trascinare e non guidare; la tentazione di lamentarsi
continuamente; la tentazione del pettegolezzo e dell’invidia; la tentazione del
paragonarsi con gli altri; la tentazione del “faraonismo”; la tentazione
dell’individualismo; la tentazione del camminare senza bussola e senza mèta.
Non è la prima volta che Papa Francesco esorta i suoi ascoltatori a fare un
attento esame di coscienza (è rimasto famoso il discorso natalizio alla CuriaRomana del 22 dicembre 2014 con le sue quindici “malattie curiali”). Alcuni dei temi toccati sono ricorrenti
nei discorsi del Santo Padre, non solo in quelli rivolti al clero o ai suoi diretti
collaboratori, ma anche in quelli rivolti ai semplici fedeli. Si prenda, per
esempio, il tema dei pettegolezzi: quante volte Papa Francesco è tornato su
questo argomento nelle omelie e nelle udienze? Evidentemente lo
considera un punto importante. Fece un certo scalpore l’omelia pronunciata
nella parrocchia romana di Santa Maria a Setteville il 15 gennaio scorso (qui). Personalmente, se devo essere sincero,
non ritengo la maldicenza una priorità della Chiesa attuale; sono convinto che
si tratta di una delle tante miserie umane che hanno sempre accompagnato e
sempre accompagneranno i cristiani nel loro pellegrinaggio terreno. Ma non sta
a me decidere che cosa sia piú utile al gregge in questo particolare momento
(al massimo, potrei dissentire sull’affermazione che gli apostoli «non erano
chiacchieroni, non parlavano male degli altri, non parlavano male uno
dell’altro. In questo erano bravi. Non si “spennavano”»; fra i tanti difetti,
purtroppo, avevano anche questo: si veda, p. es., Mc 10:35-45); il pastore
saprà bene di che cosa hanno effettivamente bisogno le pecore. E noi, da figli
docili, accetteremo con umiltà le correzioni che il padre ritiene di impartirci,
sforzandoci di farne tesoro nella nostra vita.
Fra le tentazioni e le malattie che possono colpire i cristiani non c’è
dubbio che ci sia l’ipocrisia. E perciò fa bene Papa Francesco a metterci in
guardia da questo vizio. Anche Gesú faceva lo stesso con i suoi discepoli: «Guardatevi
bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia» (Lc 12:1). Nell’omelia
pronunciata al Cairo si fa riferimento al brano immediatamente precedente nel
vangelo di Luca (11:37-54) e all’episodio di Anania e Saffira (At 5:3-4),
mentre in nota si rimanda a una citazione di Sant’Efrem e a un testo del
Siracide (2:14 Vulg.).
Quel che mi lascia perplesso è la frase che Papa Francesco ha aggiunto: «Per
Dio, è meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!».
Ovviamente, di fronte a una frase come questa, i media sono andati a nozze e
l’hanno variamente riformulata: «Meglio non credenti che ipocriti!»; «Meglio
atei che cattolici ipocriti!»; e via dicendo. Chiedo: dov’è nella Scrittura che
Dio afferma che è meglio non credere piuttosto che essere ipocriti? Che non si
debba essere ipocriti, è piú che evidente: innumerevoli sono le citazioni che
si potrebbero portare. Ma che, piuttosto che essere ipocriti, sia meglio non
credere, sinceramente faccio fatica a trovare anche una sola pezza d’appoggio.
Mi sembra piuttosto una di quelle conclusioni affrettate che spesso
si fanno a partire da una citazione biblica. Un’affermazione di questo genere
mi fa tanto tornare in mente gli slogan diffusi negli anni Settanta, che si
ripetevano continuamente e che, a forza di ripeterli, diventavano una specie di
dogmi indiscutibili. Talvolta si fanno delle affermazioni apodittiche, che
appaiono scontate, al punto che non si sente il bisogno di fermarsi a
considerarne con precisione il significato. Che a un cristiano ipocrita sia
preferibile un ateo sembra un’affermazione ovvia, ma non lo è. Non ci si
accorge che, affermando ciò, mentre fra i credenti si opera una giusta
distinzione fra quanti sono (o almeno si sforzano di essere) coerenti con la
loro fede e quanti non lo sono (nella fattispecie, sono ipocriti), fra i
non-credenti non si opera una analoga distinzione: non si dice che anche fra
gli atei ci possono essere quelli piú buoni e quelli meno buoni; sembra quasi
che tutti gli atei siano buoni per definizione. Sembra che le miserie umane
riguardino solo i credenti, che gli unici peccatori rimasti siano i cristiani.
Che i cristiani, nonostante tutti gli aiuti della grazia, continuino a essere
dei poveri peccatori, non c’è bisogno di dimostrarlo. Ma perché, gli altri — i
non-credenti — sono forse meno peccatori dei cristiani? Ho l’impressione che la
tendenza autolesionistica che si è diffusa all’interno della Chiesa negli
ultimi decenni sia arrivata al punto di rovesciare la realtà: mentre un tempo i
cristiani si consideravano “santi” a prescindere, e tutti gli altri erano una
semplice massa damnata, ora avviene il contrario: tutti gli altri sono
santi; solo noi cristiani siamo i “mostri” che continuano a infestare la terra.
Oltre tutto, ho l’impressione che, facendo certe affermazioni, senza accorgersi,
si mettano in discussione i fondamenti del cristianesimo. La fede — che è
indispensabile per la salvezza («Senza la fede è impossibile essere graditi [a
Dio]», Eb 11:6) — sembra ormai diventata un optional: si può
tranquillamente credere o non credere, tanto non cambia nulla; ciò che conta
non è credere, ma vivere virtuosamente (nel caso in esame, non essere
ipocriti). Una simile mentalità puzza tanto di pelagianesimo.
Nella stessa omelia, un’altra frase di Papa Francesco ha attirato
l’attenzione dei media: «L’unico estremismo ammesso per i credenti è quello
della carità!». Chiaramente, si tratta di una frase a effetto, e come tale va
presa. In particolare, in un contesto in cui esiste la piaga del fanatismo
religioso, non mi sembra fuori luogo richiamare ai cristiani quale sia l’unico
estremismo ammesso nel cristianesimo, quello dell’amore. È quanto mai opportuno
ricordare che la misura dell’amore è quella di amare senza misura, sull’esempio
di Dio, che ci ha amato in modo “eccessivo” («propter nimiam caritatem
suam, qua dilexit nos», Ef 2:4) e che dà lo Spirito senza misura («non ad
mensuram dat Spiritum», Gv 3:34). Anche se ho l’impressione che dai
cristiani egiziani, in questo momento, possiamo solo imparare; non solo perché
mettono a repentaglio ogni giorno la vita, ma anche perché sono pronti a
perdonare i loro carnefici.
Ciò detto, credo però che sia opportuno mettere in guardia dai possibili fraintendimenti
di una frase pur condivisibile come «L’unico estremismo ammesso per i credenti
è quello della carità!». Come detto, si tratta di una frase a effetto; sarebbe
errato prenderla alla lettera, perché in tal caso se ne potrebbero dare false
interpretazioni. Per esempio, si potrebbe pensare che, quando c’è l’amore (quale
amore?), tutto sia lecito, che saltino tutti i parametri della vita morale
(legge, virtú, ordine, razionalità, ecc.). Che l’amore superi la legge, è vero;
ma questo non significa che esso possa andare contro la legge. La carità non
immette nel regno dell’anomia (a-nomos = senza legge). Gesú dice
chiaramente: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14:15).
Talvolta si ha l’impressione che alcuni scambino la carità con lo “spirito
dionisiaco” di nietzschiana memoria, una specie di delirio mistico, di istinto
vitale che sfugge a qualsiasi controllo, regola, limite, razionalità. San Paolo,
di fronte agli eccessi carismatici dei cristiani di Corinto, raccomanda che
«tutto avvenga decorosamente e con ordine» (1Cor 14:40). Anche l’amore deve rispettare
un ordine; la carità, per essere autentica, deve essere illuminata, deve cioè
essere praticata secondo ragione (Papa Benedetto, nella lectio magistralis
di Ratisbona, citava l’espressione di Michele II Paleologo: «Dio agisce con logos»).
La carità non estingue le altre virtú umane e cristiane, semmai le valorizza e tiene insieme in quanto vinculum perfectionis (Col 3:14): chi ama non
è autorizzato ad agire senza prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; anzi, praticherà quelle virtú piú di chiunque altro. Nell’amore non c’è spazio per il fanatismo;
nell’amore l’“estremismo” si risolve nel trionfo della misura, dell’equilibrio,
della moderazione, della discrezione. Per i cristiani essere “estremisti” non significa essere fondamentalisti, ma radicali nella sequela di Cristo e nell’adesione
al Vangelo. Esattamente ciò che stanno dimostrando di essere i cristiani egiziani.
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