Il lezionario biblico-patristico a ciclo biennale curato dall’Unione monastica italiana per la liturgia (L’Ora dell’Ascolto, Piemme-Edizioni del Deserto, Casale Monferrato, 1989) riporta, come seconda lettura dell’Officium lectionis odierno, un bel testo di Sant’Agostino tratto da uno dei suoi discorsi sull’Antico Testamento (Sermo 34: PL 38, 209-213; CCL 41, 424-427). Nella Liturgia delle ore tale lettura verrà utilizzata martedí prossimo. Si tratta di una riflessione sul Salmo 149: Cantate Domino canticum novum. Una riflessione particolarmente adatta per il tempo pasquale, durante il quale tutto parla di novità: uomo nuovo, canto nuovo, testamento nuovo.
Essendo il cantare, oltre che segno di letizia, anche espressione d’amore, Agostino, nel secondo paragrafo del suo discorso, si sofferma sull’oggetto e l’origine di questo amore. Riporto il testo originale di questo paragrafo e, di seguito, la traduzione italiana della Liturgia delle ore, facendo notare che anche nell’edizione latina della Liturgia Horarum alcuni passaggi (da me posti fra parentesi quadre) sono stati tralasciati (forse perché vi si dice che l’apostolo Giovanni, nella sua “ebbrezza” spirituale “eruttò” le prime parole del suo vangelo — «In principio era il Verbo» — e, quasi non bastasse, viene definito “grande ruttatore”!):
Nemo est qui non amet, sed quaeritur quid amet. Non ergo admonemur ut non amemus, sed ut eligamus quid amemus. Sed quid eligimus, nisi prius eligamur? Quia nec diligimus, nisi prius diligamur? Ioannem apostolum audite[. Ille est Apostolus, qui super pectus Domini discumbebat et in eo convivio caelestia secreta bibebat. Ex illo potu et ex illa felici ebrietate ructavit: In principio erat Verbum. Humilitas excelsa et ebrietas sobria! Ille ergo magnus ructator, hoc est, praedicator, inter cetera quae bibit de dominico pectore, etiam hoc dixit]: Nos diligimus quia ipse prior dilexit nos. [Multum enim dederat homini, quandoquidem de Deo loquebatur, dicendo: Nos diligimus. Qui? Quem? Homines Deum, mortales immortalem, peccatores iustum, fragiles immobilem, factura fabrum. Nos dileximus. Et hoc unde nobis? Quia ipse prior dilexit nos.] Quaere unde homini diligere Deum, nec invenies omnino, nisi quia prior illum dilexit Deus. Dedit se ipsum quem dileximus, dedit unde diligeremus. Quid enim dedit unde diligeremus apertius audite per apostolum Paulum: Caritas, inquit, Dei diffusa est in cordibus nostris. Unde? Ne forte a nobis? Non. Ergo unde? Per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis.
Non c’è nessuno che non ami, ma bisogna vedere che cosa ama. Non siamo esortati a non amare, ma a scegliere l’oggetto del nostro amore. Ma che cosa sceglieremo, se prima non veniamo scelti? Poiché non amiamo, se prima non siamo amati. Ascoltate l’apostolo Giovanni [...]: «Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4:19). [...] Cerca per l’uomo il motivo per cui debba amare Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato. Colui che noi abbiamo amato, ha dato già se stesso per noi, ha dato ciò per cui potessimo amarlo. Che cosa abbia dato perché lo amassimo, ascoltatelo piú chiaramente dall’apostolo Paolo: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori». Da dove? Forse da noi? No. Da chi dunque? «Per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5:5).
Come avrete notato, ho evidenziato l’avverbio unde, che ricorre ben sei volte in poche righe, segno che si tratta della questione centrale trattata in questo passo: dopo essersi posto la questione del soggetto (qui? l’uomo) e dell’oggetto (quem? Dio) dell’amore e dopo aver sottolineato la disparità tra l’uno e l’altro («gli uomini, Dio; i mortali, l’Immortale; i peccatori, il Giusto; coloro che passano, Colui che rimane; la creatura, il Creatore»), si chiede: Et hoc unde nobis? (domanda fondamentale che però non appare nella lettura della Liturgia Horarum). Dopo essersi interrogato sul soggetto e l’oggetto dell’amore, Agostino pone la questione dell’origine di tale amore: «Da dove ci viene quest’amore?». E trova la risposta nel testo di Giovanni appena citato (che non è il v. 10, come indicato nella Liturgia delle ore, ma il v. 19): «Perché egli ci ha amati per primo». Noi possiamo amare Dio solo perché, prima, siamo stati amati da lui. Il nostro amore è solo una risposta al suo amore.
Bene. Dopo il primo unde (che, come detto, non compare nella Liturgia delle ore né in latino né in italiano), lo stesso avverbio viene ripetuto altre cinque volte. Come potete vedere, nella versione italiana esso viene tradotto in cinque modi diversi (il motivo per cui, ciò per cui, perché, da dove, da chi). Ora, è vero che nel tradurre è lecito rendere uno stesso termine in maniera differenziata, per fare emergere le varie sfumature che esso contiene; ma a patto che ciò avvenga nel rispetto del suo significato originale. Unde è fondamentalmente un avverbio di luogo, che significa “donde”, “da dove”. È chiaro che esso può essere utilizzato in senso traslato, per indicare la fonte, l’origine da cui qualcosa deriva. Come in questo caso: Agostino si chiede quale sia l’origine del nostro amore per Dio. Meglio, mi sembra che la domanda decisiva di Agostino sia: Da dove deriva all’uomo la possibilità di amare Dio? Questo mi pare il senso autentico della frase: Quaere unde homini diligere Deum. In italiano essa è stata tradotta con: «Cerca per l’uomo il motivo per cui debba amare Dio»; ma mi sembra che tale resa travisi completamente il suo significato reale. Non si tratta di sapere perché dobbiamo amare Dio, ma da dove ci viene la capacità di amare Dio. La traduzione italiana introduce una questione che mi pare assente nel testo, quella del dover amare Dio; mentre qui l’accento è posto non sul comandamento, ma sul dono: Dedit unde diligeremus, ci ha donato la capacità di amarlo (in questo caso la traduzione italiana mi sembra corretta: «Ha dato ciò per cui potessimo amarlo»). Che cosa ci ha donato? «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori». Da dove viene questo amore? Da noi? No, ma dallo Spirito Santo che ci è stato dato.
Tale interpretazione è l’unica che si adatta al contesto, in cui si parla di novità (uomo nuovo, canto nuovo, testamento nuovo). L’amore di Dio inteso come dovere dell’uomo, che pure rimane, non rientra in questo contesto: il comandamento di amare Dio era già presente nel vecchio testamento. Ciò che caratterizza il nuovo testamento è il dono dello Spirito Santo, che abilita l’uomo a compiere il proprio dovere, a fare ciò che il comandamento gli impone. L’uomo può osservare la legge di Dio, non in virtú delle proprie forze naturali, ma in virtú della grazia che gli è stata donata.
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