domenica 10 marzo 2013

Papa emerito?


Dopo venti mesi di letargo, il Querciolino errante (che da tre anni si è pressoché sedentarizzato) torna a far sentire (chissà se solo per una volta o in maniera piú assidua) la sua voce. Come mai, direte voi? Se neppure tanti eventi accaduti in questi quasi due anni lo avevano ridestato dal sonno, come mai proprio ora si rifà vivo?

Stiamo vivendo un momento davvero storico, con la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato e, ora, con i meccanismi che si sono messi in moto per l’elezione del nuovo Papa. Si è scritto tanto in quest’ultimo mese a proposito di tali eventi: molte delle cose dette sono interessanti, altre meno. In ogni caso c’è stato, e continua a esserci, un vivace dibattito. Che bisogno c’era, allora, di aggiungere un’altra voce al coro già cosí numeroso che si sta esibendo in questi giorni?

Se intervengo, è solo per aggiungere qualche riflessione, che mi sembra non sia stata ancora fatta. Il problema che vorrei affrontare è se la rinuncia operata da Benedetto XVI — certamente una novità, un unicum nella storia della Chiesa (i casi precedenti, è stato fatto autorevolmente notare, non possono in alcun modo essere paragonati col caso presente) — costituisca un atto “rivoluzionario”, una svolta radicale, una rottura con la tradizione della Chiesa, o se non sia piuttosto qualcosa che si situa, nonostante l’oggettiva novità, in continuità con il passato, qualcosa che è sempre stato possibile, ancorché praticamente finora mai avvenuto.

Certamente si potrà discutere sull’opportunità di un gesto come quello di Benedetto XVI: ciascuno di noi vede le cose dal proprio punto di vista e quindi è portato a esprimere una valutazione se fosse opportuno o no procedere alla rinuncia al pontificato. Bisognerà però ammettere che, ponendosi su questo piano, si potranno individuare infinite motivazioni sia a favore sia contro la rinuncia. Mi limiterò soltanto a due argomenti, entrambi validi, che possono giustificare l’opportunità o la non-opportunità della rinuncia. Fra i tanti motivi, che sono stati portati per giustificare il gesto di Benedetto XVI, il più interessante, nella sua banalità, mi è parso quello del Card. Georges Cottier: «Oggi si vive piú a lungo … Il vigore e la lucidità però possono non esserci piú». Al contrario, la difficoltà piú seria contro la rinuncia mi sembra essere il rischio di relativismo, insito nelle dimissioni di un Papa. Però capite bene che, se andiamo avanti su questa strada, troveremo sempre innumerevoli argomenti a favore e innumerevoli argomenti contro la rinuncia, senza mai trovare l’argomento risolutivo. Per cui dobbiamo rassegnarci e accettare, con assoluto rispetto, la scelta compiuta, di fronte a Dio, da Benedetto XVI. Nessuno di noi può violare la coscienza di un uomo, tanto piú se si tratta della coscienza del Papa. È totalmente fuori luogo esprimere giudizi sul suo gesto, tanto piú i giudizi estremi, sia in senso positivo («Un gesto coraggioso!») sia in senso negativo («Un atto di viltà!»).

Se però dal livello dell’opportunità passiamo a quello della legittimità, mi pare che il discorso cambi completamente. Se ci chiediamo se quanto è avvenuto sia legittimo, cioè giuridicamente possibile, credo che non ci debbano essere dubbi: è tutto (sottolineo “tutto”, volendo comprendere anche i dettagli) pienamente legittimo. La possibilità di rinuncia è prevista dal can. 332 § 2: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Si badi bene che tale possibilità non viene in alcun modo limitata: non si parla neppure, come in altri casi, di “gravi motivi”. Le uniche condizioni previste per la validità della rinuncia sono la sua piena libertà e la sua debita manifestazione (condizioni che, nella fattispecie, sono state pienamente rispettate). Questo dovrebbe rassicurarci e liberarci completamente dal sospetto che, con l’imminente conclave, si possa procedere all’elezione di un “antipapa”.

Se sulla legittimità giuridica della rinuncia non ci piove, visto che è espressamente contemplata dal diritto canonico, può dirsi altrettanto delle decisioni prese riguardo ai risvolti pratici della rinuncia, risvolti non previsti dal diritto, trattandosi di una situazione totalmente nuova? Mi riferisco al fatto che Benedetto XVI abbia deciso di continuare a usare tale nome, di adottare per sé il titolo inedito di “Papa emerito” o “Romano Pontefice emerito”, di conservare l’appellativo di “Sua Santità” e di continuare a indossare la veste bianca. Quantunque su questi aspetti non esista alcun punto di riferimento oggettivo, mi sembra che, anche in questi casi, ci si sia mossi nella piú completa correttezza giuridica.

La questione centrale è quella del titolo di “Papa emerito”, contestato da alcuni con la sorprendente motivazione che… non può esistere un Papa emerito: o si è Papa o non lo si è. Infatti. Ma un Papa emerito non è piú Papa; è soltanto un Papa… emerito. Che cosa significa “emerito”? Lo spiega il can. 185: «A colui che perde l’ufficio per raggiunti limiti d’età o per rinuncia accettata, può essere conferito il titolo di emerito». Si noti: non si sta parlando dei Vescovi (a cui si riferisce il can. 402), ma della “perdita dell’ufficio ecclesiastico”, di un qualsiasi ufficio ecclesiastico. Il supremo pontificato è o non è un ufficio ecclesiastico? Sí. Benedetto XVI, con la sua rinuncia, ha perso o non ha perso il suo ufficio? Sí. Può o non può assumere il titolo di “Papa emerito”? A norma del can. 185, si direbbe proprio di sí. Tale titolo non significa che Benedetto XVI sia ancora Papa, ma solo che è stato Papa (e questo nessuno può negarlo).

È stata fatta un’analogia con i Vescovi, e si è detto che il Vescovo emerito continua a essere Vescovo. Certo, ma il suo titolo non è, semplicemente, “Vescovo emerito”, bensí Vescovo emerito di una determinata sede: «Il Vescovo, la cui rinuncia all’ufficio sia stata accettata, mantiene il titolo di emerito della sua diocesi» (can. 402 § 1). L’aggettivo “emerito” non si riferisce propriamente a “Vescovo”, ma all’ufficio che quel Vescovo aveva di essere pastore di una determinata diocesi.

Qualcuno (p. es. Padre Gianfranco Ghirlanda su La Civiltà Cattolica) aveva suggerito di adottare, appunto, il titolo di “Vescovo emerito di Roma”. Con tutto il rispetto per chi ha sostenuto tale tesi, chiedo: qual è il titolo del Vescovo di Roma? “Papa”. Se, dunque, si può dire (e certamente si può dire) “Vescovo emerito di Roma”, perché non si potrebbe dire “Papa emerito”? A maggior ragione, si potrà usare l’espressione “Romano Pontefice emerito” (si noti che non si è mai parlato di “Sommo Pontefice emerito”), dal momento che Romanus Pontifex non è altro che il corrispondente latino di “Vescovo di Roma”.

Ma il mio sospetto è che, dietro questa querelle canonica, si nasconda un’errata visione teologica del ministero petrino. Sembrerebbe di capire che, secondo alcuni, il Successore di Pietro abbia un duplice ufficio, quello di Vescovo di Roma e quello di Papa, intendendo tale termine come sinonimo di “pastore supremo della Chiesa universale”, quasi che, per ipotesi, uno potesse esercitare soltanto uno dei due uffici disgiunto dall’altro. Tutto ciò è semplicemente assurdo. È il Vescovo di Roma che, in quanto tale, esercita il primato su tutta la Chiesa. Il termine “Papa” non sta a indicare un ufficio ulteriore rispetto a quello di Vescovo di Roma, ma è semplicemente il titolo proprio del Vescovo di Roma.

Qualcuno ha contestato anche il mantenimento del nome “Benedetto XVI”, sostenendo che bisognerebbe tornare a chiamare Benedetto XVI “Cardinale Ratzinger”, dando per scontato che un Papa dimissionario torni a essere un Cardinale. E dove sta scritto? È vero che questo è storicamente avvenuto, ma ciò non significa che debba automaticamente avvenire. Il Cardinale Ratzinger, divenendo Papa, ha cessato di essere membro del Sacro Collegio; per rientrarvi a farne parte, dovrebbe essere di nuovo creato Cardinale dal suo successore; ma mi sembrerebbe una cosa del tutto fuori luogo. Non vedo dove sia lo scandalo se, una volta rinunciato al suo ufficio, Benedetto XVI mantiene il nome assunto il giorno dell’elezione al pontificato. Un re, quando abdica, non conserva forse il nome che aveva quando regnava?

Il resto (l’appellativo “Sua Santità”, l’abito bianco) viene da sé. È normale che chi ha goduto di un certo titolo, lo mantenga anche dopo la perdita dell’ufficio. Nel mio Ordine religioso il Superiore generale ha diritto a essere chiamato “Reverendissimo”, titolo che conserva per il resto dei suoi giorni, anche dopo aver terminato il suo mandato. Del resto, abbiamo incominciato a chiamare “Santità” anche alcuni Patriarchi orientali non cattolici; e non dovremmo chiamare “Santità” il Papa emerito? Sulla talare bianca non mi sembra che possano esserci assolutamente problemi: anch’io, quando ero in missione, ne facevo uso (e continuo a farne uso nella foto di questo blog, proprio perché è stata un’esperienza che ha segnato la mia vita). Anzi, non vedrei nulla di strano (per quanto non credo che potrà mai avvenire) se Benedetto XVI assistesse, in abito corale, a qualche celebrazione del nuovo Pontefice, cosí come accade normalmente nelle diocesi con i rispettivi Vescovi emeriti.

Vorrei terminare con una riflessione. Penso che la rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ci costringa a un approfondimento del ruolo del Papa. Ci aiuta lui stesso a farlo. Nell’ultima udienza generale ha affermato: «Il “sempre” è anche un “per sempre” — non c’è piú un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto piú la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per cosí dire, nel recinto di San Pietro» (27 febbraio 2013). Se è vero che, con la sua rinuncia, Benedetto XVI ha perso qualsiasi tipo di giurisdizione, ciò non significa che, con ciò, è tornato a essere un semplice fedele o, se vogliamo, un semplice Vescovo in pensione. Sembrerebbe di capire che il ministero petrino non si esaurisca nell’esercizio dell’autorità, ma possieda una dimensione spirituale (il “servizio della preghiera”), che continua al di là della rinuncia: è ciò che Benedetto XVI vuole esprimere con il suo ritirarsi in clausura, con il suo “salire sul monte” a pregare per la Chiesa. La Chiesa la si serve, sí, governandola, ma la si serve anche, e forse soprattutto, pregando per essa. Lo stesso luogo, da lui scelto, per espletare questo servizio (“nel recinto di San Pietro”), sta a indicare la continuità fra il prima e il dopo la rinuncia. Forse il titolo di “Papa emerito” vuole esprimere anche tale continuità.

domenica 10 luglio 2011

Vescovi e Vescovi

Se c’è una questione chiara, definitivamente risolta, questa è l’esclusione delle donne dal sacramento dell’Ordine. Tutti gli elementi per risolverla erano già contenuti nella dichiarazione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede Inter insigniores del 15 ottobre 1976. L’unico limite di quella dichiarazione era la sua “nota dottrinale”: essa veniva presentata come un documento “disciplinare, autorevole e ufficiale”, ma non “infallibile né irreformabile” (cf Enchiridion Vaticanum, vol. 5, pp. 1392-3, in nota). Forse proprio per tale motivo quella dichiarazione non pose fine alle discussioni in materia. Fu cosí che Giovanni Paolo II si sentí costretto a intervenire di nuovo, in maniera piú autorevole, con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994. Non venivano portate nuove motivazioni a sostegno della non-ammissione delle donne al sacerdozio. Si trattava semplicemente di porre fine alle interminabili discussioni in materia:

«Benché la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti piú recenti, tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare.

«Pertanto, al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4).

Le espressioni usate mi sembra che non lascino dubbi. Eppure anche in questo caso ci fu bisogno di un ulteriore intervento della Santa Sede per precisare il valore del pronunciamento pontificio. Ciò avvenne con la risposta a un dubbio da parte della Congregazione per la dottrina della fede in data 28 ottobre 1995:

«Dubbio: Se la dottrina, secondo la quale la Chiesa non ha la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne, proposta nella Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis, come da tenersi in modo definitivo, sia da considerarsi appartenente al deposito della fede. Risposta: Affermativa.

«Questa dottrina esige un assenso definitivo poiché, fondata nella Parola di Dio scritta e costantemente conservata e applicata nella Tradizione della Chiesa fin dall’inizio, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale (cf Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 25, 2). Pertanto, nelle presenti circostanze, il Sommo Pontefice, nell’esercizio del suo proprio ministero di confermare i fratelli (cf Lc 22:32) ha proposto la medesima dottrina con una dichiarazione formale, affermando esplicitamente ciò che si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede».

Tale intervento della CDF precisa che la dottrina contenuta nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis è definitiva e infallibile (praticamente si tratta del secondo caso in cui è stata esercitata l’infallibilità pontificia dopo la sua definizione nel Concilio Vaticano I; la prima volta era stata con il dogma dell’Assunzione). A questi interventi specifici vanno aggiunti il can. 1024 («Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile») e, se questo non dovesse apparire sufficiente per il suo carattere giuridico, il n. 1577 del Catechismo della Chiesa cattolica:

«“Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile [“vir”]”. Il Signore Gesù ha scelto uomini [“viri”] per formare il collegio dei dodici Apostoli, e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il collegio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione delle donne non è possibile».

Che altro ci si dovrebbe aspettare dalla suprema autorità della Chiesa per porre fine alle discussioni su una determinata questione?

Eppure recentemente il Patriarca di Lisbona, il Card. José da Cruz Policarpo (quindi non Hans Küng o un qualsiasi altro teologo progressista), in un’intervista ha avuto la dabbenaggine di affermare che non esiste nessun ostacolo fondamentale dal punto di vista teologico all’ordinazione delle donne; si tratterebbe solo di una tradizione risalente ai tempi di Gesú. «Giovanni Paolo II in un certo momento è sembrato dirimere la questione. Penso che la questione non si possa risolvere cosí. Teologicamente non c’è alcun ostacolo fondamentale; c’è questa tradizione, diciamo cosí: non si è mai fatto in altro modo». Mi piacerebbe capire quale nozione abbia il Card. Policarpo di “teologia” e di “tradizione”. Ma, a parte questo, ciò che lascia piú allibiti è che un Vescovo-Patriarca-Cardinale non riesca a cogliere il valore degli interventi pontifici: un Papa dirime in maniera definitiva e infallibile una questione, e il Vescovo-Patriarca-Cardinale che fa? Si sente in diritto di affermare: «Penso che la questione non si possa risolvere cosí». Di grazia, ci dica Sua Eminenza: come si dovrebbe risolvere?

Accortosi della gaffe, il Card. Policarpo ha cercato di correre ai ripari. Lo ha fatto scrivendo una lettera, nella quale riconosce di non aver mai trattato sistematicamente la questione (ma allora, perché ne ha parlato?). «Le reazioni a questa intervista mi hanno costretto a considerare il tema con piú attenzione, e ho verificato che, soprattutto per non aver tenuto in debito conto le ultime dichiarazioni del Magistero sul tema, ho dato luogo a queste reazioni» (c’era bisogno che qualcuno si indignasse per accorgersi di non “aver tenuto in debito conto le ultime dichiarazioni del Magistero sul tema”?). Passa quindi a riaffermare la sua assoluta comunione col Santo Padre (se è comunione l’ignorare o il prendere sottogamba il suo magistero infallibile…) e la dignità della donna nella Chiesa (che nessuno si era mai sognato di mettere in discussione). Termina ribadendo che solo inizialmente poteva sembrare che si trattasse si una questione aperta; gli interventi piú recenti del Magistero interpretano la tradizione di ordinare esclusivamente uomini «non solo come un modo pratico di procedere, che può cambiare al ritmo dell’azione dello Spirito Santo, ma come espressione del mistero stesso della Chiesa, che dobbiamo accogliere nella fede». Mi chiedo: queste cose perché non le ha dette nell’intervista? Doveva aspettare le polemiche, per approfondire la questione e giungere a tali conclusioni? In poche parole, una toppa peggiore dello strappo.

Ma, a quanto pare, non si finisce mai di stupirsi. Sono di questi giorni le dichiarazioni di solidarietà dei Vescovi portoghesi col Card. Policarpo. Essi trovano “esagerate” le pressioni che hanno costretto il Patriarca a pubblicare la precisazione. Sembra che anche i confratelli del Patriarca non si rendano ben conto delle loro affermazioni. Essi infatti sostengono che le dichiarazioni di Dom Policarpo sono di indole teologica e non intendono in alcun modo mettere in causa le regole della Chiesa (e ci risiamo: continuano a considerare la questione come puramente disciplinare, mentre essa è stata risolta, in maniera definitiva, proprio sul piano dottrinale!): «Non si tratta di una questione dogmatica e, come tale, può essere discussa»; «La questione deve essere dibattuta e studiata dai teologi»; «Questo richiederà un dibattito molto lungo e allargato e la convocazione di un sinodo o anche di un concilio». E questi sarebbero i Vescovi portoghesi? Due sono le cose: o sono eretici, o sono ignoranti. Non volendo mettere in dubbio la loro buona fede, sono costretto a concludere che sono semplicemente ignoranti, che cioè non hanno mai letto né il Codice di diritto canonico né il Catechismo della Chiesa cattolica né, tanto meno, la dichiarazione Inter insigniores o la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis. E, oltre a ciò, non sanno come funziona la Chiesa. Ma è proprio questo che lascia di stucco: come fanno certe persone a diventare Vescovi?

* * *

Per fortuna non tutti i Vescovi sono cosí. Ho letto con grande piacere la notizia che il Vescovo di Fargo, in North Dakota, Samuel J. Aquila, ha sostenuto di recente, in una conferenza, la necessità di amministrare il sacramento della Confermazione prima della prima Comunione. Oggi è diventato pressoché un dogma affermare che la Cresima è il “sacramento della maturità cristiana”, e si fa discendere da tale affermazione, affrettata e superficiale, la prassi pastorale di conferire tale sacramento durante l’adolescenza (il compianto Padre Nocent sosteneva che si era fatto della Cresima il “sacramento degli sbarbatelli”). Mettere la Confermazione dopo la prima Comunione non fa che oscurare il primato dell’Eucaristia come completamento dell’iniziazione cristiana. Secondo Bishop Aquila i bambini dovrebbero ricevere la Confermazione e la prima Comunione durante la stessa Messa (come avveniva una volta anche da noi e come è avvenuto per me 48 anni fa). La lunghezza della preparazione alla Cresima potrebbe dare l’impressione che essa sia piú importante del Battesimo e dell’Eucaristia. La convinzione che la Confermazione sia per un giovane il modo per prendere un impegno personale nella vita cristiana distorce il sacramento: «La Confermazione non è caratterizzata dalla scelta di credere o non credere nella fede cattolica. Piuttosto, come discepoli, noi siamo scelti da Dio per ricevere la pienezza dello Spirito Santo, per essere segnati con il dono dello Spirito Santo generosamente accordato da Dio, e noi siamo chiamati a cooperare con questa grazia». La Cresima è ordinata all’Eucaristia: appare strano far partecipare uno alla vita eucaristica della Chiesa quando non ha ancora ricevuto «il sigillo dello Spirito Santo, che perfeziona il vincolo personale con la comunità». Alcuni dicono che è necessario essere maturi per ricevere il sacramento; Bishop Aquila sostiene che anche i bambini possono essere maturi spiritualmente: «Se sono abbastanza maturi per ricevere l’Eucaristia, che è il culmine dei sacramenti, non sono forse abbastanza maturi per ricevere il sacramento ad essa ordinato?».

Questi sí che sono Vescovi! E, oltre a essere Vescovi, sono anche teologi, che non perdono tempo a discutere questioni su cui non c’è niente da discutere, ma che ragionano con grande libertà su questioni di vitale importanza per la vita della Chiesa. Che il Signore ci doni tanti di questi Vescovi!

giovedì 7 luglio 2011

Chiesa e comunicazione

Riporto l’articolo pubblicato sull’ultimo numero dell’Eco dei Barnabiti (n. 2/2011, pp. 11-13) per la rubrica “Osservatorio ecclesiale”. L’articolo è stato scritto nel mese di maggio, per cui non tiene conto dei piú recenti sviluppi nel settore, come, p. es., il lancio del sito vaticano d’informazione News.va.


L’idea che molti, non esclusi numerosi cattolici, hanno della Chiesa è quella di una istituzione retrograda, che ha come obiettivo quello di conservare alcuni valori del passato e che rifiuta di adeguarsi alle trasformazioni in atto nella società. Si può convenire che una istituzione bimillenaria come la Chiesa possa far fatica a stare al passo coi tempi, proprio perché portatrice di una sapienza antica, che non è sempre facile coniugare con le novità del presente (va però detto che tali novità si propongono spesso come definitive e poi magari, nel giro di qualche anno, si rivelano già superate). Ma ciò non significa che la Chiesa non si renda conto dei cambiamenti in corso, che non si interroghi sul loro reale valore e che non si chieda se sia o no il caso di adeguarsi a essi, se non addirittura farli propri.

Una delle grandi trasformazioni che hanno interessato il mondo moderno e lo hanno reso un “villaggio globale” (Marshall McLuhan) è l’invenzione e la diffusione dei mezzi di comunicazione sociale: la stampa, il cinema, il telefono, la radio, la televisione, il computer, Internet… Ebbene, la Chiesa ha capito subito che si trovava di fronte a novità importanti, che avrebbero avuto un influsso considerevole — nel bene e nel male — sulla vita degli uomini, e di fronte alle quali non avrebbe potuto rimanere indifferente. 

Uno dei primi documenti del Concilio Vaticano II riguardava proprio i mass media. Si tratta del Decreto sui mezzi di comunicazione sociale (Inter mirifica), approvato il 4 dicembre 1963. In esso si spiegava il motivo per cui la Chiesa non può non occuparsi di essi:

«La Chiesa nostra madre riconosce che questi strumenti se bene adoperati, offrono al genere umano grandi vantaggi, perché contribuiscono efficacemente a sollevare e ad arricchire lo spirito, nonché a diffondere e a consolidare il regno di Dio. Ma essa sa pure che l’uomo può adoperarli contro i disegni del Creatore e volgerli a propria rovina; anzi, il suo cuore di madre è addolorato per i danni che molto sovente il loro cattivo uso ha provocato all’umanità» (n. 2). 

Subito dopo, il Concilio riaffermava il diritto-dovere della Chiesa a usare i mass media:

«La Chiesa cattolica, essendo stata fondata da Cristo Signore per portare la salvezza a tutti gli uomini, ed essendo perciò spinta dall’obbligo di diffondere il messaggio evangelico, ritiene suo dovere servirsi anche degli strumenti di comunicazione sociale per predicare l’annuncio di questa salvezza ed insegnare agli uomini il retto uso di questi strumenti. Compete pertanto alla Chiesa il diritto innato di usare e di possedere siffatti strumenti, nella misura in cui essi siano necessari o utili alla formazione cristiana e a ogni altra azione pastorale. Così pure è dovere dei sacri pastori istruire e guidare i fedeli perché essi, anche con l’aiuto di questi strumenti, perseguano la salvezza e perfezione propria e di tutta la famiglia umana» (n. 3). 

Non bisogna credere che la Chiesa si sia accorta dell’importanza dei mezzi di comunicazione soltanto col Vaticano II. Man mano che i nuovi strumenti venivano alla luce, la Chiesa si era affrettata a farne uso: si pensi alla pubblicazione de L’Osservatore Romano (1° luglio 1861: 150 anni fa!) e degli innumerevoli periodici cattolici (un tempo si parlava di “buona stampa”); si pensi alla nascita delle case editrici cattoliche (si consideri in particolare l’opera compiuta in questo campo da Don Bosco e quella di Don Giacomo Alberione); si pensi alla fondazione della Radio Vaticana, affidata da Pio XI all’inventore stesso della radio, Guglielmo Marconi (12 febbraio 1931: 80 anni fa!).

Negli ultimi anni la presenza delle radio cattoliche, in Italia e nel mondo, si è fatta sempre più capillare: si può dire che non ci sia diocesi che non abbia la propria emittente. Per non parlare di Radio Maria, un vero e proprio fenomeno mediatico. Sorta come radio parrocchiale in quel di Erba (Alta Brianza), è diventata prodigiosamente una radio a diffusione mondiale: in totale sono una cinquantina le stazioni locali che formano la “World Family of Radio Maria”; ultime arrivate: RM Bosnia, RM Papua New Guinea e RM Switzerland.

In campo televisivo, forse anche per i maggiori costi che il piccolo schermo comporta, la presenza della Chiesa è meno capillare. Solo nel 1983 fu fondato il Centro Televisivo Vaticano; e ancor oggi non si tratta di una vera e propria trasmittente, ma solo di un centro di produzione e di distribuzione, che garantisce le dirette papali ai diversi canali, cattolici e non, in giro per il mondo. A livello locale si sono diffuse non poche TV cattoliche, ma la loro copertura non può in alcun modo competere con quella delle reti pubbliche e private. In Italia la Conferenza episcopale si è fatta promotrice di un canale, dapprima solo satellitare e ora presente anche sul digitale terrestre: TV2000 (già Sat2000), che però stenta a decollare. Mentre ha avuto un discreto successo a livello globale la rete americana EWTN (Eternal Word Television Network), la grande intuizione di Madre Angelica che, nata come televisione via cavo, può essere ora ricevuta in ogni parte del mondo attraverso il satellite (l’inizio delle trasmissioni risale al 15 agosto 1981: 30 anni fa!). Manca ancora però alla Chiesa cattolica un canale TV internazionale, che possa competere con i grandi network, quali la BBC o Al Jazeera

Ultimo arrivato, il computer, che ha cessato di essere un semplice strumento privato di lavoro, per diventare un mezzo di comunicazione di massa grazie a Internet, la rete mondiale che permette di connettere tra loro tutti i computer del mondo. Anche in questo caso la Chiesa si è immediatamente resa conto della rivoluzione che Internet significava nel mondo delle comunicazioni, e si è rimboccata le maniche per sfruttarlo come strumento di informazione e di diffusione del Vangelo. Ormai non esiste più istituzione cattolica (dal Vaticano alla più sperduta delle parrocchie) che non abbia il suo sito (il problema semmai sarà quello di rendere tali siti utili e interessanti, e di tenerli aggiornati). Il sito della Santa Sede (www.vatican.va), iniziato nel 1997, attualmente in otto lingue (latino, italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese e cinese), è diventato un punto di riferimento per tutti: pare che ammonti a cinquantamilioni il numero degli accessi mensili alle sue pagine. Ormai, se uno vuole consultare un documento del Papa o dei dicasteri della Curia Romana, non ricorre più al pur sempre prezioso Enchiridion Vaticanum, ma visita il più economico e veloce sito della Santa Sede. Ma, al di là dei siti, più o meno istituzionali, ciò che lascia davvero sbalorditi è il proliferare, assolutamente inatteso e spontaneo, dei blog cattolici personali, un fenomeno che sta a dimostrare la vitalità della Chiesa.

Naturalmente si tratta di fenomeni che si fa fatica a tenere sotto controllo e che richiedono un radicale cambiamento di mentalità. Farò alcuni esempi per far capire la vera e propria rivoluzione che i mass media hanno portato nella vita della Chiesa. Nel passato un superiore religioso aveva il diritto-dovere, previsto dalle costituzioni, di controllare la corrispondenza dei suoi sudditi: la cosa non era difficile, dal momento che tutta la posta passava dalle sue mani. Come sarebbe possibile oggi per un superiore controllare le comunicazioni dei suoi religiosi attraverso il telefono, il cellulare, Skype (il telefono via Internet), la posta elettronica, gli SMS (i messaggi sul telefonino) o la chat (la comunicazione in tempo reale su Internet)? Così pure un tempo (e la norma è tuttora in vigore nel Codice di diritto canonico) si esigeva che gli scritti riguardanti la fede e i costumi ottenessero il nullaosta del Vescovo prima della pubblicazione. Come sarebbe possibile oggi chiedere l’imprimatur per tutto ciò che si scrive nei blog cattolici? Chiaramente la Chiesa, che fino a non molti anni fa era abituata (e lo sentiva come un dovere) a controllare ogni attività espressiva dei suoi figli, oggi è costretta a reinterpretare e a ridefinire il suo diritto-dovere di vigilanza.

Certamente, essa non può ignorare ciò che dicono non solo i fedeli, ma anche quelli che fedeli non sono. La Santa Sede lo ha imparato a sue spese due anni fa, in occasione della sospensione delle scomuniche ai quattro Vescovi lefebvriani: ci fu allora una lunga polemica perché uno di questi prelati professava posizioni negazioniste a proposito dell’Olocausto. Benedetto XVI ebbe a scrivere, nella sua lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009: «Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie». Ed effettivamente da allora gli uffici vaticani hanno incominciato a monitorare con regolarità e sistematicità la “rete”.

In questi anni la Chiesa ha pure compiuto una approfondita riflessione pastorale e morale sui mezzi di comunicazione. A tal fine è stato costituito un vero e proprio dicastero della Curia Romana, il Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali. Due sono le istruzioni pastorali pubblicate: la Communio et progressio (23 maggio 1971) e la Aetatis novae (22 febbraio 1992). Altri documenti invece hanno tentato di formulare una valutazione morale dei media: il 4 giugno 2000 è stato pubblicato un documento più generale dal titolo Etica nelle comunicazioni sociali e il 22 febbraio 2002 uno più specifico intitolato Etica in Internet. Da parte sua, la Congregazione per l’Educazione cattolica, il 19 marzo 1986, ha emanato alcuni Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale.

Una riflessione certamente preziosa, ma che non sempre è sufficiente per stare dietro a tutte le novità e a valutarle nella loro reale consistenza. Recentemente, per esempio, con l’esplosione dei social networks, si è avuta l’impressione che la Chiesa, per non farsi accusare di inopportuni ritardi, si sia affrettata a rendersi presente in essi, senza forse premettere una approfondita riflessione critica sulla loro reale utilità (per non parlare di una loro possibile utilizzazione per secondi fini).

In ogni caso diventa sempre più importante che la Chiesa sia presente nel mondo dei media non solo per servirsene nel proprio interesse (la diffusione del Vangelo), ma anche per diventarne la “coscienza critica”. Essi rischiano infatti non solo di favorire la decadenza dei costumi (basti pensare alla pornografia, che con Internet è entrata senza ostacoli in tutte le case), ma anche di diventare strumenti di disinformazione e di propaganda ideologica. C’è bisogno che ci sia qualcuno che vigili sul corretto uso dei mezzi di comunicazione e ne denunci, se necessario, gli abusi, aprendo gli occhi della gente sui sempre possibili rischi di manipolazione. Non è remoto infatti il pericolo che, attraverso i media, si possa costruire una realtà puramente virtuale, e che la gente finisca per scambiarla con il mondo reale.

mercoledì 6 luglio 2011

Le meraviglie di Dio nella vittoria dei martiri

La terza edizione del Missale Romanum non cessa di riservare gradite sorprese. L’ultima l’ho scoperta questa mattina, andando a celebrare la Messa di Santa Maria Goretti. Cercando il prefazio dei martiri, mi sono accorto che non ce n’era uno solo (come nelle edizioni precedenti e in tutte le traduzioni in uso), ma due: il primo, quello solito; il secondo, nuovo. Beh, non essendo un liturgista, non saprei se si tratta di un testo di nuova composizione o se è stato ripreso da qualche antico sacramentario. Per me è nuovo, e basta. E direi anche che non è male:


De mirabilibus Dei in martyrum victoria

Vere dignum et iustum est, æquum et salutáre,
nos tibi semper et ubíque grátias ágere:
Dómine, sancte Pater, omnípotens ætérne Deus:

Quóniam tu magnificáris in tuórum laude Sanctórum,
et quidquid ad eórum pértinet passiónem,
tuæ sunt ópera miránda poténtiæ:
qui huius fídei tríbuis cleménter ardórem,
qui súggeris perseverántiæ firmitátem,
qui largíris in agóne victóriam,
per Christum Dóminum nostrum.

Propter quod cæléstia tibi atque terréstria
cánticum novum cóncinunt adorándo,
et nos cum omni exércitu Angelórum
proclamámus, sine fine dicéntes:


Tento una traduzione veloce, ma per quanto possibile letterale (quindi non utilizzabile nella liturgia), del corpo del prefazio (per l’introduzione e la conclusione mi servo della traduzione ufficiale di altri prefazi):


Le meraviglie di Dio nella vittoria dei martiri

È veramente cosa buona e giusta, 
nostro dovere e fonte di salvezza,
rendere grazie sempre e in ogni luogo
a te Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.

Tu sei glorificato nella lode dei tuoi Santi,
e tutto ciò che concerne il loro martirio
è opera ammirabile della tua potenza.
Tu doni generosamente l’ardore di questa fede,
tu procuri la tenacia della perseveranza,
tu concedi la vittoria nel combattimento,
per Cristo nostro Signore.

Per questo mistero di salvezza, 
il cielo e la terra si uniscono in un cantico nuovo 
di adorazione e di lode,
e noi con tutti gli angeli del cielo
proclamiamo senza fine la tua gloria:

martedì 5 luglio 2011

Corse come un matto

Oggi è la festa di Sant’Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), Padre e Fondatore della Congregazione di San Paolo (Chierici Regolari di San Paolo, Angeliche di San Paolo, Laici di San Paolo). Una vita breve la sua, ma intensa, tutta spesa per «il puro onore di Dio, per utilità del prossimo, per il disprezzo di se stesso» (Costituzioni, c. 18). Ancor prima del Concilio di Trento, contemporaneamente alla Riforma protestante, fondò una nuova compagine di sacerdoti, religiose e laici, sotto l’egida dell’Apostolo, per la «rinnovazione del fervor cristiano» nella Chiesa e nella società. 

Cosí esortava i suoi discepoli: «Su, su, fratelli, se finora in noi c’è stata qualche indecisione, gettiamola via, insieme con la negligenza; e corriamo come matti non solo a Dio, ma anche verso il prossimo» (Lettera 2).

Voleva che le sue figlie predilette fossero «apostole per rimuovere non solo l’idolatria e altri difettoni grossi dalle anime, ma per distruggere questa pestifera e maggior nemica di Cristo crocifisso, la quale sí grande regna ai tempi moderni: madonna, dico, tepidità» (Lettera 5).

Scrivendo a due coniugi quindici giorni prima di morire, li invitava a «diventare gran santi»: «Non guardate che sia io che vi dico questo, ma guardate l’affezione che vi porto; guardate come spasimo di desiderio della vostra perfezione; guardatemi il cuore, che io ve lo mostro aperto» (Lettera 11).

Vorrei pagare il mio piccolo tributo al nostro Angelico Padre, riportando le litanie (in latino e italiano) che composi, proprio in occasione della festività odierna, venticinque anni fa, nel 1986. Chi conosce un po’ la sua vita (qui un breve sunto) e i suoi scritti, vi scoprirà non poche “risonanze”. Invito i lettori a unirsi alla preghiera a Sant’Antonio Maria Zaccaria, in particolare perché i suoi figli rimangano sempre fedeli al suo carisma e aumentino «lo spirito e il vero fervore» (Costituzioni, c. 12).




Kýrie, eléison
Christe, eléison
Kýrie, eléison

Sancta María Mater Dei, ora pro nobis
Sancte Paule Apóstole
Sancte Pater Antóni María

Insani ritu cucurrit

Flos Insubris terræ
Fructus generósæ stirpis
Fili piíssimæ matris

Spectábilis ártium et medicínæ scholáris
Mirábilis córporum médice et animárum 
Venerábilis présbyter Ecclésiæ Cremonénsis

Assídue verbi Dei prædicátor
Fidélis mysteriórum Dei dispensátor
Sápiens plebis Dei educátor

Christiáni renovátor fervóris
Bonórum reparátor morum
Apostólici restaurátor institúti

Pater et fundátor
Pater et dux
Pater et légifer

Levámen páuperum
Parens pátriæ
Sequéster pacis

Pastor ómnibus ómnia facte
Operárie lassitúdine confécte
Miles ácie consúmpte

In Christi vestigiis, ad imitationem magnorum Sanctorum

Vere amíce Dei
Vere amátor Christi

Imitátor et apóstole Dómini crucifíxi
Adorátor et præco sacratíssimæ Eucharistiæ
Gustátor et núntie Spíritus Sancti

Puer Vírgini devóte
Tiro Angelis stipáte
Redux Apóstolis ascíte
Proles Pauli legítima
Heres sanctórum Patrum
Cultor véterum Doctórum
Glória præstántium præceptórum

De virtute in virtutem ad bravium patriæ cælestis

Angele in terris
Angele in carne

Aduléscens sicut lílium gérminans
Dives ómnia éxuens
Princeps oppróbria ampléctens

Vir cunctis virtútibus ornáte
Vir cæléstibus donis ditáte
Vir in discernéndo prudens
Vir in exsequéndo prompte
Vir perpétua oratióne júgiter suspénse
Vir supereminénti Jesu Christi sciéntia erudíte
Vir divíne et sancte
Vir humáne et dulcis
Vir caritáte ardens
Vir spíritu fervens
Vir tepiditátem abhórrens
Vir vítia exágitans

Heros magnánime, qui bonum certámen sine mercéde certásti
Gigas exsúltans, qui cursum alácriter consummásti
Serve beáte, qui fidem usque ad mortem servásti
Ductor vincens, qui regnas in ætérnum glória coronátus

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi, parce nobis, Dómine
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi, exáudi nos, Dómine
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi, miserére nobis

* * *

Signore, pietà
Cristo, pietà
Signore, pietà

Santa Maria Madre di Dio, prega per noi
San Paolo Apostolo
Santo Padre Antonio Maria

Corse come un matto

Fiore della terra lombarda
Frutto d’una nobile pianta
Figlio d’una madre piissima

Studente esemplare di filosofia e medicina
Medico rinomato dei corpi e delle anime
Presbitero illustre della Chiesa Cremonese

Predicatore instancabile del vangelo
Amministratore fedele dei divini misteri
Educatore sapiente del popolo di Dio

Rinnovatore della vita cristiana
Riformatore della vita religiosa
Restauratore della vita apostolica

Padre e fondatore
Padre e guida
Padre e legislatore

Sollievo dei poveri
Padre della patria
Mediatore di pace

Pastore fatto tutto a tutti
Operaio stremato dalla fatica
Soldato caduto sulla breccia

Sulle orme di Cristo, a imitazione dei grandi Santi

Vero amico di Dio
Vero innamorato di Cristo

Imitatore e missionario del Crocifisso
Adoratore e apostolo dell’Eucaristia
Conoscitore e araldo dello Spirito Santo

Fanciullo consacrato alla Vergine
Recluta attorniata dagli Angeli
Reduce accolto fra gli Apostoli
Legittimo figlio di Paolo
Erede dei santi Padri
Cultore degli antichi Dottori
Vanto d’insigni maestri

Di virtú in virtú al premio della patria celeste

Angelo in terra
Angelo in carne

Giovane sbocciato come un giglio
Ricco spogliato di tutto
Nobile bramoso d’infamia

Uomo ornato d’ogni virtú
Uomo ricolmo di doni celesti
Uomo prudente nel discernimento
Uomo risoluto nell’azione
Uomo sempre sospeso nella preghiera
Uomo illuminato dalla sublime scienza di Cristo
Uomo divino e santo
Uomo dolce e umano
Uomo ardente di carità
Uomo fervente nello spirito
Uomo accanito contro la tiepidezza
Uomo spietato contro i vizi

Eroe generoso, che hai combattuto gratuitamente la buona battaglia
Campione esultante, che hai terminato rapidamente la corsa
Servo beato, che sei rimasto fedele fino alla morte
Capitano vittorioso, che regni in eterno coronato di gloria

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, perdonaci, Signore
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, ascoltaci, Signore
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi

domenica 19 giugno 2011

Riprendere il cammino

Non sono un esperto; raramente mi occupo di musica sacra. Lo feci, piú di una anno fa (26 gennaio 2010), solo per ribadire la necessità di attuare, anche in questo campo, il Concilio. Nonostante la mia incompetenza, mi fa piacere che prosegua il dibattito sulla musica sacra, anche se a tenerlo vivo è un pulpito alquanto improbabile come la Repubblica (non ce la vedo proprio nelle vesti di chi si indigna per il basso livello delle esecuzioni liturgiche), e anche se a gettare acqua sul fuoco si faccia avanti addirittura L’Osservatore Romano (che invece, a mio modesto parere, avrebbe piú di un motivo per preoccuparsi delle sorti della musica sacra). Ma tant'è.

Ho letto con interesse, e non posso non condividere, il commento di fr. A. R. all’articolo di Marcello Filotei, pubblicato dal quotidiano vaticano. Non credo ci sia bisogno di tornare, ancora una volta, sulla necessità di dare attuazione alle disposizioni conciliari.  Ciò su cui invece vorrei soffermarmi è una questione piú generale, che riguarda il rapporto fra la Chiesa pre- e post-conciliare. 

Quando ci si lamenta dello stato di abbandono in cui versa la musica sacra (basta leggere l’intervista a Mons. Pablo Colino, pubblicata su la Repubblica e riportata nel citato post di Cantuale Antonianum), si ha l’impressione che ogni problema sia iniziato col Vaticano II («Tutto è precipitato dopo il Concilio Vaticano II, con quella superficiale ondata di pseudorinnovamento che ha fatto tanti danni in quasi tutte le nostre chiese. Basta assistere a una qualsiasi celebrazione liturgica, per sentire orride schitarrate, pianole assordanti e cori superficiali. Il tutto diretto da maestri poco preparati»), mentre prima del Concilio sembrerebbe che si vivesse in una sorta di Eden musicale. Ecco, mi sembra che talvolta qualcuno manchi di senso storico: mentre si è molto accurati nell’individuare i difetti del presente, si è assolutamente incapaci di cogliere i limiti del passato.

Non è affatto vero che prima del Concilio tutto andasse bene dal punto di vista musicale. O meglio, diciamo che era in corso uno sforzo per rimettere ordine in questo campo, uno sforzo che il Concilio aveva fatto suo e aveva rilanciato, e che poi invece, anziché proseguire, si è completamente bloccato. Tale sforzo di restaurazione della musica sacra era stato intrapreso da San Pio X con il motu proprio “Tra le sollecitudini” (22 novembre 1903), una delle tante pietre miliari del movimento liturgico che ha preparato il Vaticano II. Forse sarebbe utile andare a rileggersi quel chirografo di Papa Sarto, perché ci si accorgerebbe che già allora (cent’anni fa!) doveva esserci qualche problemino, se il Pontefice, eletto da appena tre mesi, aveva sentito il bisogno di intervenire in maniera tanto autorevole. Pio X parlava di «abuso nelle cose del canto e della musica sacra», accennava al «funesto influsso che sull’arte sacra esercita l’arte profana e teatrale», lamentava «una continua tendenza a deviare dalla retta norma». 

Nell’Istruzione sulla musica sacra, che con quel motu proprio venne emanata, si affermava: «[La musica sacra] deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori» (n. 2). Dopo aver dichiarato il gregoriano «canto proprio della Chiesa Romana» e «supremo modello della musica sacra», disponeva che esso «dovrà restituirsi largamente nelle funzioni del culto» (n. 3). Riconosciuto il valore della polifonia (n. 4), passava a trattare della musica contemporanea, di per sé non esclusa, purché «le composizioni musicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa, nulla contengano di profano, non abbiano reminiscenze di motivi adoperati in teatro, e non siano foggiate neppure nelle loro forme esterne sull’andamento dei pezzi profani» (n. 5). Veniva invece totalmente escluso lo stile teatrale («che durante il secolo scorso fu in massima voga, specie in Italia», n. 6). Al n. 23 troviamo espresso un principio fondamentale:

«In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella».

Possiamo consolarci: nil sub sole novi. Anzi, si direbbe che la situazione, agli inizi del Novecento, fosse peggiore di quella attuale. Nell’articolo apparso su la Repubblica Mons. De Gregorio fa riferimento al Regolamento sulla musica sacra emanato dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 1884, che condannava la diffusione nelle chiese di «polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe, romanze…». E molti continuano a pensare che, prima del Concilio, in tutte le chiese si cantassero solo gregoriano e polifonia… 

Diciamo la verità: il gregoriano, col passare dei secoli, era praticamente scomparso; era rimasto esclusiva dei monasteri. Fu appunto con il motu proprio di San Pio X che esso venne restaurato come «canto proprio della Chiesa Romana» e ne venne promossa la diffusione. Ma allora, nelle chiese che cosa si cantava? O non si cantava affatto (al massimo, si eseguiva qualche canto popolare); o, se si cantava, soprattutto nelle grandi occasioni, si era diffuso quello “stile teatrale” stigmatizzato da Papa Sarto.

Che la musica di chiesa avesse assunto un carattere profano non doveva essere solo una tendenza dell’Ottocento. Secondo me, era un difetto diffuso già nei secoli precedenti. Altrimenti non si capirebbe perché nella mia Congregazione, sorta nel Cinquecento, l’Ufficio divino non doveva essere cantato (neppure in gregoriano!), ma solo recitato recto tono, e le Costituzioni prescrivessero, con insolito rigore: «Musicus cantus, etiam qui firmus vulgo dicitur, aut musica instrumenta ne admittantur ita ut dispensari hac in re non possit [= non si ammetta il canto, neppure quello comunemente detto fermo, o gli strumenti musicali. E in ciò non si può dispensare]» (solo nei secoli successivi tale norma fu attenuata, permettendo il canto e gli strumenti musicali «dummodo nihil omnino profanum sapiant quod domus Dei sanctitatem dedeceat, mentesque fidelium a rerum caelestium contemplatione avertat [= purché non contengano alcunché di profano, che non conviene alla santità della casa di Dio e distoglie le menti dei fedeli dalla contemplazione delle cose celesti]». Ecco dunque la solita grande preoccupazione che ritorna (e che spiega l’iniziale proibizione): nelle chiese era entrata la musica profana; bisognava far di tutto per ridare sacralità alla liturgia. Esattamente il problema attuale.

Ci si potrebbe chiedere come mai era venuta a crearsi una simile situazione. Non so se siano stati fatti studi specifici in proposito. Io tento di dare una risposta, pienamente consapevole che essa possa essere contestata e possano essere date interpretazioni diverse. Innanzi tutto, una costatazione: non è vero che gli attuali abusi sono frutto della riforma liturgica conciliare e che col rito tridentino essi non sarebbero mai potuti accadere. Il caso che stiamo affrontando dimostra esattamente il contrario: anche prima del Concilio potevano esserci (e di fatto ci furono) abusi, e anche allora si doveva faticare per eliminarli (esattamente come oggi). Anzi, si potrebbe pensare che, almeno in campo musicale, certi abusi furono in qualche modo favoriti dalla liturgia, cosí come era stata riordinata dal Concilio di Trento. Voglio dire che era pressoché inevitabile che una liturgia che escludeva la partecipazione “attiva” dei fedeli finisse, prima o poi vittima dello “stile teatrale”. Qualcuno potrà giudicare avventata tale affermazione; può darsi che lo sia. Ma mi pare significativo che, mentre in ambito protestante si stava creando un magnifico repertorio di inni sacri che tutti i fedeli potevano (anzi, dovevano) cantare, nella Chiesa cattolica si sviluppò la polifonia, che sarà pure una starordinaria espressione di fede e di arte, ma che certo non favorisce la partecipazione diretta dei fedeli. Non c’è dubbio che la Chiesa ebbe tutti i motivi per agire come agí; ma non dobbiamo avere paura di riconoscere le inevitabili conseguenze negative che certe scelte (ripeto, pienamente legittime e giustificate) comportarono. Per fortuna, ci furono santi, come Alfonso Maria de’ Liguori, che, animati da autentico senso pastorale, composero canti popolari (p. es. Tu scendi dalle stelle) per permettere ai fedeli di esprimere la loro fede con semplicità.

Il movimento liturgico sorse nella Chiesa proprio per porre rimedio a queste storture. San Pio X lo fece suo, ed è cosí che, a poco a poco, cominciò a diffondersi nella Chiesa l’uso del canto gregoriano. Arrivò il Concilio Vaticano II, che, a sua volta, recepí in pieno i propositi del movimento liturgico. Si sperava perciò che gli sforzi iniziati all’inizio del Novecento potessero continuare dopo il Concilio con ancor maggiore vigore. E invece, avvenne tutto il contrario: proprio perché si fraintese completamente il Concilio (anziché come una tappa della tradizione, lo si considerò come il lasciapassare verso qualsiasi novità), si pensò che fosse arrivato il momento di gettare a mare tutto il patrimonio musicale che si era accumulato nel corso dei secoli e si dovesse ricominciare tutto da capo.

Quel che ora bisogna fare non è altro che riprendere un cammino che si stava facendo e che a un certo punto è rimasto interrotto. Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti, ricominciando da dove ci si era fermati. Non si tratta neppure di sbarazzarsi di tutto ciò che in questi anni è stato fatto (un atteggiamento infantile, molto simile a quello immediatamente successivo al Concilio); c’è sicuramente qualcosa, anzi molto, di buono che può essere salvato. Cosí pure, nel clima di ecumenismo che si è instaurato con il Concilio, potrà essere utile fare nostro il patrimonio musicale che le Comunità della Riforma hanno messo insieme in questi secoli di divisione: se quegli inni hanno nutrito la pietà dei fedeli e hanno permesso la loro partecipazione liturgica, non potrebbero forse svolgere lo stesso compito nella Chiesa cattolica meglio di tante canzonette improvvisate degli ultimi anni? Ciò che conta è l’atteggiamento di fondo: non quello di chi pensa di costituire l’inizio del mondo, ma quello di chi si riconosce parte di una storia, se ne considera debitore e sente il dovere di portarvi il suo piccolo contributo.

sabato 4 giugno 2011

In Ascensione Domini

Una delle novità della terza edizione del Missale Romanum (2002) è l’aggiunta di alcune Messe vespertine vigiliari. Nelle precedenti edizioni (e quindi anche in tutte le traduzioni attualmente in uso), nel “Proprium de tempore”, erano previste Messe vigiliari a Natale, Pasqua e Pentecoste; nel “Proprium de Sanctis”, nelle solennità di San Giovanni Battista (24 giugno), dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno) e dell’Assunzione (15 agosto). Nella editio typica tertia ne sono state aggiunte altre due: per l’Epifania e per l’Ascensione. Mi pare che si tratti di un arricchimento notevole del Messale rinnovato. Mi permetto di riportare il formulario della Missa in vigilia dell’Ascensione, per quanti fossero sprovvisti del nuovo Messale, in attesa che siano pubblicate le nuove edizioni in lingua volgare. Lascio a ciascuno di gustare la ricchezza teologica e spirituale dei testi.


Ant. ad introitum (Ps 67, 33.35)

Regna terræ cantáte Deo, psállite Dómino,
qui ascéndit super cælum cæli;
magnificéntia et virtus eius in núbibus, allelúia

Collecta

Deus, cuius Fílius hódie in cælos,
Apóstolis astántibus, ascéndit,
concéde nobis, quǽsumus,
ut secúndum eius promíssionem
et ille nobíscum semper in terris
et nos cum eo in cælo vívere mereámur.
Qui tecum.

Super oblata

Deus, cuius Unigénitus, Póntifex noster,
semper vivens sedet ad déxteram tuam
ad interpellándum pro nobis,
concéde nos adíre cum fidúcia ad thronum grátiæ,
ut misericórdiam tuam consequámur.
Per Christum.

Ant. ad communionem (cf Hebr 10, 12)

Christus, unam pro peccátis ófferens hóstiam,
in sempitérnum sedet in déxtera Dei, allelúia.

Post communionem

Quæ ex altári tuo, Domine, dona percépimus,
accéndant in córdibus nostris cæléstis pátriæ desidérium,
et quo præcúrsor pro nobis introívit Salvátor,
fáciant nos, eius vestígia sectántes, conténdere.
Qui vivit et regnat in sǽcula sæculórum.


C’è da rilevare però che, a quasi dieci anni dalla pubblicazione del nuovo Messale, non è stata ancora indicata, per tale Messa, una serie di letture appropriate (ricordo che in occasione della pubblicazione dell’editio typica altera dell’Ordo lectionum Missae, nel 1981, erano state introdotte, per quella che ora è diventata la “Messa del giorno”, due seconde letture facoltative rispettivamente per gli anni B e C). Se fosse stato fatto per tempo, le letture per la Messa vigiliare potevano essere inserite nella nuova edizione del Lezionario italiano, e si sarebbero potute usare anche in mancanza del formulario della Messa.

Un’ultima annotazione. La terza edizione del Messale ha introdotto un’aggiunta significativa anche nella Messa del giorno: alla colletta usuale ha aggiunto, come seconda opzione, l’orazione che si trovava nel Missale Romanum del 1962, recuperando in tal modo un testo d’indubbio valore.