Mi ha colpito molto la notizia, riportata da Sandro Magister, delle dimissioni del direttore della Cappella musicale (qui) e dell’intero coro (qui) della Cattedrale di Cremona. Non sono cose che accadono ogni giorno; si tratta di un fatto di una gravità eccezionale; ma spero che, perlomeno, serva a provocare una riflessione su quanto è avvenuto e sta avvenendo nella Chiesa dopo la riforma liturgica promossa dal Vaticano II.
Non sono un nostalgico della liturgia tridentina, e perciò non coglierò l’occasione per dare addosso alla riforma liturgica e per auspicare un ritorno, sic et simpliciter, alla liturgia preconciliare. Però non si può neppure far finta di niente, e liquidare quanto è successo come il mal di pancia di un gruppo di esteti nostalgici, che non si rassegnano ad adeguarsi ai tempi nuovi.
Semmai, l’incidente cremonese potrebbe essere l’occasione per fermarci un attimo a “ripensare” la riforma liturgica, non necessariamente per giungere alla conclusione che si renda necessaria una “riforma della riforma”, ma semplicemente per fare un bilancio e chiederci: Come è stata attuata? È stato realmente fatto ciò che il Concilio prescriveva? C’è stato qualcosa che non ha funzionato? Domande piú che legittime a quasi cinquant’anni dall’inizio della riforma.
Il punto di riferimento per tale valutazione rimane, ovviamente, la Costituzione Sacrosanctum Concilium, promulgata al termine della terza sessione del Concilio, il 4 dicembre 1963. Soffermiamoci, per il momento, sull’aspetto musicale, ma ricordandoci che il discorso potrebbe — e dovrebbe — essere allargato a tutti gli altri aspetti. Ebbene, che cosa diceva il Concilio a proposito della musica sacra? Andatevi a rileggere il capitolo VI della Sacrosanctum Concilium: penso che chiunque, anche il piú prevenuto verso il Vaticano II, sia costretto a riconoscere che si tratta di un piccolo capolavoro. C’è qualcuno che non è d’accordo con quanto il Concilio affermava? Eppure, che ne è stato di quelle sagge norme? Praticamente sono rimaste lettera morta; la riforma liturgica, quella che di fatto è stata attuata, ha semplicemente ignorato il Concilio; ha seguito un’altra strada, a cui il Concilio non aveva neppure accennato: si è ripartiti da zero, come se non esistesse alcuna tradizione musicale; nella liturgia sono state ammesse solo nuove composizioni, il piú delle volte di scarso o punto valore. Ciò che era importante era la novità; tutto il resto — gregoriano, polifonia, canto popolare — semplicemente da rigettare. Che cosa c’era dietro tale atteggiamento? È ovvio: la mentalità secondo cui il “Concilio” (ma quale Concilio?) segnava un “nuovo inizio”, una “svolta” nella storia della Chiesa (“ermeneutica della discontinuità e della rottura”).
Appare in maniera evidente che la “riforma liturgica”, cosí come è stata attuata, non risponde in buona parte alle indicazioni del Concilio. Qualcosa non ha funzionato. Diciamo che la situazione è sfuggita di mano. Di chi è la colpa: del Concilio, di Paolo VI, di Mons. Bugnini? Personalmente penso che non serva a niente ora star lí a recriminare e a distribuire pagelle ai protagonisti della riforma. Molto piú utile mi sembra prendere atto della situazione e cercare di correre ai ripari.
Già, correre ai ripari. C’è già chi dice: basta tornare alla liturgia, cosí com’era prima del Concilio. Non mi sembra una proposta che risolva il problema. Qualcun altro sostiene che sia necessario a questo punto procedere a una “riforma della riforma”. Sí, forse; la cosa non è da escludersi a priori. Ma se, prima di procedere a delicatissime e rischiosissime riforme di riforme, provassimo ad attuare la riforma liturgica come l’aveva pensata il Vaticano II, non sarebbe tutto piú facile?
Tornando alla questione iniziale, se provassimo a reintrodurre nella liturgia il canto gregoriano (nel frattempo, per fortuna, i monaci hanno lavorato sodo e ci hanno messo a disposizione tutta una serie di strumenti con cui possiamo cantare la nuova liturgia in gregoriano, senza bisogno di ricorrere piú al benemerito Liber usualis), un po’ di polifonia (riconosco che non sempre è possibile trasferire certe magnifiche messe nella nuova liturgia) e un po’ di sano canto popolare; se provassimo a reintrodurre il suono dell’organo; se provassimo a riappropriarci della nostra tradizione musicale, la liturgia — quella rinnovata intendo, non quella tridentina — non avrebbe tutto da guadagnarci? È ovvio che anche dietro tale proposta c’è una mentalità: l’ermeneutica della continuità.
Vedo già qualcuno pronto a gridare alla “restaurazione”. Personalmente, la riterrei piutttosto una operazione di fedeltà al Concilio e di rivalorizzazione del nostro patrimonio musicale. Dice giustamente la Sacrosanctum Concilium all’inizio del capitolo dedicato alla musica sacra: «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente perché, come canto sacro applicato alle parole, è parte essenziale o integrante della liturgia solenne» (n. 112).
Oltre tutto, si tratta di una operazione non impossibile, visto che ci sono già a disposizione forze professionalmente attrezzate per attuarla. Anziché lasciarle vagabondare per le sale-concerto, non sarebbe il caso di arruolarle in questa opera di recupero della liturgia?