Un lettore mi chiede un parere sul post del 7 gennaio 2010 apparso sul blog di Matias Augé dal titolo Una opinione sull’attuale dibattito liturgico. Si tratta di una lettera scritta al Padre Augé da un suo confratello, missionario da 35 anni (prima nelle Filippine, poi a Cuba, ora nella Repubblica Dominicana), nella quale si contesta, con accenti — diciamo — piuttosto vivaci, l’esistenza stessa di un problema liturgico nella Chiesa (“un problema fantasma”). Nella sua esperienza, Padre Carmelo — questo il nome del missionario clarettiano — sostiene di non aver mai incontrato “un solo cristiano” che chiedesse la Messa tridentina; di non aver mai ricevuto “neppure una sola istanza” in tal senso.
Ho già in qualche modo affrontato lo stesso problema alcuni mesi fa nel post Auditel liturgico e “riforma della riforma”, in cui si commentava il sondaggio informale condotto da Padre Augé sulla stessa tematica. Non posso quindi che rinviare alle considerazioni che facevo in quella sede. Anche nel caso del Padre Carmelo, non ho alcuna difficoltà a credere a quanto da lui affermato. Non posso contare sulla sua lunga esperienza missionaria, ma il mio, di gran lunga piú breve e limitato, soggiorno nelle Filippine e in India mi porta piú o meno alle medesime conclusioni: effettivamente non esiste in questi paesi (e, per analogia, suppongo, nel resto del “terzo mondo”) un problema della liturgia tridentina; la liturgia va bene cosí com’è. Concordo con Padre Carmelo che in questi paesi si celebra la Messa “degnamente”, senza gravi abusi; le liturgie sono in genere molto vivaci e partecipate; e anche chi, come me, è sensibile alla bellezza della liturgia latino-gregoriana, non può rimanere indifferente di fronte a certe celebrazioni forse non altrettanto ieratiche, ma certo intensamente partecipate dai fedeli. Del resto, lo stesso Santo Padre non ha confessato forse di essere rimasto ammirato dalle liturgie da lui presiedute nel suo ultimo viaggio in Africa?
Non concordo con Padre Carmelo su due punti. Il primo è la categoricità delle sue affermazioni: “ni un solo cristiano”, “ni una sola instancia”. Io sarei un tantino piú cauto: se è vero che il problema non è cosí sentito come sembrerebbe nei nostri paesi occidentali, non è vero che nel “terzo mondo” non ci sia nessuno che lo sente. Giustamente in uno dei commenti si puntualizza che «in Brasile la sensibilità e la richiesta sono molto forti»: sarà un caso che l’unica amministrazione apostolica di rito tridentino non è in Francia, non è in Europa, ma in Brasile? Anche nelle Filippine ci sono alcuni gruppi che celebrano secondo la forma straordinaria. È vero che si tratta di gruppi minoritari, ma esistono!
E qui vengo al secondo appunto che muovo al post del Padre Carmelo: il linguaggio che riserva appunto a tali gruppi. Per me, dire che si tratta di “gruppi minoritari” sarebbe piú che sufficiente; non vedo che bisogno ci sia di procedere a ulteriori apprezzamenti, che nulla aggiungono al dato oggettivo, ma servono solo per invelenire i rapporti tra fratelli di fede: “una minoranza assolutamente insignificante e ridicola”; “persone squilibrate che vivono fuori della realtà”; “menti malate (calenturientas = “febbricitanti”) e retrograde che vivono fuori della realtà”; “movimento di involuzione nervosa e isterica”. D’accordo che in certi casi si possa ricorrere anche a un linguaggio un po’ colorito; ma in questo caso mi sembra che si venga meno alla carità cristiana: mi chiedo a che cosa si riduca il Vangelo, quando lo trasgrediamo in maniera cosí palese. A che serve parlare di apertura, di comprensione, di dialogo, di ecumenismo con i “lontani”, quando poi non abbiamo nessun rispetto per quelli che sono di casa? In certi momenti si ha davvero l’impressione che il cristianesimo sia stato ridotto a pura ideologia...
Potrei fermarmi qui; ma vorrei aggiungere qualcosa, entrando nel merito della questione sollevata. I lettori dovrebbero conoscere la mia posizione in materia liturgica; chi volesse farsene un’idea può andare a leggersi il post If only... Praticamente, io sono convinto che, se la riforma liturgica fosse stata realizzata come il Concilio l’aveva concepita e se poi essa fosse stata attuata seguendo fedelmente le norme previste nei libri liturgici, probabilmente ora non ci sarebbe nessun nostalgico della vecchia liturgia.
Questa convinzione non è stata affatto intaccata dalla mia sia pur breve esperienza missionaria. È vero che nei paesi del “terzo mondo” nessuno va in cerca della Messa tridentina (per quanto almeno un paio di volte mi sia stata richiesta); ma devo anche dire che tutte le volte che ho celebrato la Messa in latino (quella di Paolo VI) non ho mai incontrato alcun rifiuto. Anzi... È ovvio che nessuno chieda la celebrazione secondo l’uso antico: la maggior parte della gente non sa neppure che esista; ma quando partecipano a una bella Messa cantata in latino, ne rimangono anche loro affascinati.
Qualche volta mi ponevo il problema se celebrare in latino per popoli cosí lontani da Roma non fosse una sorta di “violenza”; me lo chiedevo soprattutto al momento della comunione, quando presentavo loro l’ostia consacrata dicendo “Corpus Christi” anziché “Ang Katawan ni Kristo”. Ma poi mi dicevo: Perché dovrebbe essere una violenza dire “Corpus Christi”, quando nessuno ha nulla da eccepire se dico in inglese (che non è la loro lingua) “The Body of Christ”? E sono giunto alla conclusione che, non solo non era una violenza, ma, al contrario, era loro diritto sentirsi dire “Corpus Christi”.
Sono convinto che la riforma liturgica, cosí come è stata attuata (anche con le deroghe — sanzionate da Paolo VI — alla lettera della Sacrosanctum Concilium, p. es. riguardo alla lingua liturgica), sia stata provvidenziale. Come affermavo nel post citato all’inizio, la Chiesa percepiva che il suo futuro si sarebbe giocato non piú in Europa, ma in altre parti del mondo; e per questo ha sentito il bisogno di mettere la liturgia alla portata di tutti. Ma con ciò non ha voluto in alcun modo cancellare la liturgia solenne in latino e in canto gregoriano, anzi ha voluto restaurarla e renderla ancora piú bella di quanto già non fosse (ermeneutica della continuità...). Per cui dobbiamo ammettere che non esiste piú (o forse non è mai esistita) una sola liturgia, uniforme e monolitica, ma molte varietà liturgiche con diversi gradi di solennità. A questo proposito, l’Institutio generalis de Liturgia Horarum parla assai opportunamente, al n. 273, di un “principio di solennizzazione progressiva” che, secondo me, può applicarsi a tutta la liturgia. È ovvio che, secondo tale principio, le forme meno solenni sono un momento propedeutico a quelle piú solenni; ed è un diritto dei fedeli poter partecipare, almeno in alcune occasioni, a una celebrazione solenne della liturgia romana. Ed è nostro dovere, come pastori, educare i fedeli perché possano esercitare tale diritto. La mia concezione di educazione non è mai stata quella del docente che si abbassa al livello del discente (anche se questo va in ogni modo fatto), ma piuttosto quella del docente che, dopo essersi abbassato, innalza il discente al proprio livello.
Che poi si debba fare i conti con la realtà, è un’altra questione. Ha ragione Padre Carmelo a dire che nel terzo mondo i preti non conoscono piú il latino. Non solo nel terzo mondo — aggiungo io — e non solo i preti... Ma anche qui si tratta del risultato di precise scelte (spesso ideologiche) che sono state fatte in passato. Ma, per quanto questa sia la realtà, non possiamo arrenderci: sono situazioni che possono cambiare; basta la “volontà politica”: non è impossibile insegnare il latino ai seminaristi, dovunque essi si trovino; basta volerlo. Non è questa un’affermazione astratta, ma il frutto di un’esperienza vissuta.