Nel memorabile discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, commemorando i quarant’anni del Vaticano II, Benedetto XVI sostenne che i problemi di recezione del Concilio dipendono dal fatto che esso è stato interpretato secondo due ermeneutiche contrapposte: «Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura” ... Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa».
Tale distinzione è stata contestata, con un certo fondamento, da Joseph A. Komonchak (“Benedetto XVI e l’interpretazione del Vaticano II”: Chi ha paura del Vaticano II, a cura di A. Melloni e G. Ruggieri, Carocci, Roma, 2009): «Si resta subito colpiti dalla eccentricità dei nomi dati a questi due concorrenti orientamenti. In contrapposizione a quello che insiste sulla discontinuità ci si sarebbe infatti aspettati un’“ermeneutica della continuità o della fedeltà”. Similmente, in contrapposizione ad un’“ermeneutica della riforma”, ci si sarebbe aspettati che l’altra venisse presentata come “un’ermeneutica della rivoluzione”. Invece troviamo messe in tensione “discontinuità” e “riforma”, come se fossero necessariamente contrastanti» (pp. 71-72). In linea di principio, Komonchak ha ragione; ma è ovvio che, dietro le sue disquisizioni logiche, si nasconde un problema ideologico non indifferente, che infatti viene a galla immediatamente: «Che esse non siano necessariamente in contrasto è chiaro d’altra parte dalla semplice osservazione che una genuina riforma implica di per sé alla fine una discontinuità: qualcosa deve cambiare laddove c’è una riforma» (p. 72). Anche qui sembrerebbe che Komonchak affermi una ovvietà; eppure le cose non sono cosí semplici come il professore dell'Università Cattolica di Washington vorrebbe farci credere.
Solitamente, siamo portati a catalogare il termine “riforme” nel vocabolario della “sinistra moderata” (i cosiddetti “riformisti”, in contrapposizione ai “rivoluzionari” della sinistra estrema). A nessuno passerebbe mai per la mente che il concetto di “riforma” possa in qualche modo essere imparentato con la “destra” (dove possono esistere solo “conservatori”, “tradizionalisti” e “reazionari”, i quali per definizione sono per la conservazione dello statu quo e quindi contro qualsiasi riforma). Questo è ciò che gli schemi ideologici correnti ci obbligano a pensare. Allora — direte voi — liberiamoci di tali schemi e sforziamoci di guardare alle cose con oggettività. Sí, sarebbe auspicabile; ma siccome so già che qualcuno potrebbe contestare la possibilità stessa di oggettività e sostenere che è inevitabile essere condizionati da schemi soggettivi, sceglierò un altro schema (visto che tutto è soggettivo, dove sta scritto che quegli schemi sono gli unici possibili?): uno schema seguendo il quale si raggiungeranno conclusioni opposte. Lo schema ideologico che scelgo è quello che divide gli uomini fra “ottimisti” e “pessimisti”.
Gli “ottimisti” sono coloro che considerano la storia come un continuo, irrefrenabile progresso, il piú delle volte indipendente dalla volontà umana (determinismo). All’origine di questa mentalità c’è una filosofia della storia ispirata all’illuminismo, all’idealismo, al positivismo e all’evoluzionismo. I “pessimisti” sono quelli che considerano la storia come una continua decadenza rispetto a una mitica “età dell’oro”, identificata con le origini. Penso che ciascuno di noi possa facilmente identificarsi in uno di questi due gruppi. Sia ben chiaro che tale distinzione non è intercambiabile con quella — meramente politica — di “destra” e “sinistra”.
Ebbene, se adottiamo lo schema “ottimisti”/“pessimisti” o “progresso”/“decadenza”, ci accorgeremo che il concetto di riforma non appartiene agli “ottimisti”, ma ai “pessimisti”. Sempre, nella storia, i “riformatori” si sono presentati come quelli che criticavano il presente, considerato decaduto rispetto al passato, e auspicavano una qualche forma di “ritorno alle origini”. Anzi, approfondendo il discorso, ci accorgeremo che anche un’altra categoria che oggi va per la maggiore — quella di profezia — appartiene esattamente all’ideario dei “pessimisti”: nella storia di Israele, i profeti non sono mai stati dei rivoluzionari, ma semmai dei “nostalgici” dei bei tempi andati, e hanno sempre auspicato un ritorno al passato (si veda in proposito il saggio di Norbert Lohfink, I profeti ieri e oggi, Queriniana, Brescia, 1967).
A questo punto potremmo porci il problema: usando questo schema, da quale parte poniamo il Concilio Vaticano II? Certo, nella visione degli “ottimisti”, esso segna una tappa — non necessariamente in discontinuità col passato — dell’irrefrenabile cammino della Chiesa verso il suo “Punto Omega” (per usare un’espressione cara a Teilhard de Chardin). Può darsi che tale mentalità sia presente, almeno parzialmente, all’interno del Vaticano II, ed è senz’altro presente in molti dei suoi interpreti. Ma — potremmo chiederci — è stata questa l’autocomprensione che il Concilio ha avuto di sé stesso? Avrei qualche perplessità a rispondere affermativamente.
Non voglio escludere che nel Vaticano II sia presente, almeno in qualche passaggio, una mentalità “evoluzionistica”. Sono per altro note le accuse, rivolte al Concilio, di discontinuità e di rottura con la tradizione precedente; accuse che andranno prima o poi vagliate attentamente. Ma nell’insieme, almeno nelle intenzioni, a me pare che il Vaticano II si muova nel campo opposto, quello di chi guarda al presente della Chiesa (il “presente” di cinquanta anni fa) come in qualche modo distante (perché gradualmente allontanatosi) dall’“archetipo” (la Chiesa delle origini) e quindi bisognoso di “riforma”.
Prendiamo l’esempio della liturgia. Noi di solito parliamo, giustamente, di “riforma liturgica”, ma la Costituzione Sacrosanctum Concilium usa un termine ancora piú forte, che non lascia adito a dubbi: instauratio, che in italiano significa letteralmente “restaurazione”. La liturgia, secondo il Concilio, va restaurata, va cioè riportata alla sua bellezza originaria. È evidente il rischio sotteso a tale visione: quello dell’“archeologismo”, l’illusione cioè di tornare a un passato ideale, totalmente astratto, ignorando il cammino compiuto attraverso i secoli. È forse per questo motivo che la Sacrosanctum Concilium, per lo piú, accompagna il verbo instaurare con il verbo fovere, quasi a dire che non si tratta solo di tornare indietro, ma di andare avanti, incrementando, favorendo, migliorando ciò che già esiste. E forse è per questo motivo che il Santo Padre, nel suo discorso alla Curia Romana, usa il termine “riforma” come sinonimo di “rinnovamento nella continuità”.
Credo che l’atteggiamento del Concilio verso la liturgia possa essere considerato in qualche modo paradigmatico: l’attitudine “restauratrice” (so bene le reazioni che l’uso di tale espressione può provocare nell’animo di quanti si lasciano condizionare dagli schemi ideologici correnti, ma spero che si sappia andare oltre le risonanze emotive) è quella che ha ispirato il Concilio; si trattava di riportare la Chiesa al suo primitivo splendore.
È vero che il Vaticano II fa uso anche di altre espressioni. Per esempio, a proposito della vita religiosa parla di renovatio, giustamente tradotto con “rinnovamento”. Solo che renovare, in latino, molto spesso non è altro che un sinonimo di instaurare. Non mi pare un caso che il decreto Perfectae caritatis (n. 2) esorti i religiosi a un «continuo ritorno alle fonti di ogni vita cristiana e allo spirito originario degli istituti» (a voler essere pignoli poi si potrebbe notare che le traduzioni italiane tralasciano sistematicamente l’aggettivo da cui la parola renovatio è sempre accompagnata: “accomodata renovatio vitae religiosae”).
Ha dunque sbagliato Benedetto XVI a parlare di “ermeneutica della riforma” a proposito del Vaticano II? Niente affatto; anzi mi pare che, usando tale espressione, egli abbia colto perfettamente il vero spirito del Concilio: il Vaticano II non ha voluto in alcun modo essere una rottura col passato né, tanto meno, un “nuovo inizio” nella storia della Chiesa; esso, molto piú modestamente, si è prefisso solo di “riformare” la Chiesa, adattandola certo alle mutate condizioni dei tempi, ma sforzandosi soprattutto di riportarla alla sua originaria fisionomia.