Di norma, sono portato a non dare
eccessivo credito ai rumors. Ritengo che la realtà di ogni giorno ci
riservi già sufficienti preoccupazioni di suo, per permetterci il lusso di
fasciarci la testa prima di essercela rotta: «A ciascun giorno basta la sua
pena» (Mt 6:34). Cosí, nella Chiesa attuale, ci sono già abbastanza problemi
con i fatti che accadono, con i documenti che si scrivono, con i discorsi che vengono
pronunciati; non mi sembra proprio il caso di correre anche dietro alle voci, a ciò che “si dice” a Santa Marta, a
quello che il solito “pretino” rigorosamente anonimo confida al giornalista di
turno, a quanto rivelano le “fonti riservate” di questo o quel vaticanista, di professione
o da strapazzo.
Qualche volta che, sulla “parola
di due o tre testimoni” (Dt 19:15; Mt 18:16), pensavo che si trattasse di una
cosa piú o meno sicura, ho dovuto in seguito ricredermi. L’ultimo caso è stato
quello della commissione costituita presso la Congregazione per il culto divino
per la revisione dell’istruzione Liturgiam authenticam (vedi il post del 7 febbraio 2017):
visto che ne avevano parlato Sandro Magister, la rivista dei Gesuiti America
e la Nuova Bussola Quotidiana, davo la cosa per certa. Mi ha scritto
invece il Prof. Andrea Grillo, il quale, pur non smentendo (come era giusto che
fosse, non avendone alcun titolo) la notizia dell’istituzione della commissione,
esclude qualsiasi coinvolgimento personale nella vicenda:
«Io ho solo scritto sul mio blog una serie di articoli, a partire dal febbraio 2016. Tutto il resto, contatti, commissioni, incontri fuori Roma, sono — almeno per quanto mi riguarda — frutto della fantasia o della immaginazione».
Permettete però che, una volta
tanto, possa anch’io dar retta alle chiacchiere senza eccessivi complessi. La
settimana scorsa Antonio Socci, di solito bene informato, ha riportato la notizia
di grandi manovre che sarebbero in corso in Vaticano (Libero, 28
febbraio 2017; articolo riportato nel suo blog personale Lo Straniero e ripreso anche dal Times di
Londra):
«Gran parte dei cardinali che lo [= Papa Bergoglio] votarono è fortemente preoccupata e il partito curiale che organizzò la sua elezione e che lo ha affiancato fin qui, senza mai dissociarsi, sta coltivando l’idea … di una “moral suasion” per convincerlo alla pensione».
E, a quanto pare, si farebbe
addirittura il nome dell’eventuale successore: il Card. Pietro Parolin, attuale
Segretario di Stato.
Il giorno dopo, 1° marzo, è stato
pubblicato sul sito LifeSiteNews (si può trovare una traduzione italiana sul blog Chiesa e post concilio)
un articolo di Pete Baklinski, dal quale sembrerebbe di capire che a
Bergoglio siano stati dati dai suoi elettori quattro anni per “rifare la
Chiesa” (make the Church over again). Anche se nell’articolo non c’è
alcun riferimento allo scoop di Socci, non si può fare a meno di mettere
in relazione i due interventi e di concludere: i quattro anni stanno ormai per
scadere, ergo…
In entrambi gli articoli si fa riferimento — come era inevitabile — al conclave del 2013, in particolare al “gruppo
di San Gallo” (la cui esistenza era stata rivelata dal Card. Godfried Danneels
nel 2015 e confermata da Mons. Georg Gänswein il 21 maggio 2016, in occasione
della presentazione del volume di Roberto Regoli Oltre la crisi della
Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI).
Socci riferisce che Bergoglio fu eletto da due “partiti”: il partito
progressista (che si rifaceva appunto al gruppo di San Gallo) e quello della Curia,
sottintendendo che ci fosse un terzo partito, quello ratzingeriano, il cui
candidato era l’Arcivescovo di Milano Angelo Scola.
Personalmente ritengo che il
conclave del 2013 non possa essere compreso se non mettendolo in relazione con
quello del 2005, di cui può essere considerato in qualche modo la continuazione. Anche in
quel caso c’erano i tre partiti: quello ratzingeriano (definito da Mons.
Gänswein il “partito del sale della terra”), quello progressista e il partito
della Curia; ma allora le alleanze furono diverse. In base alle dichiarazioni
del gesuita Padre Silvano Fausti,
sembrerebbe che il partito progressista, all’epoca guidato dal Card. Martini,
avrebbe fatto confluire i propri voti su Ratzinger, per impedire che il partito
della Curia eleggesse un suo candidato. Già allora il candidato del partito
progressista era il Card. Bergoglio (risultano pertanto piuttosto sorprendenti le
dichiarazioni del Card. Theodore McCarrick, secondo il quale nessuno, prima del
conclave, pensava a Bergoglio come possibile candidato). In quell’occasione
sembrerebbe che il Card. Martini e il Card. Ratzinger (il rapporto fra i due
non è mai stato molto chiaro: presentati dalla vulgata come acerrimi
nemici, si trovavano poi spesso d’accordo su diverse questioni…) avessero fatto
un patto riguardante la riforma della Curia romana: «Se riesci a riformare la
Curia, bene; se no, te ne vai». Nel giugno 2012 Martini avrebbe ricordato a
Ratzinger, in visita a Milano, il patto concluso in conclave: «È proprio ora
[di dare le dimissioni]; perché qui non si riesce a far nulla». Otto mesi dopo,
Benedetto XVI annunciò la sua rinuncia al pontificato.
Qualcosa di simile sembrerebbe
accaduto nel conclave del 2013. Nonostante il rovesciamento delle alleanze, si elegge un candidato al quale si affida la
missione di “rifare la Chiesa”. In questo caso sarebbe stata data anche una
scadenza: quattro anni.
Ora, a quanto pare, i curiali si
sarebbero pentiti di aver eletto Bergoglio e quindi vorrebbero convincerlo a
dimettersi, per eleggere al suo posto un loro esponente. Bene. Io non so se
quanto sostenuto da Socci sia vero; non credo che si tratti di una invenzione; almeno un fondo di verità dovrà pur esserci; non voglio però
compromettermi piú di tanto con quelle che rimangono pur sempre illazioni. Nel caso
fosse vero (sottolineo che si tratta di un periodo ipotetico), mi vengono
spontanee alcune riflessioni.
1. Fossi nei panni del partito
della Curia, dopo una cantonata del genere, anziché continuare a brigare dietro
le quinte, la prima cosa che io farei sarebbe cospargermi il capo di cenere,
chiedere scusa ai fedeli e poi ritirarmi in un monastero isolato sulla montagna a pregare e
fare penitenza per il resto dei miei giorni.
2. L’esperienza fatta dovrebbe
insegnare a tutti che eleggere un Papa (ma lo stesso discorso si potrebbe fare
per qualsiasi altro tipo di elezione, nella Chiesa e nel mondo) è una cosa
estremamente seria e delicata. Senza entrare in questioni di carattere tecnico-giuridico
(che potrebbero arrivare fino al punto di mettere in discussione la validità dell’elezione), sulle quali non ho alcuna competenza, ritengo che un’elezione — tanto piú l’elezione del Papa — non
dovrebbe essere oggetto di giochi politici e di patteggiamenti fra “partiti”.
Non si scelgono le persone in base alla propaganda o all’affiliazione ideologica,
ma in base alla conoscenza diretta o indiretta che se ne ha. La scelta non può
essere operata con leggerezza, superficialità e precipitazione; deve essere
preceduta e accompagnata dalla preghiera e fatta con grande senso di responsabilità, secondo coscienza, dinanzi a
Dio.
3. L’elezione deve avvenire senza
alcun vincolo di mandato: il candidato deve essere scelto per le sue doti
personali, non perché funzionale a un programma da realizzare. L’unica cosa da
esigere da un candidato è l’impegno a cercare sempre e solo la
volontà di Dio e il bene della Chiesa. L’eletto dovrà rispondere del suo
operato esclusivamente di fronte a Dio e alla propria coscienza, non al partito
o allo schieramento che lo ha eletto. Tanto meno si può dare al candidato una
scadenza.
4. Qualora nel comportamento
dell’eletto dovessero sopraggiungere degli errori (è possibile: siamo uomini e
possiamo sbagliare), c’è sempre un rimedio a disposizione: la correzione fraterna (che non va
praticata solo verso i pari e gli inferiori, ma, se necessario, anche nei confronti dei
superiori). Non è da uomini fare i salamelecchi a chi è in autorità, e poi
fargli le scarpe. Nei confronti del Papa, mi sembra assai piú utile pregare per
lui, piuttosto che tramare alle sue spalle.
5. Sarebbe ora di finirla con
questo chiodo fisso di voler riformare la Curia o addirittura “rifare la Chiesa”. È
vero che la Chiesa è semper reformanda; ma la vera riforma, lo sappiamo,
non sta tanto nel cambiamento delle strutture, quanto nella conversione dei
cuori. La Chiesa non è nostra né, tanto meno, di questo o quel partito, che
pensa di poterla riplasmare secondo i propri gusti ideologici. L’unica cosa di
cui dobbiamo preoccuparci è di riformare noi stessi.
6. In ogni caso, comunque vadano
le cose, dobbiamo concludere che il papato esce da questa vicenda a pezzi. Il
fatto stesso che ci sia qualcuno che, non contento di due papi, pensi di eleggerne un terzo, la dice lunga sull’idea che ci si è fatti del supremo pontificato: il
Papa è ormai ridotto a una specie di CEO (chief executive officer), intercambiabile a piacere. Le conseguenze devastanti della rinuncia di Benedetto XVI
incominciano a farsi sentire. Se poi si aggiunge che a Papa Ratzinger sono
stati dati otto anni e a Papa Bergoglio quattro, quanti se ne daranno a
“Papa” Parolin? Due? Ormai siamo davvero al papato a perdere.
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