mercoledì 31 gennaio 2018

Concilio e tradizione



“Cesare Baronio” ha molto cortesemente replicato giovedí scorso (qui) alla mia risposta (qui) alla sua “Lettera ad un sacerdote” (qui). Sono grato a Monsignore sia per il tono, molto cordiale, usato, sia, soprattutto, per il contenuto, che costituisce una testimonianza personale per me assai preziosa. Baronio ci porta a conoscenza dello stato d’animo e delle attese che molti avevano alla vigilia e durante lo svolgimento del Vaticano II. È interessante sapere come fu vissuto quel momento tanto importante nella storia della Chiesa:
Nessuno, a quell’epoca, che non fosse parte attiva della congiura, poteva realmente aver la percezione della minaccia che avrebbe potuto rappresentare la convocazione di un Concilio. Anzi: tutti nutrivamo la speranza piú che legittima — ovvia, direi — che esso avrebbe segnato un momento di slancio apostolico.
Beh, come lo stesso Monsignore ricorda un poco piú avanti, oltre i “congiurati”, c’era chi si rendeva conto della minaccia: i “piú autorevoli esponenti della Curia Romana” e, aggiungo io, lo stesso Pio XII, il quale, di fronte alla proposta di riprendere il Concilio Vaticano I (che era rimasto interrotto senza mai concludersi ufficialmente), preferí soprassedere, consapevole appunto dei pericoli che la convocazione di un concilio avrebbe comportato. Chiaramente, in Italia non ci si rendeva conto di che cosa stesse bollendo in pentola in quel momento, ma in Curia sapevano bene quale fosse la situazione della Chiesa nel resto d’Europa. 

Checché ne dicano i suoi detrattori, sono convinto che neppure Giovanni XXIII si rendesse perfettamente conto delle possibili conseguenze della sua storica decisione. Lo dimostra il fatto che, contestualmente al Concilio, convocò anche il Sinodo Romano, che ebbe esiti assai diversi rispetto alle successive assise conciliari. Ciò fa pensare che, nella mente del “Papa Buono”, il Concilio si sarebbe dovuto svolgere sulla falsariga del Sinodo diocesano, mentre nella realtà le cose andarono in maniera un tantino diversa...

In ogni caso, una volta convocato il Concilio, tutti, anche quanti potevano avere delle perplessità sulla sua opportunità, si misero a lavorare di buzzo buono per prepararlo nel migliore dei modi, convinti che esso potesse essere un’occasione preziosa per ringiovanire la Chiesa senza strappi col passato e rilanciare la sua azione apostolica. Furono preparati gli schemi che avrebbero dovuto servire da base per la discussione dei Padri e la stesura dei documenti; molti auspicavano la condanna del comunismo, la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato e la definizione del dogma di Maria Mediatrice e Corredentrice. Una volta che il Concilio fu avviato, però, esso prese una piega imprevista: gli schemi preparatori furono accantonati e le Commissioni — composte, come ricorda Monsignore, con criteri discutibilissimi — presero in mano la gestione del Concilio. Di condanna del comunismo, di consacrazione della Russia e di dogmi mariani, neppure a parlarne.

Sull’esistenza di un piano, non per riformare ma per rivoluzionare la Chiesa, Baronio e io ci troviamo d’accordo. Ciò su cui le nostre posizioni divergono è sull’attuazione di tale piano e, di riflesso, sull’interpretazione da dare al Vaticano II. La posizione di Monsignore non è del tutto chiara: da una parte, afferma che i Padri conciliari “furono le prime vittime dell’inganno ordito ai danni della Chiesa intera” (cosa su cui si potrebbe, entro certi limiti, anche convenire); dall’altra, sembrerebbe di capire che siano stati anch’essi, in qualche modo, complici della cospirazione. Ancor meno chiaro è il giudizio sui Papi che hanno governato la Chiesa durante e dopo il Concilio (Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI): anche in questo caso sembrerebbe di capire che, con i loro interventi, abbiano deliberatamente promosso la demolizione della Chiesa (tutto il senso della “Lettera” di Baronio potrebbe essere riassunto nella teoria della “rana bollita”: «Quello che ti hanno fatto, quello hanno fatto a ciascuno di noi, è stato farti credere, a piccoli passi, che non cambiasse nulla, anche se nei fatti stava cambiando tutto»). La posizione di Monsignore può essere sintetizzata nell’affermazione che il Concilio, con le sue ambiguità, non avrebbe fatto altro che porre le premesse per il post-concilio.

Personalmente, sono convinto che il piano di destabilizzazione della Chiesa ci fosse e che, durante il Concilio, si sia fatto di tutto per attuarlo. Ritengo però che il Papa e i Padri conciliari abbiano svolto, sotto la guida dello Spirito Santo, una sapiente opera di discernimento: accogliendo molte delle istanze di rinnovamento (penso che vada serenamente ammesso che nella Chiesa preconciliare ci fosse qualcosa da cambiare...), sono stati capaci di mantenersi nel solco della tradizione (riallacciandosi, semmai, alla “grande tradizione” della Chiesa, dalla quale probabilmente, col passare dei secoli, ci si era talvolta allontanati) e si sono opposti con forza alle proposte eversive, che pure erano state avanzate. Io non so se i Padri del Concilio siano stati le prime vittime dell’inganno; può darsi pure, ma so con certezza che Dio sa scrivere dritto sulle righe storte. E i risultati del Concilio — i suoi documenti, intendo — non sono stati quelli previsti e auspicati dai novatores (tanto è vero che non sono stati accolti da loro con eccessivo entusiasmo). Ci sono delle ambiguità nei testi conciliari? Penso che fosse inevitabile in un concilio pastorale che non aveva la pretesa di definire e condannare.

Ecco allora l’importanza di interpretare correttamente un concilio di questo genere. Baronio afferma: «La buona fede dei membri ... nulla toglie alla portata devastatrice delle decisioni, perché non è l’intenzione di chi le ha approvate ad interessare, ma il risultato finale». Beh, uno dei criteri fondamentali per l’interpretazione delle leggi è l’intenzione del legislatore: 
Le leggi ecclesiastiche sono da intendersi secondo il significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto; che se rimanessero dubbie e oscure, si deve ricorrere ai luoghi paralleli, se ce ne sono, al fine e alle circostanze della legge e all’intendimento del legislatore [ad mentem legislatoris] (can. 17).
Analogamente, i testi conciliari vanno interpretati non alla luce delle intenzioni dei teologi delle commissioni, ma secondo la mens dei Padri, che non era certo quella di distruggere la Chiesa. Ed è esattamente ciò che, a mio parere, hanno fatto i Papi del post-concilio. Non c’è dubbio che da parte loro ci sia stata una particolare tenacia nell’attuazione delle decisioni del Vaticano II. Perché meravigliarsi? Si trattava di un concilio ecumenico, mica di un consiglio pastorale parrocchiale! Ma, allo stesso tempo hanno saputo opporsi a tutte le spinte che avrebbero voluto un’interpretazione e applicazione “larga” del Concilio, non secondo la lettera dei suoi documenti, ma secondo un suo preteso “spirito”, di cui si faceva interprete la Scuola di Bologna. Non credo proprio che i santi Pontefici, che il Signore ha donato alla Chiesa in questi cinquant’anni, avessero intenzione di portarci gradualmente, a nostra insaputa, alla situazione attuale. Certamente, anche nel loro operato si possono rinvenire incertezze, incoerenze, decisioni discutibili, errori; ma questo fa parte dell’umanità di ciascuno di noi (anche dei santi!). Ciò che conta è che, con il loro magistero, hanno sempre confermato e difeso la fede immutabile della Chiesa. Ciò che sta avvenendo oggigiorno nella Chiesa non è la naturale evoluzione dell’opera dei Papi postconciliari, ma si pone in totale antitesi ad essa. Lo dimostrano tutte le decisioni che si vanno via via prendendo: si tratta sempre, guarda caso, dell’abrogazione di provvedimenti disposti durante il cinquantennio trascorso. È di questi giorni la notizia della imminente rottamazione dell’Humanae vitae (qui), per altro ampiamente prevista (qui). 

Come facevo notare nel post dell’11 agosto 2017
Credo che sia giunto il momento di cominciare a difendere il vero Concilio da chi pretende di farsene abusivamente interprete, spacciando per “Concilio” ciò che ne è una semplice caricatura. Credo che sia giunto il momento in cui i veri amanti della tradizione incomincino a considerare il Vaticano II e il magistero postconciliare come parte della tradizione (con tutti i possibili distinguo sul piano teologico) e a difenderli in nome della tradizione. Pensare che la tradizione si sia fermata al 1962 (o al 1958) significherebbe dare ragione a quanti prima, durante e dopo il Concilio, fino ai nostri giorni, hanno cercato e stanno cercando di sovvertire la Chiesa. Il Concilio, quello vero, non è stato una rivoluzione, ma solo un tentativo, piú o meno riuscito, di rinnovare la Chiesa nel solco della tradizione. La rivoluzione è quella che hanno cercato e stanno cercando di imporre i modernisti di ieri e di oggi. Ad essi occorre opporsi non solo in nome della tradizione, ma anche in nome dello stesso Concilio, che di quella tradizione è parte integrante.
Significativo il riferimento di Baronio alla nuova traduzione del Salterio introdotta da Pio XII, a proposito della quale facevo notare qualche anno fa come il Vaticano II si sia dimostrato piú “tradizionalista” di Papa Pacelli (qui). Ho espresso il mio pensiero sulla tradizione in piú occasioni. Nel post del 31 ottobre 2017 facevo l’esempio dei vetero-cattolici che, in nome della tradizione, hanno abbandonato la Chiesa cattolica, per arrivare, ai nostri giorni, ad accettare il sacerdozio femminile. In un vecchio post del 12 marzo 2009 riportavo un altro esempio, tratto dalla storia della mia Congregazione, che dimostra come talvolta una fedeltà letterale alla tradizione possa costituire in realtà il suo peggior tradimento.

E qui vengo all’osservazione che mi ha fatto un lettore, a proposito della conclusione del mio ultimo post:
Pensare che, per contrastare l’attuale deriva, sia necessario abiurare il Vaticano II e tornare alla situazione ante è pura illusione. Non solo perché la storia non torna indietro, ma anche e soprattutto perché, senza il Concilio, non avremmo a disposizione gli strumenti per leggere correttamente l’attuale situazione, valutarne l’effettiva gravità e porvi adeguato rimedio.
Il lettore mi fa notare che tale frase è “intrinsecamente falsa”. Capisco che essa possa risultare un tantino ermetica e quindi di non immediata comprensione. Probabilmente, piú che una conclusione, potrebbe costituire l’introduzione a una nuova trattazione; ma io sono profondamente convinto di quell’affermazione. Sono convinto che, per opporsi all’attuale deriva, non si possono continuare a usare le armi spuntate della neoscolastica preconciliare. È come pretendere di abbattere un drone telecomandato con l’archibugio. Ma prima ancora di combattere gli errori, è importante saper leggere l’attuale situazione e valutarne l’effettiva gravità. E anche in questo caso, non lo si può fare con i ferri vecchi del passato, ma occorre servirsi degli strumenti concettuali propri della nostra epoca. Non si può negare che, in tale prospettiva, il Concilio abbia rinnovato il linguaggio e lo stesso modo di pensare della Chiesa, senza con ciò rinnegare la sua secolare tradizione. Un rifiuto aprioristico del Concilio, per quanto apparentemente motivato, non credo che metta nella condizione migliore per comprendere la gravità del momento presente né aiuti ad affrontarla adeguatamente.
Q