giovedì 12 marzo 2009

Tradizione e tradizione

Oggi ci sarebbe da commentare la lettera che il Papa ha inviato ai Vescovi sulla revoca della scomunica ai quattro Vescovi lefebvriani. È stata già pubblicata in tedesco dal Frankfurter Allgemeine Zeitung e, in traduzione inglese, dal New Liturgical Movement. Sono d'accordo che l'informazione debba essere tempestiva, ma non condivido affatto questa corsa allo scoop, questa smania di sapere tutto e subito: ora non basta piú neppure essere informati "in tempo reale"; ora bisogna esserlo in anticipo. Oltre tutto, non mi sembra molto corretto commentare un testo che non è stato ancora pubblicato ufficialmente. E inoltre ogni commento richiede un minimo di riflessione. La lettera verrà pubblicata quest'oggi; avremo tempo di parlarne nei prossimi giorni.

Preferisco perciò tornare su una questione che era emersa nel post Chi ha paura del Vaticano II? (7 marzo 2009). Facevo riferimento a una interessante distinzione fatta da Giuseppe Ruggieri fra tradizione immediatamente precedente al Concilio e grande tradizione della Chiesa. Credo che sia una distinzione importante: non tutto il passato, semplicemente perché è passato, può essere considerato "tradizione". C'è tradizione e tradizione. Non dimentichiamo che, nella storia della Chiesa, le novità non sono state introdotte solo dal Vaticano II; anche in passato ci furono numerosi mutamenti e, guarda caso, quando essi non erano radicati nell'autentica tradizione ma erano stati introdotti unicamente per adattarsi ai tempi, si sono rivelati estremamente caduchi. Per cui, di tanto in tanto, c'è bisogno di fare un po' di "pulizia", di rimettere un po' d'ordine, di fare una valutazione e distinguere fra ciò che è imperituro e continua ad avere valore, e ciò che è caduco e può essere tranquillamente abbandonato. Da questo punto di vista, credo che il Concilio abbia avuto una sua utilità. C'era bisogno di accantonare certe supposte "tradizioni", ma non per interrompere la continuità della Chiesa, bensí per riallacciarsi alla "grande tradizione della Chiesa", che da quelle successive "tradizioni" poteva essere stata offuscata. Per esempio, uno dei grandi meriti del Vaticano II è stato quello di aver incoraggiato e favorito un ritorno alle "fonti". Ho potuto sperimentare personalmente questo nella mia formazione. Ho avuto la fortuna di ricevere una formazione tomistica alla scuola dei Domenicani, all'Angelicum, dove i miei professori non si sono accontentati di fare riferimento alla manualistica neoscolastica, ma ci hanno spronato a rivolgerci direttamente alla fonte, vale a dire alla Summa di san Tommaso.

Per approfondire questa distinzione, che mi sembra fondamentale, vorrei riportare la conclusione della mia tesi di laurea. Essa era dedicata a Il rosminianesimo nell'Ordine dei Barnabiti; fu difesa all'Università di Bologna il 21 marzo 1991 (relatrice la prof. Tina Manferdini). Fu pubblicata, in tre puntate, su Barnabiti Studi, nn. 7-9. Certo, per cogliere appieno il senso di tale conclusione, bisognerebbe prima aver letto le ottocento pagine della tesi (p. es., i personaggi citati appariranno ai piú dei semplici nomi: chiedo scusa), il tema è filosofico (ma con ricadute di carattere teologico), l'approccio potrebbe risultare un tantino specialistico (ma spero di aver usato un linguaggio comprensibile a tutti). Tuttavia credo che, se farete lo sforzo di leggere con attenzione il testo, potrete cogliere che cosa intendo per "tradizione". Buona lettura.


I BARNABITI E IL ROSMINIANESIMO

Scopo del Rosmini fu la restaurazione della filosofia. Il medesimo scopo si prefiggevano i Barnabiti suoi contemporanei. Questi avevano un motivo tutto particolare per perseguire quell’intento: nel Settecento, col cardinale Gerdil, il loro Ordine era stato depositario della tradizione filosofica cristiana. Probabilmente per questo motivo, perché eredi del Gerdil, i Barnabiti sentivano come loro dovere di dare il proprio contributo alla restaurazione della filosofia.

All’interno dell’Ordine due furono le tendenze che miravano a questo scopo. Alcuni pensarono che restaurare la filosofia significasse rimanere pedissequamente fedeli all’eredità gerdiliana e, semmai, tornare ai classici della filosofia cristiana, in particolare a sant’Agostino. È la posizione che abbiamo incontrato nel Milone, piú o meno condivisa e riproposta dal Vercellone. Il programma di questi pensatori non può non essere condiviso: di fronte alla divisione dei filosofi cattolici fra ontologisti e psicologi, essi lavorarono per la loro riconciliazione, da farsi sulla base della piú autentica tradizione filosofica cristiana, che vede i suoi maestri in san Tommaso e, soprattutto, in sant’Agostino. Un intento encomiabile, non c’è dubbio, ma totalmente astratto. Esso potrebbe essere definito una specie di “archeologismo filosofico”, che tentava di riproporre tale e quale una filosofia del passato, senza tener conto che nel frattempo il mondo era cambiato e la stessa filosofia aveva compiuto un lungo cammino. È vero che il Vercellone e il Milone (quest’ultimo però solo in un primo momento) vedevano nel Gioberti l’interprete autentico della tradizione a cui loro si rifacevano; ma proprio questo dimostra come un’apparente fedeltà esteriore alla tradizione possa rivelarsi prima o poi come il peggiore tradimento di essa. La tradizione è qualcosa di vivo, che deve continuamente adeguarsi ai tempi, magari anche arricchendosi di alcune “novità”, che poi in realtà tali non sono, essendo piuttosto lo sviluppo di germi già contenuti nella tradizione stessa.

Altri Barnabiti, senza per questo rinnegare le loro ascendenze gerdiliane, anzi inverandole, capirono che per essere fedeli a quell’eredità era necessario aprirsi a chi, nel loro secolo, era diventato il nuovo interprete della filosofia perenne, Antonio Rosmini. Con ciò essi si mostrarono continuatori di quella tradizione dell’Ordine, che aveva voluto i Barnabiti non aderenti ad alcuna scuola filosofica, ma aperti a qualsiasi novità, purché in essa vedessero riflesso un raggio della Verità. I Barnabiti lombardi, che ebbero il privilegio di conoscere il Rosmini, si accorsero che quell’uomo era stato scelto dalla Provvidenza per compiere l’opera del rinnovamento della filosofia, della società e della Chiesa. I Barnabiti videro nel Rosmini innanzitutto il Santo: innumerevoli sono le testimonianze al riguardo. In certa misura è vero per molti Barnabiti quel che il Semeria diceva a proposito del Piantoni: il «suo Rosminianesimo era fatto se non esclusivamente principalmente di una venerazione affettuosa per quell’uomo di Dio che fu Antonio Rosmini» (I miei ricordi oratorî). Ciò non toglie che i Barnabiti, almeno alcuni tra loro, scorsero nel Rosmini pure il Filosofo, e tra i filosofi quello che, solo, poteva rispondere alle loro attese di restaurazione della filosofia.

Se il rappresentante piú benemerito del rosminianesimo fra i Barnabiti è, senza dubbio, il Villoresi, che di esso fu non solo diffusore, ma, in certo senso, anche martire; colui che meglio di ogni altro si fece portavoce di questa adesione dei Barnabiti al rosminianesimo ci sembra essere il Tondini. La sua lettera all’Ateneo religioso di Torino è una specie di professione di fede nel rosminianesimo: «Le sue opere sono, a mio avviso, un vero tesoro per la Chiesa ... Iddio stesso s’incaricherà di svelare quali fini Egli si proponeva, dotando in tempo la sua Chiesa di una cosí stupenda enciclopedia filosofico-cattolica ... Rosmini è quello che meglio d’ogni altro ha compreso San Tommaso». Anche il Tondini, come i suoi confratelli Vercellone e Milone, si proponeva l’accordo tra i filosofi cattolici, ma era convinto che questo ideale si sarebbe potuto realizzare non con la costruzione di un sistema artificiale che mettesse d’accordo le opinioni di tutti, ma solo con l’adesione all’unico sistema che fosse, allo stesso tempo, vero e completo: e questo sistema rinvenne nel rosminianesimo.

Gli interventi pontifici, come bandirono il rosminianesimo dalla Chiesa, cosí misero a tacere le voci rosminiane fra i Barnabiti. Interrompendo al tutto la tradizione gerdiliana dell’Ordine, si pensò di potervi sostituire una nuova filosofia creata in laboratorio, il neotomismo. Anche in questo caso si trattava di una forma di “archeologismo filosofico”: ci si illudeva che la Chiesa potesse far fronte alle esigenze dei tempi nuovi riproponendo, tale e quale, una filosofia che era stata elaborata per rispondere ai bisogni del sec. XIII. Il frutto piú autorevole di questo tentativo fra i Barnabiti fu il Semeria: la sua formazione coincise con la restaurazione del tomismo nella Chiesa e nell’Ordine. Egli credette fermamente nella bontà di quel tentativo; ma proprio lui è per noi la prova migliore del fallimento di esso: il tomismo non gli forní gli strumenti per far fronte alle esigenze dei tempi nuovi, e di fronte al modernismo egli ci appare estremamente disorientato. Ben diverso fu l’atteggiamento del Gazzola, il quale, armato di una formazione rosminiana, seppe muoversi con maggiore sicurezza fra le acque agitate del modernismo. Emblematico ci sembra al riguardo il diverso atteggiamento dei due di fronte al giuramento antimodernistico. Ai tentennamenti intellettualistici del Semeria si oppone l’umile risolutezza del Gazzola: «Io lo posso prestare [il giuramento] senza alcuna difficoltà e ... le mie convinzioni religiose non hanno bisogno di cambiarsi per questo. Bisogna dire che il mio modernismo è sempre stato molto cattolico» (lettera del 21 settembre 1910). Il motivo di tale risolutezza lo troviamo spiegato in una lettera di un paio d’anni prima, quando si trattava di aderire al decreto Lamentabili e all’enciclica Pascendi: «[L’adesione] mi riesce tanto piú facile e spontanea in quanto che tutta la mia educazione intellettuale si è svolta in perfetta antitesi al soggettivismo filosofico e religioso che è l’anima del modernismo condannato» (lettera del 6 febbraio 1908).

È vero che anche il Semeria a un certo punto sentí l’esigenza di un adattamento del tomismo ai tempi nuovi: capí che non si trattava tanto di ripetere san Tommaso, ma di rifare ai nostri giorni ciò che san Tommaso aveva fatto ai suoi tempi. Parlò a questo proposito di “filosofia progressiva” (Scienza e fede), ma si trattava, anche in questo caso, solo di un progetto astratto, per di piú incapace di accorgersi che quel tentativo era stato già compiuto, e per di piú con successo. Il Semeria ebbe, nei confronti del rosminianesimo, un complesso di superiorità: pretendeva di giudicarlo senza aver fatto lo sforzo di comprenderlo. Pensava di poter distinguere, all’interno del rosminianesimo, le dottrine morali da quelle ideologiche, senza rendersi conto che quelle avevano in queste il loro fondamento. A un certo punto egli si accorse che alla sua formazione mancava qualcosa, quello che il Gazzola chiamò “l’anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo spirito” (lettera del 24 gennaio 1900); intuí, attraverso la morale rosminiana, che anche nell’ideologia rosminiana doveva esserci qualcosa di vero, ma non riuscí mai a fare il salto. E allora, quasi cercando di giustificarsi, tirò fuori la favola della “costituzione organica intellettuale” di ciascuno (Diario), senza rendersi conto che non era un caso se lui, che era stato formato al tomismo, si ritrovava tomista, mentre il Gazzola e il Ghignoni, che avevano ricevuto una formazione rosminiana, erano rosminiani.

Gli ulteriori interventi pontifici contro il modernismo spensero fra i Barnabiti ogni interesse non solo per il rosminianesimo, ma anche per la filosofia e gli studi in genere. Continuamente sospettati e accusati di eterodossia, essi preferirono riversare tutte le loro energie nel campo pastorale: il nostro secolo [XX sec.] è stato quello dell’apertura a nuove forme di apostolato e della fondazione di nuove case in ogni parte del mondo. Ciò però ha inevitabilmente comportato un notevole impoverimento culturale. Ciò riflette in qualche misura quanto è accaduto nella Chiesa, con la differenza che, se un Ordine religioso può anche per un certo periodo ripiegarsi sull’attività pastorale per non occuparsi di questioni dottrinali, la Chiesa non può permettersi questo lusso: essa deve essere sempre pronta a rispondere alle sfide che le vengono lanciate in ogni tempo. Nel secolo scorso [XIX sec.] il mondo stava cambiando; la Chiesa non era ancora pronta a confrontarsi con l’epoca moderna; ci fu chi, suscitato da Dio, la dotò degli strumenti necessari per affrontare il dialogo; ma essa preferí continuare ad usare i vecchi strumenti. Il modernismo ha dimostrato che ciò non era piú possibile. Si pensò allora di arginare il fenomeno con la repressione, ma non si diede una risposta alle istanze dei tempi nuovi. La forza però può avere effetto solo per un certo tempo: poi i problemi si ripresentano tali e quali e, se non si è ancora in grado di dare una risposta, allora non c’è piú nulla da fare; la forza non è piú utilizzabile. È quanto stiamo vivendo ai nostri giorni: i problemi posti dal modernismo all’inizio del secolo e allora messi a tacere con le censure, si sono ripresentati oggi. Ma neppure oggi la Chiesa si è mostrata pronta a dare una risposta: non ha ancora gli strumenti per poterlo fare, o meglio non vuole rassegnarsi a riconoscere che quegli strumenti le erano stati forniti “per tempo” (Tondini) dal Rosmini. Ed è cosí che, non potendo piú reagire né con la forza né con le idee, in molti casi la Chiesa, invece che rispondere al modernismo, lo ha supinamente accettato, con tutti i rischi che ciò comporta per la sua stessa esistenza. Manca alla Chiesa di oggi un pensiero “forte”, un sistema solido e oggettivo, che le permetta di muoversi con sicurezza nel mare delle opinioni che la sconvolgono.

Naturalmente neppure il rosminianesimo potrebbe oggi essere riproposto tale e quale. Di questo era già consapevole il Gazzola all’inizio del secolo. Non si può ripetere per il rosminianesimo l’errore fatto con l’agostinismo nel Medio Evo e col tomismo nel secolo scorso. Non sono, questi, sistemi chiusi e definitivi: essi sono solo l’espressione, nel loro tempo, della filosofia perenne. E la filosofia perenne, appunto perché tale, continua a vivere e ha bisogno di esprimersi in nuove forme, anche nel nostro tempo. Ma, come san Tommaso nel Medio Evo poté formulare la sua filosofia solo ricollegandosi con sant’Agostino e come il Rosmini elaborò il suo sistema prendendo le mosse da san Tommaso, cosí noi oggi non potremo ridar vita alla filosofia perenne se non a partire dal Rosmini. Agostino, Tommaso e Rosmini sono i tre giganti della filosofia cristiana; essi sono l’espressione del progressivo sviluppo della medesima tradizione filosofica.

I Barnabiti, che non hanno mai costituito una scuola, né mai si sono sentiti legati ad alcuna scuola altrui, ma in tutte hanno cercato la Verità, nel rosminianesimo hanno scorto l’ultima manifestazione della Verità e per questo lo hanno abbracciato con entusiasmo; ma, con la stessa libertà con cui hanno accolto il rosminianesimo, rimangono aperti a qualsiasi ulteriore rivelazione della medesima Verità.