Una delle critiche piú ricorrenti che vengono rivolte al Vaticano II da parte tradizionalista è quella di ambiguità nel linguaggio adottato. Il Concilio avrebbe abbandonato la rigorosa terminologia del magistero precedente per utilizzare espressioni volutamente ambigue, che possono, certo, essere interpretate correttamente, senza che però se ne possa escludere una interpretazione scorretta. L’esempio piú famoso di tale linguaggio ambiguo è l’affermazione contenuta in Lumen gentium 8:
«Questa Chiesa [una, santa, cattolica e apostolica], costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui».
Giustamente si è fatto notare: che bisogno c’era di utilizzare il verbo “sussiste” (subsistit in), quando sarebbe stato cosí semplice usare la copula “è”? Il Catechismo di San Pio X diceva senza alcuna ambiguità:
«La Chiesa di Gesú Cristo è la Chiesa Cattolica Romana, perché essa sola è una, santa, cattolica e apostolica, quale Egli la volle» (n. 107).
C’è voluto un intervento della Congregazione per la dottrina della fede per chiarire che l’uso di quella espressione non modificava la dottrina tradizionale, ma voleva solo mettere in luce la presenza di “numerosi elementi di santificazione e di verità” anche al di fuori della compagine della Chiesa cattolica.
Dalla chiarificazione del Sant’Uffizio risulta evidente il motivo che ha spinto il Concilio ad adottare un linguaggio diverso rispetto a quello tradizionale: mettere in risalto degli aspetti che il linguaggio tradizionale, cosí rigoroso, impediva che emergessero. Un intento in linea col carattere “pastorale” proprio del Vaticano II.
A tale motivazione personalmente ne aggiungerei un altro paio. In primo luogo direi che il Concilio ha voluto recuperare una ricchezza di linguaggio che, col passare dei secoli, si era andata perdendo, proprio per la preoccupazione di precisare i concetti. Una preoccupazione legittima, dal momento che si trattava di definire il contenuto della fede di fronte alle deviazioni dell’eresia. Bisogna però serenamente riconoscere che tale processo aveva gradualmente portato a una certa aridità. Tanto per intenderci, molti teologi avevano sostituito la Bibbia col “Denzinger”. Ecco dunque il bisogno di tornare alle fonti della rivelazione, specialmente alla Scrittura e ai Santi Padri, per ridare vita a un linguaggio che si era progressivamente cristallizzato, se non addirittura fossilizzato. In un certo senso, il Vaticano II ha percorso un cammino a ritroso, per recuperare ciò che nel corso dei secoli si era potuto perdere lungo la strada. Il rischio, inevitabile, era quello di recuperare, insieme con la ricchezza del linguaggio, anche una certa ambiguità.
Un altro motivo, piú pratico, era quello di mettere d’accordo tante posizioni diverse. Il Concilio si è svolto nel momento forse meno opportuno per la Chiesa. Non è vero, come pensano i tradizionalisti, che fino al Vaticano II nella Chiesa tutto andava bene e che il Concilio avrebbe provocato in essa ogni sorta di disordine. La Chiesa in quel momento storico era in piena ebollizione. Come ho avuto già occasione di dire, il Concilio non ha provocato la crisi, ma è piuttosto frutto di una crisi già in corso. Durante le discussioni conciliari è emerso il malessere che serpeggiava nella Chiesa e si è creata una polarizzazione fra le posizioni piú innovative e quelle piú conservatrici. Solo una visione superficiale della realtà potrebbe pensare che fosse facile evitare o anche solo comporre quelle contrapposizioni. Fu un lavoro estremamente difficile riuscire a mettere insieme posizioni tanto radicalmente divergenti; ma, a poco a poco, si riuscí a giungere a delle soluzioni di compromesso (i documenti conciliari), sui quali la totalità dei Padri si trovò d’accordo. È ovvio che, per trovare un compromesso, fu inevitabile ricorrere a espressioni un tantino ambigue. Fu un compromesso accettato da tutti, anche da Mons. Lefebvre (che firmò tutti i documenti conciliari), il quale evidentemente pensava che si sarebbe potuta dare un’interpretazione ortodossa del Concilio.
Ai nostri giorni, dopo aver assistito a ciò che è avvenuto nel post-Concilio, durante il quale i passaggi ambigui sono stati per lo piú interpretati in senso innovativo, alcuni ritengono che sia giunto il momento di dare un’interpretazione “autentica” del Vaticano II, precisando, appunto, il senso esatto delle espressioni ambigue in esso contenute. Qualcuno è giunto al punto di auspicare la pubblicazione di un nuovo ”Sillabo”. Non voglio, almeno per il momento, entrare nel merito della questione.
Desta piuttosto meraviglia che si trovino ambiguità dove meno te le aspetteresti. Proprio ieri il blog Disputationes theologicae ha pubblicato un post a proposito delle ambiguità esistenti all’interno della Fraternità sacerdotale di San Pio X. Da una parte si intraprendono colloqui per giungere a una piena comunione con la Chiesa cattolica e dall’altra si permette la pubblicazione di articoli che sono «una magistrale dichiarazione di scisma». Bisognerà che chi denuncia le ambiguità attualmente presenti nella Chiesa cattolica provveda innanzi tutto a eliminare le ambiguità presenti in casa propria.