Noto con soddisfazione che, finalmente, si incomincia a parlare delle persecuzioni contro i cristiani; che non solo il Papa, con grande coraggio, ha fatto sua l’espressione “cristianofobia”, ma che anche alcuni governi (fra cui, in primis, quello italiano) si stanno adoperando perché l’Europa prenda posizione su tale questione. Era ora che si aprissero gli occhi sulla realtà: il cristianesimo è di fatto la religione piú perseguitata di tutti i tempi.
Ma, proprio perché dobbiamo aprirci alla realtà cosí come essa effettivamente è, mi pare quanto mai opportuno l’invito che Vittorio Messori ha rivolto una settimana fa dalle colonne del Corriere della sera. Nel suo articolo, lo scrittore cattolico, onde evitare estremismi e spiriti di crociata, ci raccomandava lo studio della storia: «La storia — ricordava Croce — non è mai in bianco e nero, non è la lotta dei cattivi contro i buoni, ma è un palcoscenico dove vittime e carnefici si scambiano i ruoli appena possono». Sí, ammetto che forse può apparire di cattivo gusto rammentare tale verità proprio di fronte al massacro di vittime innocenti; ma, siccome in questo momento si corre un grosso rischio, quello di credere inevitabile uno “scontro di civiltà”, non mi sembra fuori luogo che qualcuno ci ricordi di considerare la storia in tutti i suoi risvolti, anche in quelli meno piacevoli.
Messori ha richiamato brevemente la storia dei cristiani d’Egitto, i quali, nel VII secolo, stanchi del dominio bizantino (cristiano), non respinsero gli arabi come invasori, ma li accolsero come liberatori. Un fenomeno ricorrente nella storia: Messori menziona anche il caso della Spagna; aggiungo io quello della caduta di Costantinopoli, quando i bizantini preferirono il dominio turco a quello del Papa (la riunificazione della Chiesa ortodossa con quella cattolica era stata già decisa dal Concilio di Firenze). Sono fatti storici, dolorosi, ma reali: perché far finta che non siano mai avvenuti? Che cosa si guadagna a censurare la storia?
Eppure a qualcuno l’intervento di Messori ha dato fastidio: “Ma Messori sta col Papa o col Grande Imam?” si è chiesto Antonio Socci nell’articolo pubblicato all’indomani su Libero. Capisco che si possano dare spiegazioni diverse di quanto sta accadendo ai cristiani in Medio Oriente; ammetto che alcune valutazioni di Messori si possano legittimamente discutere. Ciò che non comprendo è la reazione scomposta di Socci, che sembrerebbe contestare a Messori il diritto stesso di fare certe riflessioni: «Perché scrivere editoriali di quel genere?».
Che cosa rimprovera Socci a Messori? Non solo di averci rammentato la complessità della storia, ma anche — e si direbbe soprattutto — di aver accennato, fra i motivi che hanno rotto l’equilibrio che esisteva nel mondo arabo, all’«intrusione violenta del sionismo» in Medio Oriente. Che anche quest’affermazione sia opinabile, è fuori discussione; ma perché stracciarsi le vesti se qualcuno aggiunge anche questo elemento alla riflessione? Sembrerebbe quasi che la grande preoccupazione di Socci, piú che quella di difendere i cristiani, sia quella di difendere il sionismo («che non c’entra assolutamente niente con l’attentato alla cattedrale cristiana di Alessandria»). Mi chiedo poi come possa dirsi fautore degli incontri di Assisi uno che, per spiegare la storia, fa riferimento a Samuel Huntington, il politologo che ha teorizzato lo “scontro di civiltà”.
Chissà che cosa avrebbe da ridire Socci se leggesse il commento di Franco Cardini, “Cristiani perseguitati”, pubblicato ieri sul suo sito. Altro che Messori! Cardini, nel suo scritto, è ancor piú brutale nel rammentarci le pagine piú buie della nostra storia. Eppure, è giusto che qualcuno ce le ricordi.
«La verità vi farà liberi» (Gv 8:32), ci ha ripetuto piú volte il Santo Padre nei mesi scorsi, durante la bufera provocata dagli abusi del clero. La verità ci farà liberi anche in questo caso. Non possiamo ignorare le colpe che abbiamo come cristiani e come occidentali. Se vogliamo vivere in pace con tutti, se vogliamo che i nostri fratelli siano rispettati, è necessario che, per primi, riconosciamo le nostre responsabilità.