lunedì 28 marzo 2011

Religione e senso religioso

Terminavo il post del 20 febbraio scorso sui “Semina Verbi” con la domanda se l’atteggiamento del Concilio Vaticano II nei confronti delle religioni non-cristiane costituisse una rottura con la tradizione o piuttosto una sua legittima evoluzione. E lasciavo in sospeso la risposta. In questo mese ho continuato a riflettere sulla questione e ho scoperto che, dei tre testi conciliari da me riportati, solo quello della dichiarazione Nostra aetate rinviene nelle religioni non-cristiane un raggio della Verità che illumina tutti gli uomini (n. 2), mentre gli altri due testi sono molto piú sfumati: il decreto Ad gentes si riferisce genericamente a “tradizioni nazionali e religiose” (n. 11); la costituzione Lumen gentium parla semplicemente di “coloro che, senza colpa, non sono ancora arrivati ad una esplicita conoscenza di Dio” (n. 16). Dal contesto appare chiaramente che non ci si sta riferendo ai seguaci delle altre religioni (menzionati in precedenza), ma ai non-credenti; anche in questi, afferma la Lumen gentium, si può trovare qualcosa “di buono e di vero”, che costituisce una sorta di praeparatio evangelica (si noti che tale espressione non viene usata per i seguaci delle religioni non-cristiane). Dunque, a parte il caso di Nostra aetate, sembrerebbe che il Concilio sia abbastanza in linea con la tradizione. Allora, come mai si è arrivati all’idea che le religioni non-cristiane sono “cosparse” di semina Verbi, come si esprime Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi? Si direbbe che, anziché interpretare la Nostra aetate alla luce della Lumen gentium (come dovrebbe essere), è avvenuto esattamente il contrario: la “Dichiarazione sull’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non-cristiane” (questo il vero titolo della Nostra aetate, e non, come viene di solito erroneamente tradotto, “Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane”) è diventata la chiave di lettura del resto del Concilio. 

Qualcuno potrebbe obiettare: ma come, i non-credenti sono avvantaggiati rispetto ai seguaci delle religioni non-cristiane? In un certo senso, sí. Dopo la rivalutazione postconciliare delle religioni (che ci ha portato a pensare che un credente, a qualsiasi religione appartenga, sia sempre meglio di un ateo), può sembrare strano; eppure è cosí. Le religioni, nonché costituire una preparazione al Vangelo, il piú delle volte finiscono per diventarne un ostacolo. Questo vale per tutte le religioni, compresa quella ebraica (tanto è vero che essa impedí alla maggior parte dei giudei di accogliere Cristo). Affermare il contrario significherebbe ignorare la lezione di Karl Barth (1886-1968), a mio parere il piú grande teologo del XX secolo, il quale, nella sua Epistola ai Romani, vede nella religione l’espressione suprema dell’arroganza e della presunzione umana.

Per capire questo, dobbiamo distinguere tra “senso religioso” e “religione”: il rapporto tra queste due realtà è lo stesso che intercorre tra la “domanda” e la “risposta”. In ogni uomo c’è una “domanda” innata, vale a dire una istintiva ricerca di Dio (quaerere Deum), una disposizione naturale a conoscere Dio. Questa non solo è positiva, ma indispensabile perché l’uomo possa incontrare il vero Dio che gli si rivela (tanto è vero che il Concilio Vaticano I ha sentito il bisogno di definire la possibilità per l’uomo di conoscere Dio razionalmente). È questo innato “senso religioso” che costituisce una sorta di praeparatio evangelica, perché è proprio grazie ad esso che l’uomo può aprirsi alla verità del Vangelo. 

Altra cosa sono le religioni cosí come si sono storicamente configurate. Esse hanno la pretesa di dare una “risposta” alla “domanda” che è nell’uomo. Ma tale risposta, non provenendo da Dio, bensí dall’uomo stesso, è una risposta erronea, che, anziché avvicinare l’uomo a Dio, spesso lo allontana da lui. Se non è Dio che si rivela all’uomo, ma è l’uomo che si costruisce il proprio dio (= idolo), questo gli impedisce di incontrare il vero Dio. Ciò spiega perché il primo comandamento ingiunga perentoriamente: «Non avrai altro dio fuori di me». Non è un caso se gli israeliti prima e i cristiani poi erano cosí spietati nella lotta contro l’idolatria. Non voglio escludere in maniera assoluta che talvolta le religioni possano svolgere un ruolo positivo; ma penso che questo avvenga soltanto in un caso, quando cioè esse rinunciano alla pretesa di dare delle risposte e si accontentano di essere pura e semplice ricerca. Praticamente si tratta del caso a cui si appiglia Paolo nel suo discorso all’Areopago: 

«Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17:22-23).

Ma, come si vede, si tratta soltanto di un’occasione per annunciare il vero Dio (e, nonostante questo, sappiamo che ben pochi accolsero l’annuncio paolino). Il bisogno di Dio è innato nell’uomo («Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te»), ma tale bisogno viene soddisfatto solo dal vero Dio che si rivela all’uomo.

Visto che abbiamo citato il n. 16 della Lumen gentium, permettete una postilla su questo testo conciliare. Dopo aver parlato di ebrei e musulmani, riferendosi a non-cristiani e non-credenti, esso afferma:

«Dio non è neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini (in umbris et imaginibus), poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cf At 17:25-28), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati (cf 1 Tm 2:4). Infatti, quelli che, senza colpa (sine culpa), ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma che tuttavia cercano Dio con cuore sincero e, coll’aiuto della grazia (sub gratiae influxu), si sforzano di compiere con le opere la sua volontà, conosciuta attraverso il dettame della coscienza (per conscientiae dictamen), possono conseguire la salvezza eterna

«Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che, senza colpa (sine culpa), non sono ancora arrivati all’esplicita conoscenza di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina (non sine divina gratia), di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al Vangelo (tamquam praeparatio evangelica) e come dato da Colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita».

Come dicevamo, si tratta di un testo pienamente ortodosso e radicato nella tradizione. Al termine del comma riguardante i non-cristiani, per fondare la possibilità che essi hanno di salvarsi, si cita la lettera del Sant’Uffizio all’Arcivescovo di Boston Richard J. Cushing dell’8 agosto 1949 (Denzinger, 3869-72), nella quale si ammetteva l’esistenza di un “desiderio implicito” (implicitum votum) di appartenenza alla Chiesa (la dottrina insegnata da Pio XII nella Mystici Corporis) e si condannava il rigorismo del Padre Leonard Feeney.

Ebbene, nonostante l’esattezza di tale testo, nonostante i ripetuti riferimenti all’intervento della grazia in esso contenuti, l’allora Professore Joseph Ratzinger, nel 1969, rinveniva in esso, non senza fondamento, una certa venatura “pelagiana”, quasi che l’uomo possa salvarsi semplicemente comportandosi in modo retto e seguendo il dettame della propria coscienza. A tale testo Ratzinger preferiva un altro passo conciliare, il n. 22 della Gaudium et spes:

«Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, configurato alla morte di Cristo, andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza (cf Fil 3:10; Rm 8:17).

«E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia (cf LG 16). Cristo, infatti, è morto per tutti (cf Rm 8:32) e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce (modo Deo cognito), a questo mistero pasquale».

In tale testo è espressa chiaramente la possibilità per tutti gli uomini di salvarsi, ma essa non è messa in rapporto, come nella Lumen gentium, con le opere o con la coscienza, bensí esclusivamente con il mistero pasquale, col quale lo Spirito Santo dà a tutti la possibilità di essere associati, nel modo che solo Dio conosce. Sulla questione si può legger molto utilmente il seguente articolo di qualche anno fa.