Due giorni fa il Corriere della sera ha pubblicato un interessante commento del Prof. Giuseppe Panissidi sul cataclisma giapponese, mettendolo in rapporto col devastante terremoto-maremoto di Lisbona del 1755. Effettivamente esistono inquietanti analogie fra le due catastrofi (anche in quel caso l’intensità raggiunse il 9° grado della scala Richter). Quel tragico evento ebbe ripercussioni non solo sulla società portoghese, ma anche sulla cultura europea del tempo:
«Una straordinaria temperie spirituale, l’Illuminismo, d’un tratto si fermò, ripiegando su se stessa. A meditare intensamente e ripensare i suoi pur rigorosi paradigmi culturali, la sua stessa visione della storia e dell’uomo … Il terremoto di Lisbona, invero, segna la fine di ogni ottimismo di maniera, le leopardiane “magnifiche sorti e progressive” e, nel contempo, l’alba del nostro disincanto, intriso di quella peculiare forma di realismo che Nietzsche, nella Nascita della tragedia (1872), chiamerà “pessimismo della forza”».
Potrebbe accadere qualcosa di simile ai nostri giorni. La tragedia giapponese non può lasciarci indifferenti. Personalmente, vedendo le immagini dell’onda anomala dello tsunami che travolgeva tutto, mi veniva di pensare: vedi che fine fa la nostra tecnologia! Quanto il maremoto colpí l’Indonesia nel 2004 non avevo avuto la stessa sensazione: in quel caso a essere colpiti erano stati per lo piú poveri villaggi, al massimo qualche villaggio turistico. Ma questa volta è stato colpito il Giappone, un paese supersviluppato, che sembrava quasi invulnerabile. E invece… bastano pochi minuti alla natura per distruggere tutto. Anche i ritrovati piú sofisticati diventano, da un momento all’altro, un ammasso di ferri vecchi (le avete viste tutte quelle auto galleggiare sulle acque? quei treni, quelle navi e quelle case spazzate via?). Anzi, le nostre creature piú perfette per produrre energia (le centrali nucleari), che sembravano cosí potenti e sicure, in un batter d’occhio si rivoltano contro di noi e ci minacciano con il loro terrore. Probabilmente sarebbe il caso di fare qualche riflessione sulla nostra reale condizione. Afferma giustamente il Prof. Panissidi:
«Credenti e non, ricchi e poveri, sani e malati, siamo ospiti (non sempre graditi), non signori del cosmo: enti naturali finiti e incompleti, fatti per (cercare di) conoscerlo e viverci nell’armonia possibile, affrancati da distopie di manipolazione e dominio, perseguite con lo scopo di “deviarne” con modalità improbabili e intrusive leggi e dinamiche».
Nel leggere quella frase: «siamo ospiti, non signori del cosmo», mi veniva in mente quanto avevo letto tempo fa in Iota unum, a proposito della “Teleologia antropocentrica di Gaudium et spes”. Lí per lí la posizione di Romano Amerio mi aveva lasciato piuttosto perplesso. Per chi, come me, viene da una formazione umanistica, che pone l’uomo al centro dell’universo, ed è stato formato alla scuola del Concilio Vaticano II, che ha fatto propria la visione antropocentrica del cosmo, la contestazione di Amerio mi sembrava un po’ esagerata. Sembrava quasi come l’impugnazione di una verità ovvia, praticamente indiscutibile. Amerio, nel capitolo XXX di Iota unum, mette in discussione due passi della Gaudium et spes:
«Secondo l’opinione quasi concorde di credenti e non credenti, tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e vertice» (n. 12; Amerio erroneamente cita il n. 14)
«L’uomo … è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per se stessa» (n. 24).
La novità di questo testo sta in quel “propter seipsam”, che avrebbe sostituito il tradizionale “propter seipsum”. Tanto è vero che Amerio, per dimostrare l’illegittimità di tale sostituzione, invoca l’autorità del libro dei Proverbi:
«Universa propter semetipsum operatus est Dominus» (16:4).
Amerio non avrebbe piú potuto citare questo testo, se avesse dovuto citare la Neovolgata, che ora afferma: «Universa secundum proprium finem operatus est Dominus» (e infatti la nuova versione della CEI traduce: «Il Signore ha fatto ogni cosa per il suo fine»).
Se devo essere sincero, durante i miei studi, ho sempre rilevato una certa incoerenza nel considerare un progresso la visione antropocentrica dell’Umanesimo e del Rinascimento, quando, piú o meno contemporaneamente, in campo scientifico si abbandonava la teoria geocentrica in favore di quella eliocentrica (cosí come non ho mai capito come Kant potesse chiamare “rivoluzione copernicana” il far ruotare l’oggetto intorno al soggetto, quando, secondo me, sarebbe stato piú logico chiamarla “rivoluzione tolemaica”). Ma il fatto di percepire certe incongruenze non mi autorizzava a mettere in discussione quello che costituisce un vero e proprio “dogma” della nostra cultura: la centralità dell’uomo nell’universo. Con il Vaticano II la Chiesa ha fatto propria questa visione antropocentrica. Per noi che siamo stati formati dopo il Concilio, si tratta di una verità pressoché evidente, che non ha bisogno di dimostrazione. Questo spiega perché fossi rimasto perplesso dinanzi alle critiche di Romano Amerio.
Non sarò ora io a dire che il Concilio aveva torto e Amerio aveva ragione. Certo però avvenimenti come la catastrofe giapponese dovrebbero davvero farci riflettere. Dovrebbero, se non altro, ridimensionare quel senso di superiorità al limite dell’onnipotenza, che caratterizza l’uomo moderno. L’uomo dovrebbe prendere coscienza della sua reale condizione e del suo rapporto con la natura, infinitamente piú forte di lui. Per dirla con il Prof. Panissidi, dovremmo ricordarci di essere ospiti, non signori del cosmo.
Probabilmente, non c’è bisogno di procedere alla correzione dei testi conciliari, che pure hanno un loro fondamento; ma perlomeno dovremmo rinunciare, una volta per tutte, a quell’ottimismo un tantino ingenuo che pervade la Gaudium et spes, a favore di un maggiore realismo. Lo stesso Paolo VI ammise che il Vaticano II aveva un po’ esagerato in questa visione ottimistica dell’uomo:
«Bisogna onestamente riconoscere che questo nostro Concilio, nell’elaborare il suo giudizio sull’uomo, si è soffermato a considerare piú la fronte serena che quella triste; e che in esso ha volutamente interpretato tutti gli aspetti con ottimismo … Il Concilio ha parlato agli uomini contemporanei facendo uso non di previsioni catastrofiche, ma di messaggi di speranza e parole di fiducia» (Omelia nella IX Sessione del Concilio, 7 dicembre 1965).
Ecco, è forse giunto il momento di voltare pagina. Come 250 anni fa il terremoto di Lisbona disincantò gli uomini del secolo dei Lumi, cosí forse oggi lo tsunami giapponese aiuterà l’uomo a ridimensionarsi, e libererà la Chiesa da quell’ottimismo di maniera che l’ha contraddistinta negli ultimi decenni. Non per assumere un atteggiamento pessimista, ma semplicemente per ritrovare quel sano realismo che l’ha caratterizzata in tutta la sua storia.