Era da tempo che sentivo il bisogno di modificare il titolo e la grafica del blog. Beh, l’aspetto esteriore è bene che cambi di tanto in tanto (sono passati sette anni…), perché dopo un po’ di tempo ci si stanca di vedere sempre le stesse immagini, e abbiamo bisogno di qualcosa di diverso.
Un po’ piú impegnativa la modifica del titolo: cambiare nome è come cambiare identità. Ma direi che questo non avviene: Querculanus ero e Querculanus rimango. È il “Senza peli sulla lingua” che va in soffitta. Diciamo la verità, “Senza peli sulla lingua”, fin dall’inizio, non aveva niente a che fare con Querculanus: era solo la pretesa — forse un po’ infantile, forse un po’ presuntuosa; certamente ingenua — di chi s’illude di poter sempre dire tutto quel che pensa, di non dover mai porre alcun freno alla propria loquacità — non certo per criticare o parlar male degli altri, ma semplicemente per dire la verità, costi quel che costi. A un certo punto però ci si accorge che questo non è sempre possibile. E neppure giusto. Non perché si debba essere ipocriti, ma perché ci sono dei momenti nei quali, per tanti motivi, è meglio tacere. La verità va detta, sí, ma a tempo e modo. E con l’umile consapevolezza di non averne il monopolio.
Bisogna poi riconoscere che un’espressione come “senza peli sulla lingua”, per quanto assai comune, non è il massimo della raffinatezza. Oggi, se dovessi riprendere quell’idea, la esprimerei facendo riferimento alla parrhesia evangelica, citando, che so, l’ultimo versetto degli Atti degli Apostoli: “Con tutta franchezza” (μετὰ πάσης παρρησίας; cum omni fiducia). Ma, siccome sono e rimango Querculanus, mi sembrava giusto scegliere un titolo che avesse attinenza con tale appellativo. Voi sapete che ho deciso di chiamarmi in questo modo perché ho vissuto per tredici anni al Collegio alla Querce di Firenze: è stata la mia prima destinazione e anche la piú duratura. Oltre a Firenze, ho lavorato in tanti altri posti, in Italia (Bologna, Roma e Napoli) e all’estero (Filippine, India e, ora, Afghanistan). Mi sono trovato bene dappertutto; e dappertutto ho lasciato un pezzetto del mio cuore; ma, come si dice, il primo amore non si scorda mai. Querciolino ero e querciolino rimango. Anche se, nel frattempo, purtroppo, il Collegio alla Querce ha cessato di esistere. Ma forse proprio per questo ci si sente in dovere di tramandarne la fama e i valori.
La Querce aveva un motto: Ingentes tendat ramos et tempora cingat. La prima parte di esso riprendeva un emistichio virgiliano: Sicubi magna Jovis antiquo robore quercus | ingentes tendat ramos... (Georgiche, libro III, vv. 332-333). In italiano: «Se in qualche luogo una grande quercia di Giove, dall’antico tronco, distende gli enormi rami [per fare ombra al gregge]...». Mi era venuto in mente di rinominare il blog con l’antico motto del Collegio Ingentes tendat ramos; ma non mi è sembrato coretto, perché sarebbe stata una sorta di usurpazione (il blog non è della Querce, ma di un querciolino), né di buon gusto, perché la Querce, non esistendo piú, non può continuare a tendere i suoi rami (se non attraverso i suoi alunni). Ho voluto però attingere il nuovo titolo allo stesso verso virgiliano e vi ho trovato una bellissima espressione ricca di significato: antiquo robore. Si tratta di un ablativo di qualità, una specie di attributo che denota una caratteristica del soggetto a cui si riferisce. Per esempio, l’espressione homo antiqua virtute significa “uomo di antica [= provata] virtú”. Ebbene la grande quercia di Giove è antiquo robore: in genere i dizionari (si veda, p. es., Charlton T. Lewis & Charles Short, Harpers’ Latin Dictionary) traducono, con una certa libertà, “dall’antico tronco”; ma l’espressione è molto piú ricca. Il termine robur è, innanzi tutto, un sinonimo di quercus (anche in italiano chiamiamo “rovere” la quercia comune); ma poi viene utilizzato per indicare il legno di quercia, che è molto duro, e, per estensione, può significare sia la robustezza e la solidità in senso fisico sia la potenza, la forza, il vigore e la stabilità in senso morale. Del resto, in senso figurato, la stessa parola “quercia” viene spesso utilizzata per indicare una persona forte, che vive a lungo. Assai acutamente, il Forcellini spiega antiquo robore quercus con vetustae duritiae et firmitatis (= “di vetusta durezza e stabilità). Ebbene, è proprio per il suo significato metaforico che ho scelto questa espressione come nuovo titolo del blog. Ormai la vecchia Querce non c’è piú, ma vorrei che un pizzico del suo antico vigore fosse passato a questo indegno suo figlio e che lui riuscisse a trasmetterlo a quanti lo leggono.
Antiquo robore, due termini quanto mai inattuali. Antiquum: viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che è antico, per il fatto stesso di esserlo, viene respinto, perché superato e quindi non piú valido. Ha valore solo ciò che è nuovo, semplicemente perché tale. Anche se poi si è costretti ad ammettere che molte delle novità, prive di radicamento nel passato, invecchiano in un batter d’occhio e devono essere presto rimpiazzate da altre novità. Gli uomini d’oggi pensano che il mondo sia nato con loro e muoia con loro; non hanno il senso della continuità; non hanno la consapevolezza di essere solo l’anello di una catena; non sentono il dovere di trasmettere alle generazioni successive ciò che hanno a loro volta ricevuto (forse perché molti di loro hanno ricevuto ben poco dai propri educatori). Pensano che la storia sia una continua creazione dal nulla: “Io sono l’artefice della mia vita; non ho niente da imparare da coloro che mi hanno preceduto; la mia unica guida è il mio fuggevole sentimento; io voglio essere ciò che sento in questo momento”. Quale sia l’esito di questa mentalità è sotto gli occhi di tutti. Probabilmente si tratta di un processo irreversibile, che deve giungere alla sua naturale conclusione. È illusorio pensare di poter in qualche modo frenarlo; e a nulla serve ritardarlo; anzi conviene accelerarlo, perché si compia al piú presto. Bisogna però, nel frattempo, cominciare a pensare al “dopo”, al momento della ricostruzione dopo la devastazione. Ricordate Don Camillo? Che fare quando il fiume travolge gli argini e invade i campi? Bisogna salvare il seme. Dobbiamo, innanzi tutto, salvare la fede (Don Camillo e Don Chichí). Ma insieme — aggiungo io — dobbiamo anche iniziare a individuare quei pochi principi che dovranno servire da fondamento della ricostruzione. Uno di questi dovrà essere, appunto, il “principio di antichità” (chiamiamolo cosí per comodità, tanto per intenderci; sappiamo bene che non tutto ciò che è passato è, di per sé, buono): dovremo cioè ristabilire i contatti col nostro passato, con le nostre radici, con la tradizione. Tornare al punto di pensare che io, come uomo, posso considerarmi realizzato solo quando sarò riuscito a trasmettere ai miei figli ciò che ho ricevuto dai miei padri. Recuperare l’umile e fiera consapevolezza di essere soltanto l’anello di una catena, il cui unico compito è quello di mettere in comunicazione l’anello precedente con quello successivo. Se poi riesco a dare il mio piccolo contributo a questa catena, tanto meglio.
Robur. Nel recente passato andava di moda parlare di pensiero “debole”; ai nostri giorni c’è la tendenza a definire la società in cui viviamo “liquida” (Zygmunt Bauman). Anche la Chiesa sembrerebbe essersi “liquefatta”; addirittura il magistero del regnante Pontefice è stato tacciato di “liquidità”. Ebbene, nell’uno e nell’altro caso, c’è bisogno di qualcosa di “forte”; c’è bisogno di qualcosa di “solido”. Sappiamo qual è la “roccia” a cui aggrapparci e su cui edificare: Cristo e la sua parola. Solo lui è la “roccia”; al massimo, può aspirare a questo titolo colui col quale Cristo stesso ha voluto condividere tale prerogativa: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16:18). Noi non aspiriamo a tanto: non abbiamo la pretesa di essere come la roccia. Ma l’ambizione di essere come una quercia, questa ce l’abbiamo, eccome! Non vogliamo essere come canne sbattute dal vento; non vogliamo ridurci a invertebrati, che si piegano a qualsiasi novità e si adeguano passivamente a qualsiasi moda. Vogliamo essere robusti, con la spina dorsale, saldi nei nostri principi, e pronti a lottare per essi. “Ma il mondo cambia; tutto passa; tutto scorre”. Sí, πάντα ρεῖ, ma l’acqua che scorre rimane pur sempre acqua; il soggetto che diviene rimane sempre sé stesso, non si trasforma in altro da sé. Siamo per lo sviluppo, la crescita, l’incremento; non per il cambiamento, la trasformazione o la metamorfosi: «Lo sviluppo consiste nella crescita di una cosa in sé stessa; il cambiamento invece, nella trasformazione di una cosa in un’altra» (San Vincenzo di Lerino). Ciascuno deve rimanere sé stesso, non può rinunciare alla propria identità. Perché ciò possa avvenire si dovrà fare riferimento a un altro principio: il “principio di verità”. Dovremo, senza paura, rimetterci alla ricerca dei valori assoluti, dei principi non-negoziabili, delle verità immutabili, che dovranno essere i nostri stabili e indiscussi punti di riferimento. Ovviamente dovranno poi essere declinati nelle situazioni contingenti, continuamente cangianti, ma senza mutare essi stessi. Nell’agitarsi delle onde è necessario che ci siano delle boe che ci permettano di non essere travolti dai flutti. “Non è questo un tornare alla difesa di dottrine astratte, che rischiano di trasformarsi in ideologie, quando il vangelo ci chiede solo di volerci bene?” Che la carità sia il compimento della legge, è parola di Dio (Rm 13:10); ma ciò non significa che essa sia il primum. Non possiamo ignorare la lezione di Romano Amerio: anche nella Trinità c’è un ordine; il Verbo è generato dal Padre; lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio; dare la precedenza all’amore significa stravolgere quest’ordine (Iota unum). La conoscenza viene prima dell’amore; la carità, per essere tale, deve essere illuminata, vale a dire guidata dalla verità. Abbiamo bisogno di un pensiero forte, che sappia contrapporsi al pensiero debole contemporaneo; abbiamo bisogno di principi stabili a cui aggrapparci nella fluidità che rischia di travolgerci. Dobbiamo essere uomini di antico vigore e solidità, antiquo robore, come la quercia.