Ieri, durante la preparazione alla Messa, mi sono caduti gli occhi sul breve commento alle letture del giorno (Tt 2:1-8.11-14; Lc 17:7-10) nel Saint Paul Daily Missal delle Paoline (le “Figlie di San Paolo”) americane:
The Letter to Titus advises living “temperately, justly and devoutly.” In the Gospel, Jesus tells me to consider myself an unprofitable servant. I don’t find either picture particularly exciting—but who said life has to be exciting? Lord, teach me how to be holy in the humdrum [= la lettera a Tito raccomanda di vivere “con sobrietà, con giustizia e con pietà”. Nel vangelo Gesú mi dice di considerarmi un servo inutile. Non trovo le due immagini particolarmente eccitanti. Ma chi ha detto che la vita deve essere eccitante? Signore, insegnami a essere santo nella monotonia].
Non credo di essermi mai imbattuto in un commento piú insulso; devo però riconoscere che ha stimolato la mia riflessione. L’annotazione del messalino americano è indice di un atteggiamento assai diffuso nella Chiesa odierna: cerchiamo nella parola di Dio quello che vogliamo trovarci; non siamo noi che ci adattiamo alla parola di Dio, ma è la parola di Dio che deve adattarsi a noi. Mi è tornato in mente un pensiero, che avevo esposto in un recente post:
Sono convinto che il linguaggio biblico potrebbe … plasmare il nostro linguaggio (come di fatto è avvenuto con l’influsso della Vulgata sulla nostra cultura o della King James Version su quella anglosassone).
Il problema, naturalmente non è solo di linguaggio, ma di mentalità, di cultura, di civiltà: ecco, noi oggi ci preoccupiamo solo di adattare la rivelazione alle nostre categorie (la cosiddetta “inculturazione del vangelo”); non ci preoccupiamo invece di adeguare le nostre categorie alla rivelazione (la “evangelizzazione della cultura”). È vero quanto afferma la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione:
Nella Sacra Scrittura, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza [in greco: συγκατάβασις, N.d.R.] della eterna Sapienza, «affinché possiamo apprendere l’ineffabile benignità di Dio e di quale adattamento di linguaggio (quanta sermonis attemperatione) si sia servito, sollecito e provvido com’è nei riguardi della nostra natura» [S. Giovanni Crisostomo, In Gen. 3, 8 (omelia 17, 1): PG 53, 134. “Attemperatio”, in greco synkatábasis]. Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo (Dei Verbum, n. 13).
Ma questa “condiscendenza” c’è già stata: la parola di Dio si è già fatta parola umana nella rivelazione; e la rivelazione si è ormai conclusa. Non possiamo pretendere che la rivelazione continui a riformularsi, adottando di volta in volta le mutevoli categorie culturali delle diverse epoche storiche. Raggiunta ormai la pienezza del tempo, è la cultura che deve lasciarsi plasmare dalla rivelazione, non il contrario.
Era inevitabile applicare queste riflessioni alla polemica in corso in questi giorni a proposito dei castighi di Dio: è lecito continuare a parlare oggi di “castighi di Dio”? Antonio Socci, domenica scorsa, ha firmato un editoriale su Libero, in cui sostiene che “castigo” «è per noi una parola incomprensibile», e indica in Benedetto XVI colui che «sta insegnando alla Chiesa come uscire dal linguaggio dei “castighi”». Fra gli altri riferimenti, Socci cita una recente intervista rilasciata dal Papa emerito a Jacques Servais (intervista su cui mi sono già soffermato in un precedente post), nella quale Benedetto XVI, riferendosi al linguaggio usato da Sant’Anselmo a proposito della redenzione, afferma:
La concettualità di Sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile. È nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi.
È ovvio che Sant’Anselmo non è la rivelazione; è solo un teologo che, con le categorie del suo tempo (XI secolo), ha cercato di comprendere e spiegare il dato rivelato. È pertanto legittimo, se necessario, rivedere il suo linguaggio, o meglio, come dice Papa Benedetto, «tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi». Ma non mi sembra altrettanto legittimo arrogarsi il diritto di rivedere il linguaggio usato dalla Scrittura, perché esso è indissolubilmente legato alla rivelazione. Certamente, anche in questo caso è possibile, anzi doveroso, preoccuparci di interpretare correttamente quel linguaggio, ma senza sentirci autorizzati a modificarlo.
In un vecchio (ma sempre valido) documento della Congregazione per la dottrina della fede, la lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia del 17 maggio 1979, si diceva:
Le immagini usate nella Sacra Scrittura meritano rispetto. È necessario coglierne il senso profondo, evitando il rischio di attenuarle eccessivamente, il che equivale spesso a svuotare del loro contenuto le realtà che esse designano (n. 7).
Se nella Bibbia si parla di “castighi”, dovremo sforzarci di capire qual è il senso e lo scopo di essi, ma non possiamo, come vorrebbe Socci, disfarci «di un linguaggio pre-cristiano ed entrare piú profondamente nel mistero di Dio». Se vogliamo entrare nel mistero di Dio, dobbiamo necessariamente servirci del linguaggio usato dalla Scrittura, perché è attraverso quel linguaggio che Dio si è rivelato a noi. Semmai dovremmo preoccuparci del fatto che quel linguaggio sia diventato per noi incomprensibile. È davvero un passo avanti aver perso il senso del castigo? A giudicare dai risultati dei metodi pedagogici oggi in voga, si direbbe proprio di no.
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