Domenica scorsa, festa del
Battesimo del Signore, Papa Francesco, durante l’Angelus, è tornato sul tema
del proselitismo. Dopo aver citato alcuni versetti della prima lettura del
giorno (il “primo canto del Servo del Signore”) — «Non griderà, né alzerà il tono
… non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma
smorta; proclamerà il diritto con verità» (Is 42,2-3) — il Santo Padre ha
proseguito:
Ecco lo stile di Gesú, e anche lo stile missionario dei discepoli di Cristo: annunciare il Vangelo con mitezza e fermezza, senza gridare, senza sgridare qualcuno, ma con mitezza e fermezza, senza arroganza o imposizione. La vera missione non è mai proselitismo ma attrazione a Cristo. Ma come? Come si fa questa attrazione a Cristo? Con la propria testimonianza, a partire dalla forte unione con Lui nella preghiera, nell’adorazione e nella carità concreta, che è servizio a Gesú presente nel piú piccolo dei fratelli. A imitazione di Gesú, pastore buono e misericordioso, e animati dalla sua grazia, siamo chiamati a fare della nostra vita una testimonianza gioiosa che illumina il cammino, che porta speranza e amore.
Si tratta di un tema ricorrente nella predicazione di Papa Bergoglio. Fece molto scalpore quando egli toccò l’argomento per la prima volta, nell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 1° ottobre 2013 su Repubblica. In quell’occasione ebbe a dire:
Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. A me capita che dopo un incontro ho voglia di farne un altro perché nascono nuove idee e si scoprono nuovi bisogni. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene.
E, poco piú avanti, aggiungeva a
proposito dell’attività missionaria della Chiesa:
Le nostre missioni hanno questo scopo: individuare i bisogni materiali e immateriali delle persone e cercare di soddisfarli come possiamo. Lei sa cos’è l’“agape”? … È l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune.
Dopo quell’intervista, Papa
Francesco è tornato piú volte sul tema. Tra i numerosi interventi che si
potrebbero citare, mi limiterò a ricordare l’intervista rilasciata a Ulf
Jonsson in occasione del viaggio apostolico in Svezia (La Civiltà Cattolica,
n. 3994, 26 novembre 2016). In quell’intervista il Pontefice ha usato
espressioni particolarmente forti (e forse un tantino esagerate):
Un criterio dovremmo averlo molto chiaro in ogni caso: fare proselitismo nel campo ecclesiale è peccato. Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione. Il proselitismo è un atteggiamento peccaminoso. Sarebbe come trasformare la Chiesa in un’organizzazione.
L’affermazione di Benedetto XVI, a
cui Papa Bergoglio faceva riferimento nell’intervista (un riferimento divenuto
ormai abituale ogniqualvolta parli di proselitismo), si trova nell’omelia della Messa di
inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano
(Aparecida, 13 maggio 2007):
La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, cosí la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore.
Parlare di “attrazione”, a
proposito dell’attività evangelizzatrice della Chiesa, non era peraltro una
novità: già nel 1991, nella lettera pastorale Alzati e va’ a Ninive, la
grande città! (può essere scaricata qui), il Card. Carlo Maria
Martini aveva elencato sei modi di evangelizzare: per proclamazione, per convocazione,
per attrazione, per irradiazione, per contagio, per lievitazione.
Si direbbe che si tratti di un
dato ormai definitivamente acquisito: la Chiesa non fa — e non deve fare —
proselitismo; la Chiesa è chiamata a evangelizzare, ma non a fare proselitismo
(qualcuno però, a mio parere, dovrebbe prima o poi prendersi la briga di spiegare con cura la
differenza tra evangelizzazione e proselitismo). Eppure fino a non molti anni
fa era pacifico fra i cattolici parlare di proselitismo come di uno dei doveri
fondamentali della Chiesa e di ciascun cristiano. Per fare solo un esempio, si
pensi al capolavoro di San Josemaría Escrivá de Balaguer, Cammino,
pubblicato per la prima volta nel 1934. Ebbene, uno dei suoi 46 capitoli,
precisamente il trentottesimo, è dedicato appunto al “Proselitismo” (nn.
790-812). Citerò qui solo due brevissimi punti:
793. Proselitismo. — È il segno certo dell’autentico zelo.
809. Proselitismo. — Chi non ha fame di perpetuare il suo apostolato?
Come si può vedere, una
prospettiva diametralmente opposta a quella degli ultimi Pontefici. Forse proprio
per questo motivo, gli editori delle opere di Mons. Escrivá hanno sentito il
bisogno di inserire una nota chiarificatrice:
Nella Chiesa, il termine “proselitismo” è stato tradizionalmente utilizzato (e in questo senso lo hanno adottato molti autori spirituali, tra i quali anche San Josemaría) come sinonimo di apostolato o di evangelizzazione: un agire caratterizzato, tra l’altro, da un rispetto assoluto per la libertà che nulla ha a che vedere con l’accezione negativa assunta da tale vocabolo negli ultimi anni del XX secolo. Nel solco di questa tradizione, San Josemaría usa qui la parola “proselitismo” nel significato di proposta, invito rivolto a colleghi e amici a condividere la chiamata di Cristo.
Nota quanto mai opportuna, utile a dissipare l’equivoco lessicale su cui si fonda la polemica contro il
proselitismo, divenuta di moda nella Chiesa dei nostri giorni.
Vediamo di chiarire i termini
della questione. Che cos’è il proselitismo? Il vocabolario on line Treccani ne dà la seguente definizione:
La tendenza a fare proseliti, e l’attività svolta per cercarli e formarli: p. di una religione, di un partito, o dei seguaci di una religione, di un partito, di un’idea.
Come si può vedere, il termine,
in italiano, non ha in sé alcun significato peggiorativo; esso si usa, per lo
piú, in ambito religioso e politico, campi nei quali risulta assolutamente
normale la tendenza a fare proseliti. In inglese, dove esiste anche un verbo proselytize
(= “fare proseliti”, “fare proselitismo”), i dizionari registrano anche un uso
peggiorativo (disapproving) del termine.
Che cos’è un proselito? Ancora dal
citato vocabolario Treccani riprendiamo la
seguente spiegazione:
Nell’antica religione ebraica, chi si convertiva dal paganesimo al giudaismo (il termine indicava, in origine, lo straniero dimorante nel territorio d’Israele). In seguito, per estens., il nuovo seguace di una religione, di un’idea, di un partito, di una corrente letteraria, artistica, e sim.: cercare, fare, trovare, acquistare proseliti.
È noto, negli Atti degli
Apostoli, il racconto della Pentecoste, nel quale troviamo un elenco dei
presenti a Gerusalemme in occasione della festa:
Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio (2:9-11).
Negli Atti degli Apostoli il
termine “proseliti”, in genere, sta a indicare i non-Ebrei che si erano
aggregati al popolo eletto non soltanto osservando la legge, ma anche
accettando la circoncisione (tanto per fare un esempio, era proselito Nicola,
uno dei Sette — 6:5). Da essi vanno distinti i “timorati di Dio” (10:2) o
“credenti in Dio” (letteralmente, “adoratori [di Dio]” — 13:50; 16:14; 17:4.17;
18:7), i quali, pur essendosi convertiti al giudaismo, a differenza dei
proseliti non erano arrivati fino alla circoncisione (tra i timorati di Dio va
annoverato il centurione Cornelio).
Il vocabolo greco προσήλυτος (derivato
da προς, “verso”, e da ἔρχομαι, “venire”) significava
originariamente “sopravvenuto”, “forestiero”; poi era passato a significare
“convertito” (al giudaismo). I cristiani ripresero il termine per indicare
quanti aderivano alla loro fede; successivamente fu usato per riferirsi ai
nuovi adepti di ogni religione, per passare infine a significare quanti
abbracciano le idee di una qualsiasi dottrina o partito.
Come diceva la nota
chiarificatrice presente in Cammino, la parola “proselitismo” è stata
utilizzata dai cristiani per secoli senza problemi, anzi con una accezione
positiva. Fare proseliti era considerato un dovere, che trovava il suo
fondamento in quello che viene talvolta chiamato il “grande mandato” (Great
Commission) di Gesú risorto agli apostoli al termine del vangelo di Matteo:
Euntes docete omnes gentes (28:19). È interessante notare che, mentre
nella precedente traduzione CEI (1974) si leggeva: «Andate e ammaestrate
tutte le nazioni…», nella nuova traduzione (2008) si legge: «Andate e fate
discepoli tutti i popoli…». In effetti, il verbo greco μαθητεύω (derivante da
μαθητής, “discepolo”), che di
solito viene tradotto con “istruire”, “ammaestrare” (nella Volgata è stato
appunto reso con docete), ha come suo primo significato “fare
discepoli”. Qualcuno sa dirmi la differenza esistente tra “fare discepoli” e…
“fare proseliti”?
In tempi recenti il termine
“proselitismo” ha progressivamente assunto un senso peggiorativo. Va detto che
una connotazione tendenzialmente negativa la si trova già nel Nuovo Testamento,
nel contesto delle polemiche di Gesú coi farisei: «Guai a voi, scribi e farisei
ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e,
quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte piú di voi» (Mt
23:15). Il fenomeno della riprovazione odierna del proselitismo sembra però
essere sorto nel contesto delle relazioni ecumeniche fra la Chiesa cattolica e
le Chiese ortodosse. Nell’incontro del 7 dicembre 1987, Papa Giovanni Paolo II
e il Patriarca di Costantinopoli Dimitrios I affermarono in una comune dichiarazione: «Noi rigettiamo
ogni forma di proselitismo, ogni atteggiamento che sia o potrebbe essere
percepito come una mancanza di rispetto». Nel 1993, la Commissione congiunta
internazionale per il dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e la Chiesa
ortodossa, durante la sua settima sessione plenaria tenuta a Balamand (Libano)
nei giorni 17-24 giugno sul tema “L’uniatismo, metodo di unione del passato, e
la presente ricerca della piena comunione”, pubblicò un documento (conosciuto in genere
come Balamand Declaration), nel quale la Chiesa cattolica si impegnava a
non fare piú proselitismo fra gli Ortodossi (nn. 22 e 35). Sono note le accuse di
proselitismo rivolte dalla Chiesa Ortodossa Russa alla Chiesa cattolica,
soprattutto dopo la fine del comunismo e la costituzione di alcune
circoscrizioni ecclesiastiche cattoliche sul territorio canonico del
Patriarcato di Mosca (2002).
Ovviamente il rifiuto del
proselitismo non è solo un fenomeno cristiano, ma è diffuso anche presso altre
religioni. Per esempio, nei paesi islamici, anche quando la costituzione
riconosce il diritto alla libertà religiosa, in genere la legge proibisce alle
altre religioni di esercitare qualsiasi forma di proselitismo, e la conversione
di un musulmano a un’altra religione (“apostasia”) è considerata un crimine passibile
perfino di pena di morte. In India, un paese da sempre multireligioso e con una
secolare tradizione di tolleranza, negli anni recenti sono state approvate, da
parte di alcuni stati, leggi anti-conversione tese a
impedire il passaggio degli indú al cristianesimo.
Personalmente trovo piuttosto singolare
proclamare la libertà religiosa e poi proibire il proselitismo. A me sembra che
uno degli elementi essenziali della libertà religiosa sia il diritto, per ogni credo,
di cercare nuovi adepti; non si può ridurre la libertà religiosa all’esercizio
del culto. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(1948) afferma al riguardo:
Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti (art. 18).
Ovviamente anche la libertà
religiosa, come qualsiasi altro diritto, è soggetta ad alcune limitazioni. La Convenzione internazionale sui diritti
civili e politici (adottata nel 1966 ed entrata in vigore nel 1976) menziona
le uniche restrizioni ammissibili:
La libertà di manifestare la propria religione o credo può essere soggetta solo alle limitazioni prescritte dalla legge e necessarie per proteggere la sicurezza, l’ordine e la salute pubbliche, o la morale o i diritti fondamentali e le libertà di altri (art. 18, § 3).
A tali limitazioni si possono
aggiungere le condizioni previste dal Concilio Vaticano II:
Nel diffondere la fede religiosa e nell’introdurre costumanze si deve sempre evitare ogni modo di procedere in cui ci siano spinte coercitive e sollecitazioni disoneste o meno rette, specialmente nei confronti di persone immature o bisognose. Un tale modo di agire va considerato come abuso del proprio diritto e come lesione del diritto altrui (Dignitatis humanae, n. 4).
Il proselitismo dunque rientra
fra i diritti naturali dell’uomo, che non può in alcun modo essere impedito né
dalle autorità civili né da quelle religiose. Il problema semmai riguarda le
modalità di esercizio: si può far proselitismo in tanti modi diversi. A tale
proposito possiamo fare nostre tranquillamente le sei modalità proposte dal
Card. Martini (per proclamazione, per convocazione, per attrazione, per
irradiazione, per contagio, per lievitazione) e ripudiare qualsiasi forma di
coercizione, fisica o morale che sia. E dobbiamo far tesoro anche delle osservazioni fatte da Papa Francesco domenica scorsa a proposito dello “stile di Gesú”.
D’altronde, in una società
democratica, quale pretende di essere quella in cui viviamo, nessuno si
sognerebbe di impedire la propaganda politica o la pubblicità in ambito
commerciale; la libera concorrenza è uno dei principi fondamentali su cui si
basa l’attuale sistema economico. Non si vede per quale motivo solo in campo
religioso dovrebbe vigere un sistema diverso, nel quale non sia lecito
promuovere liberamente il proprio credo e cercare di convincere altri a seguirlo.
Ovviamente, come in campo politico, economico e commerciale si esige
correttezza e si auspica l’adozione di un codice etico, a maggior ragione in
ambito religioso ci si attende il rispetto delle norme morali e delle basilari
regole della convivenza civile. A questi criteri di comportamento si potrebbe
aggiungere un riguardo speciale verso i fratelli separati, purché esso non violi il diritto di ciascuna Chiesa a presentare sé stessa senza complessi (e senza alcuna detrazione nei confronti delle altre Chiese) e il diritto di
ciascun fedele di aderirvi liberamente.
Per concludere, penso che possa
essere utile fissare alcuni punti:
1. Il concetto di “proselitismo”
non ha in sé alcunché di negativo e di riprovevole: fare proseliti rientra fra
i legittimi diritti di qualsiasi religione. Per la Chiesa esso, oltre a essere un diritto, è anche e soprattutto un dovere.
2. Ciò che può essere oggetto di
critica sono eventualmente le modalità di esercizio del proselitismo, quando
esso viene attuato con metodi non rispettosi della dignità umana. Il fatto che in qualche caso anche la Chiesa abbia
potuto far ricorso a metodi discutibili di proselitismo non giustifica il
ripudio del proselitismo qua talis.
3. Affermare — come ha fatto
Benedetto XVI ad Aparecida e come Papa Francesco non cessa di ripetere — che «la
Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”»
non è logicamente corretto, perché si oppongono due concetti (“proselitismo” e “per
attrazione”) che non si escludono a vicenda (può anche darsi, ed è auspicabile, un proselitismo “per
attrazione”). L’opposizione andrebbe semmai operata fra le modalità di
attuazione del proselitismo (“per attrazione” o “per coercizione”).
4. Si potrebbe liquidare la
controversia come una semplice quaestio de nominibus, simile a tante
altre avvenute in passato senza alcuna effettiva incidenza sulla realtà. Va
riconosciuto che spesso basterebbe intendersi sul significato delle parole che
si usano, e molte polemiche cesserebbero di esistere. L’esperienza di questi
anni però ci ha insegnato che i cambiamenti lessicali sono spesso l’involucro
esterno di ben piú radicali trasformazioni ideologiche. Si pensi, per esempio, all’imposizione del cosiddetto “linguaggio inclusivo” nel mondo anglosassone
(grazie al Cielo, ne siamo stati in parte risparmiati), attraverso la
quale si è fatta passare impercettibilmente l’ideologia del gender.
Tutti sappiamo quanto certo linguaggio “politicamente corretto” rifletta
determinate visioni ideologiche della realtà. In ambito ecclesiale, c’è stato
chi (Plinio Corrêa de Oliveira) ha messo in evidenza il ruolo del “trasbordo
ideologico inavvertito”, operato attraverso alcune “parole talismaniche” in
vista di un mutamento radicale della mentalità. Ebbene, non mi sembra affatto da
escludere che, anche nel caso del “proselitismo”, si sia operata una graduale
variazione di significato per raggiungere un preciso obiettivo ideologico: si è
partiti da un deterioramento semantico del termine “proselitismo” (da “segno di autentico
zelo” a “sciocchezza”, e ora addirittura a “peccato”) per passare poi alla
colpevolizzazione di quanti lo praticano e giungere infine alla inibizione di
qualsiasi attività evangelizzatrice della Chiesa. Certamente non è questa
l’intenzione degli ultimi Papi, ma forse una maggiore consapevolezza di
certi meccanismi occulti e un pizzico in piú di cautela nel fare certe affermazioni non
guasterebbero.
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