Un lettore, che dichiara di
trovarsi in genere in sintonia con quanto vado sostenendo in questo blog, mi ha scritto
per esprimere il suo dissenso a proposito delle idee da me espresse nel post
del 4 gennaio scorso (“Modi
diversi di vivere la tradizione”). E mi sottopone una serie di domande
piuttosto impegnative:
1. Quale professio fidei? Se in essa vi è incluso Trento e il Vaticano I, [i lefebvriani] dovrebbero per prima cosa riconoscere l’illegittimità della loro posizione nei confronti della Santa Sede. Cioè dovrebbero riconoscere di aver agito in modo errato e di aver ferito l’unità della Chiesa. Cioè dovrebbero, in altre parole, farsi “penitenti” e ammettere di aver disobbedito in modo grave e con scandalo per molti. Questo non solo non è mai avvenuto, neppure per accenni, ma hanno piú di una volta rincarato la dose. Proprio perché sono d’accordo con lei che una certa severità fa parte dell’educazione (cf quanto lei dice su aborto e misericordia), non vedo perché questo non debba riguardare anche l’atteggiamento orgoglioso e deliberato dei seguaci dello scisma.
2. L’accettazione del Vaticano II sarebbe facoltativa? A mio parere, se vogliono far parte della Chiesa cattolica romana, l’accettazione del Vaticano II è una condizione non negoziabile. Se il Vaticano II (ecumenico sí o no?) diventa un optional per un gruppo, non vedo perché non possa diventarlo per chiunque. E questo sarebbe un suicidio, per motivi che lei può capire molto bene. Con questo non intendo dire che l’ultimo Concilio non abbia i suoi limiti e che la sua recezione non ne abbia ancora di piú. Ma piú di un concilio ha avuto dei limiti, a partire da Trento e dal Vaticano I. Anche nel magistero piú alto e solenne ci possono essere contingenze e parzialità. Questo però non autorizza a squalificarlo in toto. Se Mons. Lefebvre ha firmato i documenti conciliari, quale problema ci sarebbe ad accettarli da parte dei suoi seguaci, riservandosi eventualmente una interpretazione specifica?
3. Il problema liturgico (riforma della riforma, ordo vetus, ecc., a cui lei accenna in un altro suo post) non è secondario, in tutto questo. Lei, quando parla della riforma della curia, fa delle osservazioni molto sensate; fra l’altro fa notare che non si può stare a riformare la curia in continuazione o con troppa frequenza, bisogna anche sapere accettare, cum grano salis, certe imperfezioni del medium umano e conservare una certa stabilità e continuità nel tempo. Questo, non solo il solo a dirlo, vale molto di piú per la liturgia. Personalmente sarei contrario a rimettere mano all’attuale stato dei testi liturgici, a meno che non si tratti di aspetti periferici, non strutturali. Proprio per evitare la danza dei cambiamenti in quel cuore rituale che è bene duri nei lunghi periodi sostanzialmente invariato e ripetitivo (anche il messale di Pio V non era immune, come si sa, da cospicui limiti). Le riforme della liturgia dovrebbero essere meno frequenti almeno rispetto a quelle della curia romana. Il problema principale, a mio parere, non sono gli attuali libri liturgici, ma il fatto che essi sono spesso disattesi e messi male in pratica. Ora, l’insistenza della Fraternità San Pio X sul vecchio rito, intangibile e sacralizzato per loro, è proprio segno di una ideologizzazione, accusa dalla quale lei sembra assolvere, forse un po’ troppo facilmente, i fratelli scismatici.
4. I seguaci di Mons. Lefebvre sono davvero ancora scismatici? La scomunica è stata tolta da Papa Benedetto; Papa Francesco ha confermato che si può ricevere non solo validamente ma anche lecitamente l’assoluzione sacramentale presso i loro sacerdoti... a questo punto l’unità è praticamente già fatta. Anche qui non si capisce bene: l’assoluzione sí e perché non la comunione? Su questo punto si tace. Immagino mantenendo la celebrazione eucaristica e l’intercomunione ancora sotto una riserva. Ma forse che il Papa non sa che quelli che “per vari motivi” si confessano da quei sacerdoti partecipano poi anche alle loro messe? Dunque riceverebbero lecitamente l’assoluzione avendo già l’intenzione di ricevere illecitamente la comunione. Siamo a posto.
5. Il metodo pastorale adottato da Francesco verso i lefebvriani mi sembra che metta in luce nel modo piú chiaro il vistoso limite del suo concetto e della sua pratica della misericordia: in fondo non è proprio necessaria la conversione, il riconoscimento dello sbaglio e la penitenza relativa; basta la sola gratia, discendente, che cosí lascia le cose come stanno oppure le peggiora, perché crea confusione. C’è anche il limite “dottrinale”, le classiche confusioni in cui cade ogni tanto il Pontefice del “discernimento”: assoluzione sí comunione no, come se la grazia fosse ripartibile col metro. Naturalmente sull’atteggiamento aperturista di oramai quasi totale legittimazione degli anticonciliari lefebvriani da parte del Papa (come ho detto manca solo la “formale” intercomunione), i fans aperturisti di Francesco tacciono sistematicamente, perché per loro è imbarazzante.
Proverò a rispondere a ciascun
punto, ma senza rispettare l’ordine in cui le domande sono state formulate. Si
tratta di pensieri già espressi su questo blog; ma non posso pretendere che i
nuovi lettori vadano a leggersi tutti i post da me scritti in passato, né che gli aficionados
ricordino ogni parola da me pronunciata anche diversi anni fa.
Il Concilio e la professione
di fede
Partirei dalla questione del
Concilio, che, a mio parere, va risolta prima di ogni altra. Nel mio post
affermavo: «Il Vaticano II va preso per quello che è, e cioè un Concilio …
“pastorale”». Con ciò non intendevo in alcun modo squalificare il Concilio, ma
semplicemente metterlo nella giusta prospettiva. Come dicevo, nei suoi
confronti non si deve né avere un totale rifiuto, né considerarlo un
“superdogma”. Proprio per il suo carattere pastorale e per non aver voluto
definire alcun nuovo dogma, esso non deve essere tanto teorizzato (col
rischio di trasformarlo in una ideologia, come di fatto è avvenuto in molti
casi negli ultimi cinquant’anni), quanto piuttosto attuato (visto che i
suoi insegnamenti hanno per lo piú carattere pratico). Il Concilio non ha in
alcun modo cambiato la dottrina cattolica (anche se forse qualcuno avrebbe
voluto che lo facesse e molti pensano che lo abbia fatto), ma ci ha invitati a
cambiare mentalità, ad assumere un nuovo stile, a praticare metodi pastorali
diversi.
Questo ci obbliga ad adottare un
atteggiamento diverso anche nei confronti della FSSPX. Uno degli aspetti
principali del Vaticano II è, senza dubbio, l’ecumenismo, inteso non solo come
ristabilimento dell’unità con le antiche Chiese e comunità ecclesiali separate
da Roma, ma anche come stile da assumere nei confronti di chiunque si è in
qualche modo allontanato dalla comunione con la Chiesa cattolica. Ebbene, il
Decreto conciliare sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio) non solo ci
invita a «eliminare parole, giudizi e opere che non rispecchiano secondo equità
e verità la condizione dei fratelli separati e perciò rendono piú difficili le
mutue relazioni con essi» (n. 4), ma ci indica anche che cosa si deve
pretendere quando un non-cattolico chiede di essere riammesso nella Chiesa
cattolica: «Per ristabilire o conservare la comunione o l’unità bisogna “non
imporre altro peso fuorché le cose necessarie” (At 15:28)» (n. 18).
Il “Rito dell’ammissione alla
piena comunione della Chiesa cattolica di coloro che sono già stati validamente
battezzati” (Rito
dell’iniziazione cristiana degli adulti, Appendice), dopo aver fatto
riferimento al succitato testo conciliare (n. 1), stabilisce: «Da chi è nato e
battezzato fuori della comunione visibile della Chiesa cattolica non si
richiede piú l’abiura dall’eresia, ma soltanto la professione di fede» (n.
6). E in nota rimanda al Direttorio
ecumenico del 1967, nn. 19 e 20 (nel Direttorio
del 1993 questo aspetto non viene ribadito semplicemente perché, penso, nel
nuovo Codice di diritto canonico son si parla piú di abiura). Il Rito
dell’ammissione prevede la recita del Simbolo niceno-costantinopolitano seguito
dalla formula: «Credo e professo tutte le verità che la Santa Chiesa cattolica
crede, insegna e annunzia come rivelate da Dio» (n. 15).
Se questo è quanto la Chiesa esige
dai non-cattolici che bussano alla sua porta, chiedo: perché dai lefebvriani
(di cui nessuno finora ha messo in dubbio la cattolicità) dovrebbe pretendere
qualcosa di diverso (accettazione incondizionata del Concilio, sottoscrizione
del Catechismo della Chiesa cattolica, ecc.)? Si ritiene che la formula
prevista dal rito di ammissione su riportato non sia sufficiente? Si richieda
allora l’emissione della professio
fidei, prevista dal can. 833. Ovviamente, una volta ristabilita la
piena comunione e riconosciuta canonicamente la nuova Prelatura (o quel che
sia), al Prelato, nell’assumere il suo ufficio, sarà anche richiesto di
prestare il “giuramento di fedeltà” annesso alla professione di fede.
Ma allora, che fine fa il
Vaticano II? diventa un optional, vincolante per alcuni e senza valore
per altri? Nei tre commi finali della professione di fede si dichiara di
accogliere, con l’assenso richiesto per ciascun livello di magistero
(infallibile, definitivo e autentico), quanto insegnato dalla Chiesa. Come
giustamente faceva notare Mons. Guido Pozzo nelle sue interviste, il problema non
è tanto l’accettazione del Vaticano II, quanto piuttosto l’accettazione del
Magistero della Chiesa: «L’ufficio di interpretare autenticamente la parola di
Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa,
la cui autorità è esercitata nel nome di Gesú Cristo» (Dei Verbum, n.
10). L’accettazione del Concilio Vaticano II (con le sue peculiarità), al pari
dell’accettazione di tutti gli altri Concili (con le loro peculiarità), rientra
nella sottomissione — questa sí incondizionata — al Magistero della Chiesa. A
me nessuno ha mai chiesto di fare una dichiarazione di fedeltà al Concilio; non
vedo perché debba essere chiesto ai lefebvriani.
Lo stato canonico della
FSSPX e il metodo pastorale di Papa Francesco
“I seguaci di Mons. Lefebvre sono
davvero ancora scismatici?” Forse una domanda come questa, piú che a me,
andrebbe rivolta a un canonista. Secondo il can. 751, lo scisma consiste nel
«rifiuto della sottomissione al Romano Pontefice o della comunione con i membri
della Chiesa a lui soggetti». I commentatori fanno notare che si parla di
“rifiuto”, non di semplice disobbedienza. La FSSPX ha commesso tale delitto?
Non sta a me dare una risposta. Certamente Mons. Lefebvre e i quattro Vescovi
da lui consacrati incorsero nella scomunica latae sententiae, prevista
dal can. 1382 (consacrazione episcopale senza mandato pontificio); ma quella
scomunica è stata revocata con il decreto del 21 gennaio 2009. Nella lettera
ai Vescovi della Chiesa cattolica del 10 marzo 2009, Benedetto XVI
scriveva: «Un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il
pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del Collegio
episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione piú
dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al
pentimento e al ritorno all’unità». Il Papa parlava di “pericolo di scisma”,
non di “scisma”. Perché continuare a parlare di “scisma” dopo la remissione
della scomunica? In quella stessa lettera Benedetto XVI aggiungeva: «Il fatto
che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa,
non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la
Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri
non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra
il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello
dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per
precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non
sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i
suoi ministri — anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica —
non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa». Il problema dunque
non stava nello scisma, ma nella posizione canonica della FSSPX.
La mancanza di uno stato canonico nella Chiesa impediva ai suoi membri di
esercitare legittimamente qualsiasi ministero. Mi par di capire che essi si
trovassero dunque in una condizione di “sospensione” (can. 1333). Ma ora sembra
che anche questa situazione, quantunque senza una esplicita dichiarazione, sia stata di fatto superata. La decisione, prima temporanea (lettera
del 1° settembre 2015) poi definitiva (lettera
apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016), di Papa
Francesco di concedere la facoltà di assolvere a tutti i sacerdoti della FSSPX
sembrerebbe aver superato anche la situazione di “sospensione”, per cui ora si
ha l’impressione che sia rimasto solo il problema del riconoscimento canonico
della Fraternità.
A questo punto si possono
inserire le riflessioni sui metodi seguiti da Papa Francesco. Penso che tutti
abbiano ormai capito che non rientro fra i sostenitori delle “aperture”
pastorali dell’attuale Pontefice. Uno degli aspetti che desta in me maggiore
preoccupazione è il suo dichiarato disinteresse per le questioni dottrinali. A
questo proposito, non condivido affatto l’approccio da lui adottato in campo
ecumenico; non credo che giovi in alcun modo alla causa dell’unità ignorare le
differenze dottrinali che ci separano gli uni dagli altri; non è vera (o, per
lo meno, piena) unità quella che si limita a collaborare per il bene materiale dell’umanità.
Ciò nonostante, sono convinto che, nell’affrontare le diverse questioni, un
pizzico di sano pragmatismo non guasti. I fatti hanno dimostrato che la
posizione assunta dal Card. Ratzinger prima e da Benedetto XVI poi nei
confronti della questione lefebvriana era inadeguata. Insistere sul fatto — lo
abbiamo appena visto ribadito nella sua lettera ai Vescovi — che il problema
della FSSPX non fosse di carattere disciplinare, ma dottrinale, non ha portato
a nessun risultato. Per questo, nella fattispecie, apprezzo maggiormente l’atteggiamento
piú spregiudicato di Papa Bergoglio. Le reazioni delle opposte tifoserie non
credo che abbiano alcuna rilevanza in questa sede.
Il problema
dell’«intercomunione»
A tale proposito, mi sembra che
la situazione sia abbastanza confusa. Ci sono stati diversi pronunciamenti (in
genere lettere di risposta a precise domande dei fedeli) da parte della
Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, non sempre del tutto coerenti fra loro.
Nelle lettere
del 27 settembre 2002, del 18 gennaio 2003 e del 5 settembre 2005, quindi
prima della revoca della scomunica, l’allora Segretario Mons. Camille Perl
aveva dichiarato che si può assolvere il precetto festivo assistendo alle Messe
celebrate dai sacerdoti della FSSPX (che non dovevano essere considerati scomunicati,
ma soltanto sospesi). Poi, il 1° dicembre 2010 (quindi dopo la
remissione della scomunica), ci fu l’intervista
di Mons. Guido Pozzo, in cui si invitavano i fedeli cattolici a evitare la
partecipazione alla Messa celebrata dai sacerdoti della FSSPX, perché
canonicamente irregolari (successivamente,
Mons. Pozzo precisò che nulla era cambiato rispetto alla posizione precedentemente
espressa da Mons. Perl). Il 28 maggio 2012, infine, lo stesso Mons. Pozzo ha
scritto una lettera
che sembrerebbe contraddire i precedenti pronunciamenti. Per cui risulta
difficile esprimersi in proposito. Personalmente, ritengo che, se è possibile
soddisfare il precetto festivo partecipando alla Messa celebrata dai sacerdoti
della FSSPX, è altrettanto lecito comunicarsi durante quella Messa.
Il Vetus Ordo e la
“riforma della riforma”
La celebrazione della Messa
secondo il Messale di San Pio V mi sembra che debba essere considerata uno
degli elementi essenziali del carisma della FSSPX. In questo non vedo
assolutamente nulla di illegittimo: nella Chiesa esistono — sono sempre
esistiti — tanti riti diversi; non vedo che cosa ci sia di male se la Chiesa
ammette delle realtà (istituti religiosi, società di vita apostolica,
prelature, ordinariati, parrocchie, cappellanie, ecc.) che seguono l’antico
rito (come nella Primaziale di Toledo c’era una cappella dove si celebrava —
non so se ciò avvenga ancora — secondo il rito mozarabico, o i domenicani
celebravano secondo il loro rito proprio). Si tratta semplicemente di mantenere
vivo un rito che è stato il rito della Chiesa latina per secoli (i lefebvriani
diventerebbero cosí in qualche modo nella Chiesa i “testimoni della tradizione”). È
chiaro che quanti celebrano secondo questo rito non possono considerarlo
esclusivo, quasi fosse l’unico valido, né devono farne un’ideologia. Ma questo
è un discorso che vale per tutti i riti, Novus Ordo compreso.
Il discorso della “riforma della
riforma”, a mio parere, non tocca direttamente la FSSPX; è un discorso che
riguarda noi, che celebriamo la liturgia cosí come rinnovata dopo il Concilio
Vaticano II. Sono d’accordo sul fatto che il problema della riforma liturgica
sia, innanzi tutto, quello di una sua spesso carente applicazione. Sono pure
d’accordo sul fatto che non si può fare una riforma a ogni elezione di Papa; ma
questo non significa che il rito della Messa, come lo celebriamo noi oggi, non
possa subire qualche ritocco. Capisco — come qualcuno mi ha fatto notare — che
questo non è il momento migliore per farlo (secondo Sandro
Magister, pare che si voglia addirittura rimettere in discussione
l’istruzione Liturgiam authenticam del 2001, e tornare cosí alle sciatte
traduzioni dell’immediato postconcilio); ma qui stiamo parlando in linea di
principio, non perché si debba mettere in cantiere la “riforma della riforma” nei
prossimi mesi. Quando si parla di “riforma della riforma”, non si tratta di
abolire la riforma liturgica, ma semplicemente di migliorarla, recuperando
alcuni elementi del vecchio rito (p. es., l’orientamento o l’uso, almeno
parziale, del latino), che forse erano stati frettolosamente abbandonati nella
riforma postconciliare. Il punto di riferimento di tale “riforma della riforma”
non dovrebbero essere i gusti personali di Tizio o Caio, ma la Costituzione
conciliare Sacrosanctum Concilium, che in alcuni punti è stata
indebitamente disattesa dalla riforma postconciliare. Non ho mai fatto mistero
del mio, diciamo cosí, scarso entusiasmo per la liberalizzazione indiscriminata
dell’usus antiquior (si veda, p. es., il post
del 22 maggio 2011); sono profondamente convinto del fatto che, come
affermato dal Card. Ratzinger, «a lungo termine la Chiesa romana deve avere di
nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e
per i preti è difficile da “gestire” in pratica» (lettera
al Dott. Heinz-Lothar Barth del 23 giugno 2003); anzi, sono giunto alla
conclusione che la “riforma della riforma”, proposta dal Card. Ratzinger,
debba avere proprio questo obiettivo: ridare alla Chiesa romana un unico rito romano.
Come ha scritto il Card. Robert Sarah
nel suo libro La force du silence, «Se Dio lo vuole, quando lo vorrà e
come lo vorrà, in liturgia, la riforma della riforma si farà. Nonostante lo
stridore di denti, essa verrà, perché ne va dell’avvenire della Chiesa».
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