Questo blog (nato col titolo Senza
peli sulla lingua e trasformatosi dal giugno scorso in Antiquo robore)
ha avuto tre fasi: la prima, la piú lunga e la piú prolifica (359 post), va
dalla sua nascita (gennaio 2009) fino al luglio 2011; la seconda è stata la piú
breve (si è limitata a pochi mesi del 2013, tra marzo e maggio, con un occasionale
sconfinamento nel mese di ottobre) e la meno feconda (8 post); la terza è
quella attuale: iniziata un anno fa (gennaio 2016), ha finora prodotto 100 post
(c’è però da dire che piú della metà di essi è costituito dalle mie omelie
domenicali).
Uno degli argomenti maggiormente trattati nei post della prima fase (ma totalmente trascurato nelle fasi
successive) era la riconciliazione con la “Fraternità sacerdotale San Pio X”
(FSSPX). Anzi, direi che il blog è nato proprio in seguito a un evento che
vedeva coinvolti appunto i seguaci di Mons. Lefebvre: la revoca della scomunica ai quattro
Vescovi della Fraternità e le polemiche che ne erano derivate, in particolare
la dichiarazione dell’Episcopato tedesco, che chiedeva ai quattro Vescovi di
manifestare «in modo inequivocabile e credibile la loro fedeltà al Concilio
Vaticano II e in particolare alla dichiarazione Nostra Aetate» (si
veda il primo post del 30 gennaio 2009).
Seguirono una ventina di interventi in cui si cercava di dimostrare che un
accordo con la FSSPX era molto piú semplice di quanto non sembrasse. In maniera
volutamente scherzosa, provai a esporre la mia posizione nel post del 18 marzo 2009:
praticamente sostenevo che, a mio modesto parere, per ristabilire la piena
comunione della FSSPX con la Chiesa cattolica bastava esigere l’emissione della
professione di fede (posizione confermata e precisata nei post dell’11 settembre 2010 e del 13 settembre 2010). Si preferí
percorrere un’altra via, quella dei “colloqui dottrinali”. S’è visto com’è
andata a finire.
Nel frattempo c’è stata
l’elezione di Papa Francesco, che ha riacceso le speranze per una composizione
della frattura, che sembravano essersi ormai spente. Per due serie di motivi: primo,
perché l’attuale Pontefice è, per natura, portato a non dare troppo peso alle
questioni dottrinali; secondo, perché, come Arcivescovo di Buenos Aires e
Primate argentino, ha sempre intrattenuto buoni rapporti con la Fraternità, al
punto da non negare l’endorsement per il suo riconoscimento civile.
Mons. Bernard Fellay ha avuto modo di incontrarsi personalmente, seppur in modo
non ufficiale, con Papa Bergoglio. In questo nuovo clima va inquadrato anche l’atteggiamento
piú conciliante assunto dalla Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” sulle
questioni dottrinali. Particolarmente significative al riguardo mi sembrano le diverse
interviste di Mons. Guido Pozzo, tra le quali si segnalano quella rilasciata
a Famille Chrétienne il 20 ottobre 2014 (tradotta in italiano dal sito Una Vox) e quelle rilasciate all’agenzia ZENIT nell’anno appena concluso (28 febbraio 2016 e 8 aprile 2016). Praticamente in
queste interviste, a proposito dell’interpretazione del Concilio, il Segretario
di “Ecclesia Dei” sostiene una tesi assai simile a quella da me esposta
nell’articolo Concilio e “spirito del Concilio”
e, come unico punto “non negoziabile” nelle trattative per giungere a un
riconoscimento canonico, indica… «l’adesione alla Professio fidei»! Probabilmente
se, invece di inoltrarsi in estenuanti e inconcludenti “colloqui dottrinali”
e pretendere dai lefebvriani un’incondizionata adesione al Vaticano II, si
fosse adottata sin dall’inizio una posizione del genere, a quest’ora la FSSPX
sarebbe già un’istituzione (prelatura, ordinariato o quel che sia) della Chiesa
cattolica.
Naturalmente non tutti, tanto fra
i progressisti quanto fra i tradizionalisti, vedono di buon occhio una
eventuale riconciliazione. Certamente non si possono ignorare i possibili
rischi di un riconoscimento canonico nell’attuale momento; d’altra parte non
sembra proprio il caso di lasciarsi sfuggire un’occasione piú unica che rara.
Personalmente, per tanti motivi, avrei preferito che l’accordo fosse raggiunto
durante il pontificato di Benedetto XVI. Ma il fatto che ciò non sia avvenuto
insegna che in genere ci si dovrebbe muovere con maggiore libertà e ci si
dovrebbe lasciar guidare esclusivamente da fattori oggettivi, senza farsi
condizionare dalle reazioni che determinate decisioni potrebbero provocare (per
cui si finisce per chiedere ai lefebvriani piú del necessario, solo per evitare
di essere poi accusati di eccessiva arrendevolezza). Molti, nella FSSPX o da
essa fuoriusciti, accusano la Fraternità di cedimento e di deriva liberale. In
uno di questi episodi mi sono trovato coinvolto personalmente. Sul sito Non
possumus della “Società sacerdotale degli Apostoli di Gesú e Maria”,
appartenente alla cosiddetta “Resistenza cattolica” (il movimento creato da Mons.
Richard Williamson dopo la sua espulsione dalla FSSPX), è apparso recentemente
un post a proposito di «Un articolo “politicamente corretto” di DICI
sui dubia dei quattro Cardinali». Nell’articolo in questione,
pubblicato sul sito DICI il 24 novembre 2016,
l’autore, l’Abbé Alain Lorrans, a un certo punto scriveva:
Au fond, comme le dit un bon analyste de la crise présente, on voit deux conceptions de l’Eglise s’affronter : « D’un côté il y a ceux qui considèrent qu’il est du devoir pastoral de l’Eglise d’enseigner la doctrine révélée, telle qu’elle est ; de l’autre, ceux qui préconisent comme unique attitude pastorale acceptable, l’accompagnement, le discernement et l’intégration ».
Ebbene, quelli di Non possumus
si son sentiti in dovere di smascherare l’anonimo “analista” citato dall’Abbé:
¿Quién es este “buen analista de la crisis presente”? Se trata del P. Giovanni Scalese, un liberal moderado perteneciente al clero oficial.
A tale rivelazione hanno fatto
seguire un florilegio di mie “buone analisi”, per dimostrare appunto la deriva
liberale della FSSPX. Ecco, mi sembra che ci troviamo di fronte a un chiaro
esempio di due diversi modi di essere tradizionalisti: un modo intelligente e
un modo contrassegnato da grettezza mentale. Pur non essendo io un lefebvriano (ma
neppure un “liberale”, seppur “moderato”), ho sempre nutrito rispetto e stima
per Mons. Lefebvre e la Fraternità da lui fondata, perché ritengo che abbiano svolto — e
continuino a svolgere — un ruolo importante nella Chiesa, quello di richiamare
tutti alla tradizione, spesso trascurata in questi anni; e per questo ho sempre
auspicato una riconciliazione. Devo dire che il mio rispetto e la mia stima sono
stati ampiamente ricambiati. Quando pubblicai l’articolo Concilio e “spirito
del Concilio”, esso fu ripreso su La Porte Latine. Nel
messaggio che mi inviarono per comunicarmi l’avvenuta pubblicazione definirono
il testo “très interéssant”. Quando, lo scorso anno, uscí l’esortazione
apostolica Amoris laetitia, la FSSPX diffuse una dichiarazione, nella quale si
riprendevano, con tanto di virgolettato, diversi passaggi del mio post del 14 aprile 2016. Ora, nel
sito ufficiale della Fraternità, il riferimento alle mie “analisi” sulla crisi
della Chiesa (per inciso, la frase citata nell’articolo dell’Abbé Lorrans è
ripresa dal post del 16 novembre 2016). Il
fatto che i lefebvriani si trovino spesso d’accordo su pensieri espressi da un
“liberale moderato appartenente al clero ufficiale” dimostra che anche loro,
ormai, sono irrimediabilmente persi? Secondo me, dimostra semplicemente che
sono intelligenti e senza complessi, che sanno ancora ragionare con la loro testa, sono aperti
alla verità dovunque essa si trovi e non sono ancora diventati vittime
dell’ideologia. Questo dimostra anche che, se da parte della Chiesa cattolica
non si fossero assunti atteggiamenti, diciamo pure, “ideologici”, non solo a
quest’ora lo “scisma” sarebbe già rientrato, ma probabilmente non sarebbe mai
avvenuto. Quando c’è chiarezza e rigore sui principi e disponibilità sulle
questioni pratiche; quando c’è apertura mentale e buona volontà; quando c’è
piena consapevolezza della propria identità e tolleranza verso le legittime
diversità, un accordo prima o poi lo si trova, pur conservando ciascuno la
propria specificità (che a quel punto non è piú un motivo di conflitto, ma una
ricchezza per tutti).
Purtroppo, non sempre si incontra
tale apertura alla verità («Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto
est»), ma ci si imbatte spesso in menti anguste e ottenebrate dall’ideologia
(anche la tradizione, male interpretata, può trasformarsi in ideologia!). Ed è
cosí che non interessa se un’affermazione sia giusta o sbagliata in sé, ma
importa di piú chi l’ha pronunciata (contraddicendo in tal modo la saggia ammonizione
dell’Imitazione di Cristo: «Non quæras quis hoc dixerit, sed quid
dicatur attende»). Cosa può venire di buono da un “liberale moderato
appartenente al clero ufficiale”? Sembra di sentire Natanaele: «Da Nazaret
può venire qualcosa di buono?». Il bello è che certi atteggiamenti di chiusura
non si rinvengono solo fra chi è di fatto fuori della Chiesa, ma anche fra
certi tradizionalisti di casa nostra. Quando appunto pubblicai i miei dieci
punti sull’Amoris laetitia («Salutare autocritica»), mentre i
lefebvriani vi trovarono alcuni spunti degni di essere ripresi nella loro
dichiarazione ufficiale, qualche cattolicone de noantri ebbe da ridire
sul fatto che in quel post, per criticare l’esortazione apostolica, si era fatto
ricorso al Concilio!
Non sono pochi i cattolici
tradizionalisti che, di fronte alla crisi senza precedenti che sta
attraversando la Chiesa, anziché indignarsi, preferiscono rimarcare, con
distacco e una certa superiorità: “Perché meravigliarsi? Quanto sta accadendo
non è altro che la naturale conseguenza del Vaticano II. Il male non è ciò che
oggi si sta verificando, ma il Concilio che ha posto le premesse perché questo
avvenisse”. Dimenticando che fra il Concilio e noi ci sono cinquant’anni,
durante i quali i Papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro hanno
dimostrato che non è vero che dal Concilio debba necessariamente derivare il
sovvertimento della Chiesa e della sua dottrina. Per limitarci all’ambito
morale, chi ha scritto l’Humanae vitae o la Familiaris consortio,
a cui oggi ci si appella per confutare Amoris laetitia? Forse Pio XII? O
non piuttosto due Papi “conciliari”, che evidentemente non avevano trovato nel
Vaticano II motivi che li portassero alle conclusioni di Amoris laetitia?
Chi assume nei confronti del Concilio un atteggiamento di totale rifiuto non è
poi cosí diverso da chi lo considera un “superdogma”, del quale non è lecito
mettere in discussione neppure una virgola. Come in tutte le cose, esiste una
via di mezzo — su cui, a quanto pare, si trovano d’accordo anche i lefebvriani
— per la quale il Vaticano II va preso per quello che è, e cioè un Concilio (quindi
un’espressione solenne del magistero ecclesiastico, a cui è dovuta la massima
attenzione) “pastorale” (e quindi con tutti i limiti che questo comporta). Il
Vaticano II non va né respinto in blocco né assolutizzato. Nei confronti del
Concilio va assunto quell’atteggiamento rispettosamente critico che, accanto a
una generale accettazione, non esclude la possibilità di discutere su alcune
questioni che non possono essere considerate definitivamente chiuse. Se Mons.
Lefebvre firmò tutti i documenti conciliari, significa che non vi rinveniva
alcuna eresia; sicuramente si rendeva conto dell’ambiguità di certe
espressioni, ma evidentemente era convinto che di quei testi si potesse dare
un’interpretazione ortodossa. Se a un certo punto cambiò atteggiamento, si può pensare
che lo fece perché ebbe l’impressione — certamente non infondata — che nella
Chiesa stesse avendo il sopravvento una interpretazione errata del Concilio. Ma
se la Chiesa dichiara autorevolmente qual è l’interpretazione corretta (e
Benedetto XVI, irresponsabilmente disatteso, lo fece nel discorso del 22
dicembre 2005, e ora Mons. Pozzo completa quella prospettiva con alcune importanti precisazioni),
perché continuare a scaricare sul Concilio colpe che non ha?
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