Dopo aver pubblicato l’edizione italiana delle
Costituzioni dei Barnabiti del 1579 (Barnabiti Studi, n. 31/2014), sono
ora alle prese con la traduzione delle Regulae officiorum, vale a dire
le norme pratiche che regolavano la vita di ogni giorno di una comunità dei
Chierici Regolari di San Paolo. Anch’esse si sono andate formando fra Cinque- e
Seicento, per essere poi riviste e adattate piú volte nei secoli successivi (la
loro ultima edizione risale al 1950).
Se il lavoro sulle Costituzioni era risultato
estremamente interessante, perché mi aveva dischiuso le ricchezze di quello che
era stato il codice fondamentale dei Barnabiti per quattrocento anni (1579-1976),
il lavoro sulle Regulae officiorum si annuncia ancora piú appassionante,
giacché, oltre a ritrovarvi lo spirito della Congregazione, ci si trova di
fronte alla vita concreta di ogni giorno, con i suoi risvolti positivi e
negativi e con precise indicazioni su come comportarsi.
Io rimango a bocca aperta dinanzi a tanta saggezza, che
non è certamente improvvisata, ma il risultato di una lunga e sofferta
esperienza. Ed è proprio questo che colpisce di piú: i nostri maggiori non
avevano la pretesa di “inventare” la propria vita ogni giorno, come siamo
portati — e spesso invitati anche dall’alto — a fare noi oggi; essi facevano
tesoro degli ammaestramenti di una tradizione precedente (il magistero dei
Padri del deserto), ad essi aggiungevano la loro esperienza vissuta e tutto ciò
trasformavano in preziose direttive per sé e per i propri successori.
È qualcosa che oggi abbiamo perso completamente. Noi
siamo convinti di dover ogni giorno ricominciare da zero. Ciò che appartiene al
passato è ipso facto vecchio, superato, e perciò non ha piú nulla da
dirci; siamo noi che dobbiamo di giorno in giorno decidere come sia meglio comportarci.
In base a cosa? A quello che in quel momento ci sembra piú utile. E non ci
accorgiamo che questo è il modo migliore per andare incontro a un sicuro fallimento.
Guardate, tanto per fare un esempio, a ciò che accade in campo legislativo: le
leggi che si approvano sono in genere il prodotto di compromessi fra diverse
visioni ideologiche, per lo piú lontane dalla realtà, e sono spesso frutto di
scarsa cultura e di improvvisazione. Col risultato che sono già vecchie ancor prima
di essere approvate e, dopo qualche anno, devono essere sostituite da altre
leggi con gli stessi difetti.
Vorrei invece rendervi partecipi dello spirito che
animava la vita di un ordine religioso fino a non molti anni fa (da qualche
tempo a questa parte la mentalità diffusa nel mondo si è purtroppo introdotta
anche all’interno della Chiesa e della vita religiosa). Sono sufficienti tre
delle circa cento norme che regolavano l’ufficio del Superiore generale (da noi
chiamato, come fra i gesuiti, “Preposito generale”) per farsi un’idea. La prima
è una norma ripresa dalle Costituzioni (libro IV, cap. 12, § 14):
Quemadmodum in ea cura diligens esse debet, ut quae constituta vel decreta sunt, observentur; ita ipse in ordinationibus faciendis parcus sit, et a rebus novis alienus (n. 48).
Come deve essere scrupoloso nell’impegno di fare osservare le Costituzioni e i Decreti [dei Capitoli generali], cosí sia moderato nell’emanare disposizioni e alieno dalle novità.
Colpisce questo invito a moderarsi nel legiferare: le
leggi ci sono, e sono sufficienti; basta osservarle. Inutile aggiungere nuove
leggi, sapendo magari in anticipo che nessuno le prenderà neppure in
considerazione. Ma ciò che oggi lascia maggiormente allibiti è quell’ultimo
invito, a essere “alieno dalle novità”. Ma come? Oggi sembra che il valore di
una persona stia nella capacità di sfornare ogni giorno una novità; e allora
invece si esortava un Superiore generale a essere alieno dalle novità? È
proprio vero che i tempi cambiano. La seconda norma che vorrei proporvi è
invece una raccomandazione che trova la sua ispirazione nella Sacra Scrittura:
Neque item facile, aut sine admodum gravi necessitate, quae Praedecessor eius legitime fecerit, ipse immutet, aut immutare pertentet; quod et ab aliis Praepositis omnino servari curet. Ex eiusmodi namque mutationibus graves animorum perturbationes oriri possunt, et sancta illa cordium unanimitas non leviter offendi, quam in tota Congregatione ipse in primis fovere, conservare atque augere tenetur, ut unanimes uno ore honorificemus Deum, et non sint in nobis schismata (n. 51).
E neppure cambi o tenti di cambiare con facilità, o senza una gravissima necessità, ciò che il suo predecessore ha legittimamente fatto. Faccia in modo che questa norma sia in generale osservata anche dagli altri Prepositi. Da tali mutamenti infatti può nascere un grande turbamento negli animi, e può essere offesa non poco quella santa unanimità dei cuori, che lui è tenuto particolarmente ad alimentare, conservare e incrementare in tutta la Congregazione, perché con un solo animo e una voce sola rendiamo gloria a Dio (Rm 16:6) e non vi siano divisioni tra noi (1Cor 1:10).
Anche qui, vi sembra che oggi
qualcuno si senta in qualche modo obbligato dalle decisioni prese dal proprio
predecessore? Anzi, talvolta sembrerebbe che ci si senta in dovere di rimettere
tutto in discussione, come se il predecessore avesse preso quelle decisioni
senza motivo. C’è oggi qualcuno che si preoccupa del turbamento provocato nelle
persone dai continui cambiamenti? “Problema loro”, ci si sente rispondere
quando si fa presente la difficoltà: “Sono loro che devono allargare la mente,
aprirsi al nuovo; se non sono capaci, si arrangino”. L’unanimità dei cuori? Icchellè?
Oggi la si scambierebbe facilmente con la mai abbastanza detestata “uniformità”.
Spazio piuttosto alla diversità e al pluralismo! Se poi tale pluralismo sfocia
in conflitto, c’è sempre qualcuno pronto a difenderlo — il conflitto — come un
valore. E veniamo all’ultima regola, che vi voglio proporre:
Cum autem aliquid semel atque iterum de Assistentium consensu legitime decisum est, caveat, ne deinceps alio quovis quaesito colore idem denuo in deliberationem vocet; ut non tam quod factum est emendare, quam aliorum consensum ad proprium sensum extorquere velle videatur (n. 85).
Quando una cosa è stata piú volte legittimamente decisa col consenso degli Assistenti, eviti in seguito di tornare a discutere, con un qualsiasi pretesto, sulla medesima questione; dando cosí l’impressione di volere non tanto emendare ciò che è stato fatto, quanto piuttosto estorcere il consenso degli altri alla propria opinione.
Quando una decisione è stata presa, è stata presa:
inutile tornarvi sopra ancora una volta, come se fosse stata presa senza
rendersi conto di che cosa si stesse decidendo. Oltretutto considerando in tal
modo incoscienti coloro che avevano preso la decisione (nella fattispecie, gli
Assistenti, vale a dire i consiglieri del Generale). Vi confesso che, mentre traducevo
questa norma, non so perché, mi venivano in mente gli ultimi due Sinodi sulla
famiglia…
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