lunedì 25 settembre 2017

Quale “conversione del papato”?



Nel suo editoriale di ieri su Libero, Antonio Socci è tornato sul tema da noi affrontato nel post di venerdí scorso, quello dell’irreversibilità delle riforme di Papa Francesco; e lo fa, anche lui, riprendendo alcune affermazioni di Mons. Victor Manuel Fernandez contenute nell’intervista al Corriere della sera del 10 maggio 2015.

Il passaggio piú sconvolgente dell’editoriale di Socci è la rivelazione che, tra le riforme in cantiere, ci sarebbe pure l’abolizione del Vaticano, notizia poi ripresa anche dal Giornale. Quale sia l’attendibilità di tale indiscrezione non saprei. È un fatto che Socci si è sempre dimostrato persona bene informata (deve avere forti agganci in Vaticano). Trattandosi, almeno per il momento, solo di voci, forse non è il caso di spendere troppe parole sulla questione. Da parte mia dirò solo che, se è vero che il Vaticano non è di istituzione divina, è altrettanto vero che nella Chiesa ci sono molte cose che, pur essendo di origine umana, hanno una loro non secondaria importanza. E prima di metterci le mani, sarebbe bene informarsi quale sia stata la loro genesi storica: come mai oggi esiste uno “Stato della Città del Vaticano”? Ci dovrà pur essere una risposta seria a questa domanda, che non sia il semplice slogan “la sete di potere dei Papi”. Forse certi prelati, prima di dichiarare, con una qualche superficialità, che «il Papa potrebbe pure andare ad abitare fuori Roma, avere un dicastero a Roma e un altro a Bogotá, e magari collegarsi per teleconferenza con gli esperti di liturgia che risiedono in Germania», farebbero bene ad andare a studiare un po’ di storia (e la storia della Chiesa e dell’Europa è leggermente piú lunga e complessa di quella degli Stati sudamericani).

Ma torniamo al problema dell’irreversibilità delle riforme dell’attuale pontificato. Anche a questo proposito Socci la spara grossa:
Bergoglio sta facendo studiare, nelle pieghe del diritto canonico, l’eccezionalità di situazioni che permetterebbero a lui stesso di nominare il suo successore, esautorando i cardinali e rendendo davvero “irreversibile” la sua rivoluzione.
Anche qui non saprei quale fondamento possano avere certe affermazioni; avrà i suoi motivi per esprimersi in questo modo. A me sembra una cosa incredibile. Non solo perché si tratterebbe di una cosa mai vista nella storia della Chiesa, ma anche e soprattutto perché andrebbe contro tutti i principi da sempre sostenuti da Papa Francesco, quali una maggiore collegialità. Come si potrebbe giustificare la trasformazione della Chiesa in una monarchia ereditaria?

Devo però riconoscere che il problema di garantire l’irreversibilità delle riforme esiste. Nel mio post di venerdí, io l’ho messa giú un po’ troppo facile quando ho scritto:
Nessuno di questi provvedimenti può legare le mani dei futuri Pontefici, che continueranno a godere delle medesime prerogative dell’attuale, e che potranno perciò sovranamente decidere che cosa mantenere, che cosa ripristinare e che cosa ulteriormente rinnovare.
Non è cosí scontato che i futuri Papi continueranno a godere delle stesse prerogative; esse potrebbero essere in qualche modo ridimensionate proprio attraverso le riforme di cui tanto si parla. Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium affermava:
Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda piú fedele al significato che Gesú Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» [Ut unum sint, 95]. Siamo avanzati poco in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente» [Lumen gentium, 23]. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale [Giovanni Paolo II, m. p. Apostolos suos]. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria (n. 32).
Evangelii gaudium è il documento programmatico del pontificato di Papa Bergoglio, per cui — possiamo esserne certi — egli farà di tutto per attuare quanto in quella sede aveva dichiarato. Bisogna vedere in che modo. Si parla di una “conversione del papato”. Non credo che la trasformazione di esso in una monarchia ereditaria possa rientrare sotto questa categoria. Mi sembra piú credibile il suggerimento di un lettore, F. G., che mi scrive:
È sin dall’inizio di questo pontificato che si può leggere l’ossessione del trovare un meccanismo perché “non si possa tornare indietro”. La prima volta che lessi questa cosa fu in un’intervista del card. Maradiaga, probabilmente già nel 2013. Non mi sorprendo: è uno schema comportamentale tipico dei rivoluzionari: quando sono all’opposizione tutto è fluido e deve cambiare, quando conquistano il potere tutto deve rimanere come hanno fatto loro.
Io credo che nella mente di queste persone ci sia un passaggio già pianificato: quando saranno convinte di aver appiccato abbastanza incendi e si saranno accertate che le fiamme saranno ben alimentate, arriverà un provvedimento per demolire l’autorità papale. Ovviamente non sarà magisteriale (non potrebbe esserlo), ma qualcosa che sfrutta il magggico “discernimento” 2.0: è una specie di passpartout che funziona in molti campi. Come scusa probabilmente sfrutteranno agilmente l’ecumenismo e la riconciliazione con Luterani etc. Questo creerà non pochi problemi ai successori di Francesco che cercheranno di ricostruire sulle rovine. Se non problemi teologici o canonici, problemi di consenso: i suonatori di piffero avranno un’arma in piú per portarsi dietro molte anime smaniose di preservare la tanto duramente conquistata “libertà”.
Mi sembra evidente che l’obiettivo non è tanto il rafforzamento dell’autorità pontificia, quanto piuttosto il suo indebolimento. Naturalmente, dopo aver fatto le dovute riforme sfruttando il potere assoluto di cui al momento gode il papato. Il mio lettore ritiene che tale indebolimento possa avvenire per motivi ecumenici. È una ipotesi plausibile; anzi si tratta di un cammino già in corso e in fase avanzata: è di questi giorni la notizia del raggiungimento di un accordo all’interno della Commissione mista cattolico-ortodossa su sinodalità e primato (qui). Staremo a vedere come si evolveranno le cose.

Ma mi pare che, oltre alla soluzione ecumenica, vada tenuto in considerazione quanto è espressamente detto in Evangelii gaudium, dove Papa Francesco parla di «salutare “decentralizzazione”» a favore degli episcopati locali (n. 16). Come abbiamo visto, in quell’esortazione apostolica il Santo Padre auspica «uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale» (n. 32). Penso perciò che il Pontefice proseguirà su questa strada, già ufficialmente tracciata. Non credo però che il riconoscimento di specifiche competenze alle Conferenze episcopali possa in alcun modo scalfire l’autorità suprema dei futuri Papi (per quanto possa rendere loro piú complicata la vita). Il Codice di diritto canonico riconosce al Sommo Pontefice una potestas ordinaria suprema, plena, immediata et universalis:
Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane lufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente (can. 331).
Il Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti (can. 333, § 1).
È vero che il Codice di diritto canonico può essere modificato, ma in questo caso esso non fa altro che riprendere la definizione dogmatica del Concilio Vaticano I:
Se qualcuno affermerà che il Romano Pontefice ha semplicemente un compito ispettivo o direttivo, e non il pieno e supremo potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solo per quanto riguarda la fede e i costumi, ma anche per ciò che concerne la disciplina e il governo della Chiesa diffusa su tutta la terra; o che è investito soltanto del ruolo principale e non di tutta la pienezza di questo supremo potere; o che questo suo potere non è ordinario e diretto sia su tutte e singole le Chiese, sia su tutti e su ciascun fedele e pastore: sia anatema (Costituzione dogmatica Pastor aeternus, c. 3).

È vero che siamo in fase di rilettura pastorale di pronunciamenti, anche solenni, del precedente Magistero (si pensi al “gruppo di ricerca” sull’Humanae vitae, chiamato a «mettere da parte molte letture parziali» dell’enciclica); mi sembra però un po’ duro procedere a una reinterpretazione pastorale della definizione dogmatica del Vaticano I. Ma non si sa mai, la vita può sempre riservare qualche sorpresa...
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