I Barnabiti sono indissolubilmente legati all’Apostolato della preghiera.
Il movimento nacque in Francia nel 1844, a opera dei Gesuiti (Padri Gautrelet e Ramière),
ma in Italia fu diffuso dai Barnabiti. A partire dal 1864, ne assunsero la
direzione il Padre Antonio Maresca (1831-1891) prima e il Padre Giovanni
Battista Vitale (1849-1916) poi. Furono loro a curare anche l’edizione italiana
del Messaggero del Sacro Cuore. Si deve al Padre Maresca inoltre
l’iniziativa di costruire a Roma un santuario in onore del Sacro Cuore
(l’attuale basilica nei pressi della Stazione Termini), iniziativa che presto
però si arenò a causa della mancanza di fondi e fu poi portata a termine grazie
all’intervento di Don Bosco. Dopo la morte del Padre Vitale (1916), la direzione
dell’Apostolato della preghiera passò, anche per l’Italia, non senza
resistenze, nelle mani dei Gesuiti.
Dà perciò un certo dispiacere assistere al progressivo declino di un
movimento spirituale che tanto ha dato alla Chiesa tra Otto- e Novecento.
L’opera di aggiornamento dell’Apostolato della preghiera iniziò in epoca
conciliare (a quei tempi sembrava che tutto dovesse essere sottoposto a
revisione secondo i nuovi canoni): allora ci si limitò a qualche ritocco dell’Offerta
quotidiana (l’inserimento delle espressioni “madre della Chiesa”; “le gioie”;
“nella grazia dello Spirito Santo”). Poco male, la preghiera si arricchí senza
perdere nulla del suo contenuto.
Piú recentemente (non saprei dire con precisione in che anno) è stata
introdotta una formula alternativa di offerta della giornata:
Dio nostro Padre, io ti offro tutta la mia giornata. Ti offro le mie preghiere, i pensieri, le parole, le azioni, le gioie e le sofferenze, in unione con il Cuore del tuo Figlio Gesú Cristo, che continua ad offrirsi a te nell’Eucaristia per la salvezza del mondo. Lo Spirito Santo, che ha guidato Gesú, sia la mia guida e la mia forza oggi, affinché io possa essere testimone del tuo amore. Con Maria, la madre del Signore e della Chiesa, prego specialmente per le intenzioni che il Santo Padre raccomanda alla preghiera di tutti i fedeli in questo mese…
Potrebbe apparire — ed effettivamente è — una bella preghiera, con solido
fondamento teologico. Non so però se vi siete accorti che è scomparso qualsiasi
riferimento alla riparazione, che è uno degli elementi caratteristici della
devozione al Sacro Cuore.
L’opera di rinnovamento dell’Apostolato della preghiera non è finita qui. Negli
ultimi tempi (nell’opuscoletto del 2016 non c’era ancora) compare — in alcuni
casi accanto alla vecchia dicitura, in altri in sostituzione di essa — una
nuova denominazione: “Rete mondiale di preghiera del Papa”. Era proprio
necessario? A me l’espressione “Apostolato della preghiera” piaceva molto:
anche la preghiera può essere una forma di apostolato; in alcuni casi (p. es.,
per i monaci e per le claustrali, o per noi che viviamo nei paesi islamici), l’unico
apostolato possibile. Perché lasciar cadere una locuzione cosí significativa, a
favore di un’anonima “Rete mondiale di preghiera del Papa”?
Un tempo venivano proposte due intenzioni: una “generale” e una
“missionaria”. Dal gennaio 2017, viene proposta un’unica intenzione, a mesi
alterni “universale” (che ha preso il posto dell’intenzione generale) o “per
l’evangelizzazione” (che ha sostituito l’intenzione missionaria). A parte le
nuove diciture, che si potrebbero discutere, il fatto di proporre una sola intenzione,
può essere una buona soluzione, vista la tendenza, da parte di vescovi,
istituti religiosi e movimenti, ad aggiungere intenzioni particolari (da
qualche anno anche la Conferenza episcopale italiana propone una sua intenzione
mensile).
Ma, al di là di queste modifiche formali, quel che lascia maggiormente
perplessi è il contenuto delle intenzioni di preghiera, che hanno man mano
assunto un carattere prevalentemente sociale. Non che non si debba pregare
anche per i problemi sociali, ma quando questa sembra diventare l’unica
preoccupazione, non può non sorgere qualche dubbio. Ora poi incominciano a
nascere dubbi anche di carattere dottrinale. Leggiamo l’intenzione (“per
l’evangelizzazione”) del mese di novembre:
Per i cristiani in Asia, perché, testimoniando il Vangelo con le parole e con le opere, favoriscano il dialogo, la pace e la comprensione reciproca, soprattutto con gli appartenenti alle altre religioni.
Naturalmente, mi fa piacere che si preghi per i cristiani in Asia, perché,
fra loro ci sono anch’io con il mio piccolo gregge. Però devo confessare che,
fin dal primo giorno di novembre, mi sono sentito a disagio nel recitare tale
intenzione. Perché? Rileggiamola con attenzione. In essa si chiedono due cose: a)
che i cristiani in Asia testimonino il Vangelo; b) che essi favoriscano
il dialogo, la pace e la comprensione reciproca. Ovviamente, entrambe le cose
sono buone in sé stesse: non solo i cristiani devono testimoniare il Vangelo,
ma anche favorire il dialogo, ecc. Non è che i cristiani in Asia, per il fatto
di vivere per lo piú in contesti che non sono cristiani, debbano desiderare
l’inimicizia, la discordia e il conflitto nei rispettivi paesi. Al di là di
qualsiasi altra considerazione che si potrebbe fare a questo proposito, a me
basta quanto il profeta Geremia scriveva nella sua lettera ai giudei deportati
a Babilonia: «Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e
pregate per esso il Signore, perché dal benessere suo dipende il vostro» (Ger
29:7).
Il problema è che le due proposizioni non sono tra loro coordinate
(“testimonino e favoriscano”), ma la prima è subordinata alla seconda facendo
uso di un gerundio (“testimoniando, favoriscano”). Il che in italiano significa
che la prima azione è funzionale alla seconda; la testimonianza del Vangelo è
finalizzata al dialogo, alla pace e alla comprensione reciproca. E questo non
mi sembra molto corretto, dal momento che il dialogo, la pace e la comprensione
reciproca, pur essendo in sé stessi valori importanti, non possono essere
considerati valori assoluti, e il Vangelo non può essere ridotto a strumento
per raggiungere tali scopi. Il Vangelo, ci ricorda San Paolo, «è potenza di Dio
per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso
infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede» (Rm 1:16-17). La
testimonianza del Vangelo è finalizzata alla fede, perché solo nella fede gli
uomini — tutti gli uomini, giudei e greci — possono trovare la salvezza. È
evidente che, se la testimonianza del Vangelo serve solo per favorire il
dialogo, la pace e la comprensione reciproca, esso si trasforma in qualcosa di
diverso: un semplice codice etico che può, se attuato, favorire la
realizzazione di quei valori.
Nonostante la scorretta formulazione dell’intenzione, mi sforzavo di darne
una interpretazione corretta (coordinando, come dicevo, le due proposizioni) e
cercavo di scusare gli estensori dell’intenzione, pensando che avessero
involontariamente espresso in modo improprio un’intenzione in sé valida. Ma
l’altro giorno mi è capitato di vedere il clip del Papa che illustra l’intenzione
di preghiera, e ho dovuto ricredermi: l’intenzione va intesa proprio nel modo
in cui essa si esprime. Date un’occhiata anche voi (dura solo un minuto):
Non solo si dice chiaramente che dobbiamo pregare perché «i
cristiani favoriscano il dialogo, la pace e la comprensione reciproca,
soprattutto con gli appartenenti alle altre religioni», confermando che questo
è il vero obiettivo, ma addirittura è scomparso qualsiasi riferimento alla
testimonianza del Vangelo. Da un certo punto di vista, tutto sommato, forse è
meglio cosí, perché cosí si evita di subordinare la testimonianza del Vangelo
al dialogo ecc.; ma rimane l’amaro in bocca, perché sembra quasi che non valga
la pena di pregare perché i cristiani in Asia testimonino il Vangelo. La testimonianza
del Vangelo sembrerebbe essere diventato un semplice optional. Rimane il
fatto che ciascuno è libero — e nessuno potrà impedirglielo — di pregare perché
i cristiani in Asia testimonino il Vangelo, per quello che esso è veramente, e
insieme favoriscano anche il dialogo, la pace e la comprensione reciproca. Che,
del resto, è ciò che i cristiani hanno sempre fatto, da duemila anni a questa
parte.
Q