sabato 26 giugno 2010

Come muore una Chiesa

Si potrebbe fare della facile ironia su quanto avvenuto nei giorni scorsi a Bruxelles. Basterebbe citare qualche proverbio. Allo Stato belga si potrebbe rinfacciare: «Il bue dice cornuto all’asino». Ai Vescovi belgi si potrebbe rammentare che «chi pecora si fa, il lupo se la mangia». E alla Segreteria di Stato si potrebbe rimproverare di aver chiuso la stalla quando i buoi erano già scappati. Ma il fatto è di una gravità tale da non permettere sorrisi spensierati. Esso dovrebbe piuttosto stimolare alcune riflessioni.

1. Ecco come si riduce una Chiesa, che aveva fatto dell’apertura e dell’aggiornamento la sua bandiera. Sembravano i primi della classe. Roma appariva sempre retrograda, legata al passato, incapace di cogliere il nuovo e di camminare al passo coi tempi. Loro invece, ispiratori e artefici del rinnovamento conciliare, avevano capito tutto; loro stavano plasmando una nuova Chiesa finalmente adeguata all’uomo contemporaneo. Abbiamo visto i risultati: una Chiesa moribonda, che non vuole prendere atto del suo fallimento, e preferisce morire piuttosto che riconoscere umilmente i propri errori. L’immagine di quella conferenza episcopale “sequestrata” per un giorno intero e che non sa dire di meglio che «non è stata un’esperienza gradevole, ma tutto si è svolto in maniera corretta», descrive bene l’agonia di una Chiesa che sta morendo e accetta rassegnata la propria fine.

2. Ecco l’Europa in cui viviamo. Noi pensavamo di vivere in paesi democratici, dove è possibile esprimere liberamente la propria fede e dove la Chiesa gode di piena autonomia. Ci troviamo, in realtà, in un sistema totalitario, dove la libertà di azione della Chiesa si va man mano riducendo. Il potere (che, nonostante le apparenze, non è un potere democratico) non può tollerare che esistano realtà sottratte al suo controllo. La Chiesa può esistere, certo, ma come semplice associazione di cittadini; come il circolo del tennis, tanto per intenderci. La Chiesa deve limitarsi all’organizzazione di alcune attività di culto; per il resto, esiste esclusivamente lo Stato, portatore di un potere assoluto, a cui nessuno può in alcun modo sottrarsi. Questo è il futuro che attende la Chiesa in Europa. Inutile farsi illusioni. Fossi il Papa, ci penserei due volte prima di mettere piede in Inghilterra: si trova sempre un giudice Garzón qualsiasi, pronto a spiccare un mandato di cattura internazionale...

3. Che si sia arrivati a questo punto è certamente il risultato di una congiura che affonda le radici lontano nel tempo; ma è anche colpa della Chiesa, che ha prestato il fianco a tale attacco. Innanzi tutto, negando che esistesse un complotto ben pianificato contro di lei. Secondo, contribuendo fattivamente alla demolizione di sé stessa. È da decenni che si continua a ripetere che la Chiesa deve liberarsi dal potere, deve rinunciare ai suoi privilegi, deve ridiventare povera, ecc. Evidentemente, i sostenitori di tali suggestive teorie non hanno studiato la storia, e non sanno che, se la Chiesa ha, col passare dei secoli, acquisito anche un certo “potere temporale”, lo ha fatto solo per garantirsi quel minimo di libertà necessario per svolgere la propria missione. Non hanno capito che il mondo ha sempre fatto di tutto per impedire alla Chiesa di muoversi liberamente. Già, ma le anime belle non hanno mai pensato che qualcuno potesse avercela con la Chiesa, con tutto il bene che fa... Guardate che cosa è accaduto in questi giorni in Germania: la corte suprema ha dichiarato legittima l’eutanasia nel caso in cui ci sia la volontà del paziente (vedi qui). Pensate che i Vescovi tedeschi potranno dire qualcosa, dopo quanto accaduto nei mesi scorsi? E se dovesse scoppiare una guerra con l’Iran, pensate che il Papa potrebbe anche solo fiatare? Il messaggio convogliato dalla campagna contro la pedofilia nella Chiesa è stato piuttosto chiaro.

4. Molti sono convinti che, tutto sommato, questa buriana non possa far che bene alla Chiesa, costringendola alla purificazione. Che tutto rientri in un misterioso disegno divino e che tutto concorra al bene di quanti amano Dio (Rm 8:28), non sarò certo io a negarlo. Che la Chiesa abbia sempre bisogno di purificazione, non si può in alcun modo mettere in discussione. Ma, come ho già avuto occasione di dire, sarebbe illusorio pensare che si possa giungere su questa terra a una Chiesa tutta pura: il peccato nella Chiesa c’è sempre stato e sempre ci sarà. Sappiamo a che cosa ha portato la furia giacobina contro la corruzione: alla ghigliottina (che peraltro è stata incapace di eliminare la corruzione stessa). La Chiesa, nella sua secolare saggezza, ha sempre preferito seguire un’altra strada: ha preferito “gestire” certe situazioni al suo interno, gelosa della sua autonomia, perché sapeva a che cosa avrebbe portato la rinuncia a certi “privilegi”. Meglio correre il rischio di avere al proprio interno qualche elemento indegno, piuttosto che diventare ostaggio di un potere senza scrupoli ed essere con ciò impedita di annunciare il Vangelo e servire l’umanità.

Inviterei gli appasssionati sostenitori di una sconsiderata politica della “trasparenza” e della “tolleranza zero” a guadare a ciò che è accaduto a Bruxelles, per vedere a che cosa porta, inevitabilmente, quel tipo di politica.

mercoledì 23 giugno 2010

I giocatori, la squadra e... la panchina

È da un po’ di tempo che non mi occupo di “politica vaticana”. Non è che mettere il naso nei corridoi della Curia Romana mi entusiasmi piú di tanto; anche perché mi vado sempre piú convincendo che la partita non si gioca tanto dentro le mura vaticane: è in periferia (se si può parlare in questo caso di una “periferia”) che si gioca il futuro della Chiesa. La Curia svolge un suo ruolo, certo importante, forse addirittura insostituibile, ma pur sempre relativo. Ogni tanto però ci si può pure lasciare andare un pochino e, come dicono a Milano, “contarsela su”, senza nessuna pretesa e senza prendersi troppo sul serio.

Giorni fa, Sandro Magister paragonava la Curia Romana a una squadra di calcio: «Come commissario tecnico della curia, papa Ratzinger ha poco da esultare. La sua squadra non gli dà mica tanto retta. Ciascun giocatore va per conto suo e ogni tanto ci scappa l’autogol». Personalmente, sono d’accordo con l’idea che Magister vuole comunicare; ma andrei piano a fare certi paragoni, perché di solito, quando la squadra non funziona, il primo a saltare è proprio il mister. Forse sarebbe meglio paragonare il Papa al presidente della società, piú che all’allenatore. Ovviamente anche il presidente ha le sue responsabilità (se la squadra continua a perdere, i tifosi di solito se la prendono proprio col presidente, perché magari cambi, appunto, l’allenatore; ma non possono certo pretendere che cambi il presidente stesso).

È vero che, anche nelle vesti di “presidente della società”, a Benedetto XVI si potrebbe muovere l’appunto di non saper scegliere i propri collaboratori. Il nostro Papa ha delle grandissime doti; ma finora — sia detto senza offesa — non ha dimostrato di sapersi trovare dei buoni aiutanti. Al contrario, al suo predecessore si potevano fare mille critiche, ma non certo questa: era sempre capace di mettere la persona giusta al posto giusto (basti pensare al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!).

Ma, come si diceva, è meglio che la figura del presidente rimanga fuori dalle polemiche; anche perché il problema, in questo momento, non è lui, quanto piuttosto la “panchina”: è questa che attualmente sembra non funzionare molto in Vaticano. Se si vuole che ci sia un gioco di squadra, bisogna che l’allenatore cambi schema tattico.

Proprio oggi Messainlatino.it ha pubblicato la traduzione di un post dell’Osservatore Vaticano, dove vengono ampiamente illustrati tre casi di recente malfunzionamento della Curia Romana (la mancata proclamazione del Santo Curato d’Ars a patrono di tutti i sacerdoti; la gestione del caso Thiberville; la rinuncia del Card. Pell a Prefetto della Congregazione per i Vescovi). La conclusione del post merita di essere riportata:

«La necessità per il Santo Padre di risparmiare le sue forze, ad esempio riducendo drasticamente il numero delle udienze private, le attenzioni vigili con cui è circondato, ma che sono altrettanti filtri (da due mesi, ad esempio, il numero delle persone — fino ad allora un centinaio — che salutava alla fine delle udienze pubbliche è stato ridotto ad una semplice fila di sedie), il peso del suo intenso lavoro intellettuale solitario, la necessaria concentrazione sulle decisioni, maturate a lungo, e che dipendono solo da lui, fanno che l’esigenza di un vero “primo ministro” sarebbe vitale.

«Qualunque siano le critiche che potevano essere loro rivolte, uomini come il Sostituto Benelli, il Segretario di Stato Casaroli, o il suo successore Sodano, occupavano fortemente il terreno curiale, imprimevano a quel pesante e complesso organismo una linea, certo altamente discutibile, ma leggibile.

«Invece, è tutto il contrario di un Richelieu chi occupa oggi il posto di Segretario di Stato».

Lungi da me voler infierire sul povero Card. Bertone; vorrei solo che ci si rendesse conto di quanto sia importante il ruolo della Segreteria di Stato per il buon funzionamento della macchina curiale. Non si può pretendere che faccia tutto il Santo Padre. Secondo me, il Papa dovrebbe rimanere il piú possibile fuori dalle beghe di Curia: ovviamente è lui che deve dare le dritte e deve poi vigilare che tutto si svolga secondo le proprie indicazioni; ma ci deve essere qualcun altro che faccia funzionare la macchina; non può farlo il Papa. È bene che questi si dedichi a tempo pieno al suo ministero pastorale; ma la Curia non può essere abbandonata a sé stessa, non può rimanere in preda all’anarchia. Essa non può ridursi a un campo di battaglia dove si scontrano lobby contrapposte, o a un campo da gioco dove si misurano le ambizioni di ecclesiastici malati di protagonismo, o alla piazza di un mercato dove si ritrovano a contrattare affaristi senza scrupoli. Essa dovrebbe piuttosto apparire come l’austero luogo di lavoro di solerti funzionari che prestano in silenzio il loro disinteressato servizio alla Chiesa. Perché questo possa avvenire, occorre che ci sia un “moderator Curiae” efficiente, il cui unico compito sia quello di far funzionare la Curia. Nella Curia Romana ridisegnata da Paolo VI tale compito spetta al Segretario di Stato: è lui che deve prendere in mano la situazione e far sí che la macchina, che già esiste, funzioni. I giocatori ci sono; quel che manca è la squadra.

sabato 19 giugno 2010

"Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?"

Il mio post di una settimana fa “Gesú al centro” ha avuto l’onore di essere ripreso e commentato da due blog legati alla liturgia, per quanto su fronti opposti: Messainlatino.it e Liturgia Opus Trinitatis. La cosa non può che farmi piacere, anche perché entrambi dicono di condividere la sostanza del discorso. Non è un risultato da poco riuscire a ottenere, oggi come oggi, da “destra” e da “sinistra”, un consenso di fondo: significa che, nonostante le differenze di opinione spesso radicali, su certi punti ci si può trovare d’accordo.

Anch’io accolgo in linea di massima le osservazioni che sono state fatte, perché sono pienamente consapevole che le mie affermazioni non possono in alcun modo essere assolutizzate. Rileggendo il mio post, mi sono accorto che, nonostante le precauzioni, qui e là vengono fuori frasi un po’ troppo perentorie: «Inutile attendere riforme promosse dalla gerarchia; non è mai avvenuto nella storia della Chiesa. Le uniche riforme reali, durature, sono state quelle partite dal basso». Un pizzico di cautela in piú non avrebbe guastato. Forse ha ragione Padre Augé ad affermare che le riforme vengono un po’ dal basso e un po’ dall’alto: solitamente la gerarchia fa propria una spinta proveniente dalla base e poi la estende a tutta la Chiesa. Questo è avvenuto nel Cinquecento: l’opera del Concilio di Trento non sarebbe comprensibile senza la previa azione della cosiddetta “riforma cattolica”, e non sarebbe stata efficace se non fosse stata incarnata da quelle nuove realtà (penso soprattutto ai nuovi ordini religiosi) che andavano sorgendo in quegli anni nella Chiesa. Questo è avvenuto ai nostri giorni, come giustamente rileva Padre Augé, col Concilio Vaticano II che, recependo le istanze del movimento liturgico, si è fatto promotore della riforma liturgica. Personalmente allargherei il discorso anche agli altri “movimenti” del Novecento (biblico, ecumenico, ecc.). Anzi, per affrancare il Vaticano II da quella sorta di assolutizzazione di cui è stato fatto oggetto, probabilmente esso andrebbe ripensato proprio situandolo all’interno di questo cammino della Chiesa, considerandolo come una tappa — certo importante, ma pur sempre una tappa — di un “movimento” continuo suscitato dallo Spirito.

Messainlatino.it, pur condividendo “il nocciolo del messaggio”, lamenta che, dopo una diagnosi adeguata, esso vada a finire in piscem. “Rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú” sarebbe solo un vuoto fervorino, se non si traduce in un preciso programma di restaurazione dottrinale e disciplinare: «Chiarire che cosa sia un prete, antropologicamente e teologicamente, e ancor piú praticare una liturgia solida nell’impianto dottrinale e soprattutto capace di trasmettere la pienezza dell’ortodossia, sono la ricetta, il mezzo, lo strumento per ritornare a Cristo. La Messa della Tradizione della Chiesa, ininterrotta fino al ’69, lungi dal rappresentare “forme esteriori”, è l’imprescindibile, obbligato cammino “per rimettere al centro della vita ecclesiale il Signore Gesù”».

Riconosco che noi preti abbiamo il difetto di concludere solitamente i nostri discorsi con un “fervorino”: è un po’ il difetto del mestiere. Capisco che quel che si dice o si scrive possa essere sempre interpretato semplicemente come una serie di belle parole. Ma questo vale per tutti: quando parliamo, dobbiamo necessariamente servirci di parole; non possiamo fare altrimenti. Quelle che pronunciamo sono parole, e non possono essere altro che parole. Anche quelle che troviamo nel vangelo sono parole. Perché queste parole non rimangano parole vuote (flatus vocis, direbbero gli scolastici), perché esse non si trasformino in slogan, è necessario che ci sia qualcos’altro; è necessario che tra chi pronuncia quelle parole e chi le ascolta esista una “sintonia”; è necessario che ci sia qualcosa che li accomuni, qualcosa che non può essere comunicato con le parole, ma che sia ad esse previo. E questo qualcosa può nascere solo da un’esperienza di vita, da una condivisione, da un incontro. Per poter comprendere il vangelo devo prima incontrare Cristo, devo prima vivere nella Chiesa; altrimenti esso rimane per me ermetico: una serie di parole prive di qualsiasi significato.

Se dico che è necessario “rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú” e questo non viene capito, non posso farci nulla; non esistono altre parole per poter esprimere quello che intendo dire. Se quella frase rimane un “fervorino” o uno slogan, vuol dire che manca la sintonia previa, che io non posso creare: o c’è o non c’è. Se non si riesce a capire che la liturgia e il celibato sono certamente importanti, ma non sono il primum; che essi hanno un senso e un valore esclusivamente se riferiti a Cristo, il quale, solo, è «l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22:13); se non si capisce questo, io non so che farci. Se si sente il bisogno che da espressioni apparentemente astratte come “Gesú al centro” si passi immediatamente a conclusioni “pratiche”; se si confonde la realtà con i suoi segni; se si assolutizzano le mediazioni come se fossero piú importanti del mistero che esse rappresentano; io non so che fare, perché non ho strumenti per comunicare l’incomunicabile; posso solo continuare a ripetere certe parole, sapendo che da alcuni saranno comprese e da altri no. Che poi esista anche il problema, certamente non trascurabile, delle mediazioni stesse, sono pienamente d’accordo. Quel che mi interessa, in questo momento, è che esso non è il primo problema.

Ciò detto, devo aggiungere che non era questo l’obiettivo principale del mio post. L’abolizione del celibato e la messa in latino erano solo due esempi, volutamente contrapposti, scelti per far capire che, sia a “destra” che a “sinistra”, si suggeriscono ricette insufficienti; ci si ferma in superficie; non si coglie il problema di fondo. Il mio intento non era quello di polemizzare con i sostenitori dell’abolizione del celibato o con i fautori del ritorno alla liturgia tradizionale, ma di mettere in guardia da un pericolo piú sottile, che si sta diffondendo nella Chiesa senza che noi ce ne accorgiamo: il pericolo del moralismo. La campagna mediatica contro la diffusione della pedofilia fra il clero ci ha inevitabilmente portati a reclamare “pulizia” nella Chiesa. Esigenza piú che legittima: che la Chiesa sia “sancta simul et semper purificanda” (Lumen gentium, n. 8) è un dato di fatto; ma proprio per questo (perché semper purificanda) non ci facciamo illusioni che possa esistere, su questa terra, una Chiesa di soli puri. La Chiesa — diceva Papa Callisto — è come l’arca di Noè, che accoglie nel suo seno animali puri e impuri, e tutti conduce alla salvezza.

Nell’articolo di Ida Magli, che era stato all’origine del mio post, mi avevano colpito due punti:
1. «Soltanto chi è fuori dalla Gerarchia può salvare la Chiesa» (e su questo, penso, è stato detto abbastanza);
2. «Non è la pedofilia il problema piú grave della Chiesa attuale ... Il pericolo mortale è quello denunciato da [don Luigi] Giussani: la mancanza del Gesú vero nella predicazione e nel vissuto della Chiesa».

Su questo secondo punto, mi sembra, non ci si è soffermati abbastanza; ma forse è il punto capitale. Si pensa che il problema odierno della Chiesa sia la sua “corruzione” interna: immoralità, coinvolgimento negli affari, carrierismo, ecc. Che questi problemi esistano e siano problemi reali, che vanno in qualche modo circoscritti, non lo nego. Dico solo che non sono questi i problemi piú gravi della Chiesa. C’è un problema piú urgente, ma del quale ho l’impressione che non ci preoccupiamo abbastanza: la crisi di fede, da cui tutti gli altri problemi derivano. È di questo che dobbiamo preoccuparci: abbiamo ancora fede? Crediamo ancora veramente nella presenza, nella centralità, nel ruolo unico e insostituibile di Gesú Cristo nella storia e nella nostra vita personale ed ecclesiale? Gesú non si è chiesto se, al suo ritorno, troverà una Chiesa impeccabile; si è chiesto piuttosto: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18:8).

lunedì 14 giugno 2010

Il martirio di Mons. Padovese e lo "scontro di civiltà"

Una volta tanto, pienamente condivisibile l’intervento di Alberto Melloni sul Corriere di oggi, a proposito del martirio di Mons. Luigi Padovese. Si tratta di una risposta a chi vorrebbe strumentalizzare l’episodio a fini politici. Non è mancato nei giorni scorsi, fra i neocon di casa nostra, chi avrebbe gradito che la Chiesa indicesse una nuova crociata contro i saraceni per vendicare l’uccisione del Vescovo missionario. Giustamente controbatte Melloni: «Un martirio che non sia occasione per predicare il vangelo dell’amore dei nemici, del perdono di chi uccide, sarebbe vilipeso: anche oggi, con buona pace dei post-huntingtoniani» (i seguaci cioè di Samuel P. Huntington, teorico dello “scontro delle civiltà”). Molto bella la riflessione finale, che collega il martirio di Mons. Padovese al momento critico che sta vivendo la Chiesa:

«In questi tempi grigissimi, nei quali la bufera scuote la chiesa, il segno del martirio torna dunque come un segno di grazia, una consolazione a caro prezzo ... Nella chiesa, senza nulla togliere alla gravità dei crimini per i quali chiedere perdono a Dio, permane una riserva di mitezza, di umiltà disarmata, di semplicità di vita che come tale espone alla violenza, sia essa folle o ispirata, e che fa da contrappeso invisibile alle meschinità che la insidiano, da fuori e da dentro».

A qualcuno tale atteggiamento potrà apparire arrendevole, rinunciatario, se non addirittura imbelle. In realtà, si tratta dell’unico atteggiamento possibile per un cristiano: le stesse vittime, che — non dimentichiamolo — hanno amato profondamente i loro carnefici, non tollererebbero che qualcuno si sentisse autorizzato a “vendicare” il loro sacrificio.

Ciò non significa che non sia legittimo esigere che si faccia chiarezza. Ha pienamente ragione Mons. Ruggero Franceschini, Arcivescovo di Smirne e, ora, Amministratore apostolico dell’Anatolia, a chiedere: «Noi vogliamo tutta la verità, ma solo la verità». Ma anche le parole di Mons. Franceschini, riportate dall’agenzia AsiaNews, non possono in alcun modo essere strumentalizzate; non posso essere sbrigativamente interpretate come pista verso un omicidio di matrice islamica. Esse vanno lette molto attentamente:

«Io credo che per questo assassinio, che ha un elemento cosí esplicitamente religioso, islamico, siamo di fronte a qualcosa che va al di là del governo; va oltre, verso gruppi nostalgici, forse anarchici, che vogliono destabilizzare lo stesso governo.

«La stessa modalità con cui è avvenuta l’uccisione serve a manipolare l’opinione pubblica. Dopo avere ucciso il vescovo, il giovane Murat Altun ha gridato: “Ho ucciso il grande satana. Allah Akbar”. Ma questo è davvero strano. Murat non aveva mai detto queste frasi violente. Io lo conoscevo da almeno 10 anni. Sono io che l’ho assunto al lavoro per la Chiesa. E non si era mai espresso in questo modo. Non era un musulmano praticante. Era un giovane che aveva una cultura cristiana, senza essere cristiano. Né lui, né suo padre erano delle persone nostre nemiche. A mio avviso, sono stati uno strumento nelle mani di altri.

«L’uso del rituale islamico serve per deviare le interpretazioni: è come suggerire che la pista è religiosa e non politica. Inoltre, spingendo all’interpretazione religiosa, di un conflitto fra islam e cristiani, si riesce ad infiammare l’opinione pubblica in un ambito in cui noi siamo debolmente creduti e non abbiamo alcuna forza. Del resto, anche il primo ministro Erdogan ha gli appoggi piú forti non nell’islam radicale, ma in quello moderato. E temo che ormai non abbia piú nemmeno quello».

Non è facile comprendere che cosa vuol dire Mons. Franceschini: dice e non dice. Ma una cosa è certa: la realtà è estremamente complessa. Proprio per questo non è possibile giungere a conclusioni troppo sbrigative, che qualcuno, forse, ha interesse a favorire.

Fa riflettere che certi fatti (pensiamo anche all’assassinio di don Andrea Santoro del 2006) avvengano proprio in Turchia, in un paese laico o, al massimo, islamico moderato. Come mai non avvengono in quei paesi arabi dove il fanatismo islamico è piú forte? Forse, per capire, bisogna tener conto della storia della Turchia: nell’impero ottomano i cristiani costituivano una ragguardevole minoranza (se non erro, raggiungevano il 20% della popolazione) e avevano vissuto pacificamente per secoli con la maggioranza musulmana. Fu proprio quando la Turchia si apprestava a divenire un paese “laico” che la componente cristiana fu praticamente annientata (dagli artefici della moderna Turchia: i “giovani turchi”): si pensi al genocidio armeno, ai massacri e alle deportazioni dei greci e degli assiri, in concomitanza con la prima guerra mondiale.

Dopo questa “pulizia etnica” la situazione era parsa tranquillizzarsi. Come mai, proprio ora che al governo c’è un partito islamico moderato, che sta operando una vera e propria rivoluzione, estromettendo tutta l’antica classe dirigente legata alla massoneria e ai dunmeh, come mai proprio ora rivengono fuori questi attacchi ai cristiani e — sarà un caso — proprio in concomitanza con le visite papali (in Turchia nel caso di don Santoro, e a Cipro in quest’ultimo caso). Non sarà che ci sia qualcuno che ha interesse a tenere desto l’odio fra cristiani e musulmani e a fomentare lo “scontro di civiltà”?

venerdì 11 giugno 2010

Gesú al centro

L’altro ieri Ida Magli ha pubblicato un breve articolo sul Giornale dal titolo “Senza Gesú sta morendo la Chiesa”. La tesi centrale — assolutamente condivisibile — dell’intervento è la seguente: «Non è la pedofilia il problema piú grave della Chiesa attuale, sebbene siano in molti a crederlo e forse la Chiesa stessa. Il pericolo mortale è quello denunciato da [don Luigi] Giussani: la mancanza del Gesú vero nella predicazione e nel vissuto della Chiesa; del Gesú che ha parlato alla mente, al cuore degli uomini, non di sessualità, o di diritti, o di poveri, ma di ciò che li definisce “uomini” al di là da questo, della certezza del proprio essere uomini anche senza di questo».

Ma, al di là di questo, ciò che mi ha colpito maggiormente sono le seguenti parole: «Soltanto chi è fuori dalla Gerarchia può salvare la Chiesa, armato solo delle parole di Gesú, come dimostra la storia del passato, dai movimenti penitenziali alla predicazione popolare, a San Francesco». Comincio a convincermi che la Magli abbia proprio ragione. Finora abbiamo atteso le riforme dall’alto; ma non abbiamo visto nulla. Forse è giunto il momento di rimboccarci le maniche e assumere le nostre responsabilità: la Chiesa non cambierà finché noi, finché io non cambierò.

Inutile attendere riforme promosse dalla gerarchia; non è mai avvenuto nella storia della Chiesa. Le uniche riforme reali, durature, sono state quelle partite dal basso. Non attendiamo dalla gerarchia quel che essa non può dare; non carichiamola di pesi che non è in grado di portare. Accontentiamoci che essa ci indichi la strada da percorrere; il resto, poi, dobbiamo farlo noi.

È stata la grande illusione del Vaticano II: convocare un concilio che, con le sue riforme, rinnovasse la Chiesa. Sappiamo come è andata a finire. Ora attendiamo dal Papa che rimetta tutto a posto. Gli anni passano; ma, almeno per il momento, non si vede nulla: avrebbe dovuto riformare la curia, ma l’impressione che si ha è che essa funzioni sempre peggio; si attendava una “riforma della riforma” liturgica, ma, a parte qualche vecchio merletto tirato fuori dalla naftalina, non si direbbe che la liturgia abbia ricevuto un nuovo impulso nella Chiesa. Ma forse è sbagliato lamentarsi che gli anni passano e non si vede nulla; è sbagliato perché probabilmente sono quelle attese stesse a essere sbagliate. Se, invece di attendere che il Papa inizi a cambiare qualcosa (poveretto, non gli è riconosciuto neppure il diritto di proclamare il Santo Curato d’Ars patrono dei sacerdoti!), se incominciassi io a cambiare qualcosa in me stesso e intorno a me, allora forse la Chiesa inizierebbe a rinnovarsi.

Vi pregherei di dare un’occhiata al seguente video: esprime bene quel che voglio dire.





Se, invece di continuare a lamentarci di come ci è stata passata la palla, pensassimo a schiacciarla bene, la partita sarebbe già vinta.

Ma, direte voi, in che cosa consiste, nel nostro caso, “schiacciare bene la palla”? Qualcuno potrebbe pensare che, visto che le riforme conciliari non hanno ottenuto il loro effetto, la soluzione consista nel tornare sic et simpliciter alle forme precedenti al Concilio. Sarebbe ripetere lo stesso errore compiuto dagli ideologi del Vaticano II: pensare che il rinnovamento della Chiesa consista esclusivamente in un cambiamento delle sue forme esteriori. Mi pare che, anche a questo proposito, Ida Magli, riprendendo un’intuizione di don Giussani, abbia colto il nocciolo della questione: «La Chiesa ha cominciato ad abbandonare l’umanità perché ha dimenticato chi era Cristo...». Il problema è tutto qui: il problema non è né l’abolizione del celibato né la messa in latino (per quanto si tratti di problemi rispettabilissimi, di cui è legittimo discutere), ma rimettere al centro della nostra vita personale ed ecclesiale il Signore Gesú.

mercoledì 9 giugno 2010

Grazie!

Eccellenze Reverendissime,

siccome alcuni giorni fa avevo espresso pubblicamente il mio rammarico perché, negli ultimi tempi, dalla bocca dei Pastori avevo sentito quasi esclusivamente parole di rimprovero e inviti alla penitenza e mai una parola di incoraggiamento; e siccome sembrerebbe che, col vostro messaggio reso noto ieri, abbiate ascoltato il mio lamento, non posso non esprimerVi ora la mia gratitudine per quanto avete scritto.

È ovvio che un sacerdote non fa quel che fa per sentirsi poi ringraziato. Ma siamo uomini: sentirci dire una parola di riconoscenza e di incoraggiamento dai nostri Pastori, specialmente quando tutti ci dànno addosso, non può che far piacere e confermarci nel nostro impegno. Non Vi nascondo che, in certi momenti, ci assale la tentazione dello scoraggiamento. Viene da pensare: ma chi me lo fa fare? Se questo è il ringraziamento, vadano tutti a farsi friggere; meglio fare l’eremita e pensare esclusivamente alla salvezza della propria anima. Beh, sentirsi dire dai propri Pastori: «Siamo fieri di voi!», ci conforta e ci riempie di gioia. Non perché siamo senza pecche o ci illudiamo di aver raggiunto già la perfezione. Non siamo farisei: conosciamo bene la nostra natura; siamo consapevoli dei nostri limiti; riconosciamo le nostre mancanze. Nell’umana debolezza, non siamo diversi dai nostri fratelli e da tutti gli uomini. Perché scandalizzarsi tanto? Anche la nostra vita è segnata dal peccato. Per questo abbiamo bisogno di ricorrere tanto frequentemente al sacramento del perdono. Ma sappiamo che il Signore ci ha scelti cosí come siamo, con tutte le nostre miserie, per farci ministri della sua potenza e del suo amore. E solo per questo, perché chiamati a una vocazione cosí sublime, ci sentiamo spinti a riformarci, a rinnovarci, a santificarci. Non sarà certo la paura sanzioni, canoniche o civili, a renderci preti migliori, ma solo il dispiacere di non saper rispondere adeguatamente a tanto amore che abbiamo ricevuto.

C’è qualcuno che ha tentato, e sta tentando, di scardinare la Chiesa, contrapponendo il Papa ai Vescovi e i Vescovi ai sacerdoti. Vorrebbero che i Vescovi non fossero piú padri per i loro preti, ma semplici funzionari — “dirigenti” — di una multinazionale, tenuti a denunciare e a dimettere i loro “dipendenti”, anche sulla base di semplici voci infamanti. Vi ringrazio di non essere caduti nella trappola; vedo con piacere che non Vi lasciate condizionare piú del necessario dalle campagne mediatiche; che Vi rendete perfettamente conto dei valori che sono in gioco; che sapete resistere ai poteri oscuri che cercano in ogni modo di asservire la Chiesa. Se Voi siete fieri di noi, sappiate che anche noi siamo fieri di Voi!

Eccellenze Reverendissime, grazie per il sostegno che ci manifestate e, soprattutto, per le Vostre preghiere. Continuate ad accompagnarci nel nostro cammino con la Vostra preghiera, col Vostro consiglio, con la Vostra correzione, col Vostro amore paterno, con la Vostra benedizione.

Giovanni Scalese, CRSP
prete

domenica 6 giugno 2010

Cinque pani e due pesci

«Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9:13).

Gesú, se avesse voluto, avrebbe potuto sfamare le folle da solo: se fu capace di moltiplicare i pani, avrebbe potuto anche dare da mangiare a cinquemila uomini senza dover ricorrere all’ausilio dei Dodici. E invece volle servirsi di loro per soccorrere quella povera gente.

I discepoli fanno presente la loro inadeguatezza: hanno solo cinque pani e due pesci. Ma non si smarriscono; a tutto c’è rimedio; basta un minimo di buona volontà e di organizzazione: si può andare nel villaggio e comperare viveri sufficienti per dare un boccone a tutti.

Ma Gesú non accoglie la proposta: a lui bastano i cinque pani e i due pesci. È sufficiente che i Dodici mettano a sua disposizione quel poco che hanno; al resto penserà lui. Non c’è bisogno che i suoi discepoli attuino i loro piani per sfamare la folla; basta che loro facciano sedere la gente e poi distribuiscano il pane che lui fornirà loro.

È Gesú che salva gli uomini; ma vuole farlo attraverso i sacerdoti. Non è necessario che questi siano forniti di doti straordinarie né che elaborino sofisticati progetti umani per portare la salvezza all’umanità. È sufficiente che abbiano “cinque pani e due pesci”, e li mettano a disposizione del Signore. Questi li devono avere: è vero che il Figlio di Dio potrebbe trasformare in pane anche le pietre; ma di fatto Gesú si rifiuta di farlo (cf Mt 4:3-4; Lc 4:3-4); preferisce moltiplicare il pane, per quanto scarso, già esistente.

Se i sacerdoti fossero perfetti, essi e i loro fedeli potrebbero attribuire a loro stessi il merito di quanto fanno. La loro inadeguatezza dimostra — a loro e ai loro fedeli — che tutto viene da Colui che li ha inviati: è lui che riesce a “moltiplicare” la loro povertà. È al loro Signore, non alle loro miserie, che dobbiamo fissare lo sguardo.

Molto opportunamente l’Arcivescovo di Bologna, Card. Carlo Caffarra, nell’omelia che avrebbe dovuto pronunciare in occasione della celebrazione del Corpus Domini (ma che non ha pronunciato a causa dell’inclemenza del tempo; comunque riportata sul sito dell’Arcidiocesi), ha voluto menzionare le parole di san Francesco che si riferiscono ai sacerdoti: «… e tutti … voglio temere, amare e onorare come miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché io in essi discerno il Figlio di Dio e sono miei signori».

È giusto aspettarsi molto dai sacerdoti, perché hanno accettato una missione sublime ed esigente. Illusorio sarebbe pensare che i sacerdoti debbano essere perfetti per poter assumere quella missione. È sufficiente che abbiano “cinque pani e due pesci” e li mettano a disposizione del Signore, così che egli possa compiere le sue meraviglie.

martedì 25 maggio 2010

Né eroi né nevrotici. Semplicemente, uomini

Mi sembra quanto mai opportuno riportare, in una mia traduzione, questa lettera, scritta da un missionario salesiano uruguayano al New York Times (che naturalmente si è ben guardato dal pubblicarla). Potete trovare l’originale spagnolo nel blog El Diario de Ima.


Caro fratello e sorella giornalista,

sono un semplice sacerdote cattolico. Mi sento felice e orgoglioso della mia vocazione. È da venti anni che vivo in Angola come missionario.

Mi fa molto soffrire che persone, che dovrebbero essere segnali dell’amore di Dio, diventino un pugnale nella vita degli innocenti. Non ci sono parole che giustifichino tali atti. Non c’è dubbio che la Chiesa non può stare se non affianco dei deboli e dei piú indifesi. Per cui tutte le misure prese per la protezione e la prevenzione della dignità dei bambini saranno sempre una priorità assoluta.

Vedo in molti mezzi di informazione, soprattutto sul vostro giornale, l’amplificazione di questo tema in una forma morbosa, indagando nei dettagli la vita di qualche sacerdote pedofilo. Cosí appare uno di una città degli USA degli anni Settanta, un altro in Australia degli anni Ottanta e cosí via, altri casi recenti... Certamente tutto riprovevole! Si vedono alcune presentazioni giornalistiche ponderate ed equilibrate, altre esagerate, piene di pregiudizi e che arrivano fino all’odio.

È curiosa la poca informazione e il disinteresse per migliaia e migliaia di sacerdoti che si consumano per milioni di bambini, per gli adolescenti e i piú sfavoriti nei quattro angoli del mondo! Penso che al vostro mezzo di informazione non interessi che io abbia dovuto trasportare, su strade minate, nell’anno 2002, molti bambini denutriti da Cangumbe a Lwena (Angola), giacché né il governo era disposto né le ONG erano autorizzate; che abbia dovuto seppellire decine di piccoli deceduti fra i profughi di guerra e quelli che son tornati; che abbiamo salvato la vita a migliaia di persone a Moxico, grazie all’unico posto medico in 90.000 kmq, cosí come con la distribuzione di alimenti e sementi; che in questi dieci anni abbiamo dato la possibilità di educazione e scuole a piú di 110.000 bambini... Non desta interesse che con altri sacerdoti abbiamo dovuto soccorrere la crisi umanitaria di circa 15.000 persone negli acquartieramenti della guerriglia, dopo la loro resa, perché non arrivavano gli alimenti del governo e dell’ONU. Non fa notizia che un sacerdote di 75 anni, Padre Roberto, durante le notti, percorra le vie di Luanda curando i “ragazzi di strada”, portandoli in una casa di accoglienza, perché si disintossichino della benzina; che dei sacerdoti alfabetizzino centinaia di carcerati; che altri, come Padre Stefano, tengano case di passaggio per i ragazzi picchiati, maltrattati e violentati o che cercano un rifugio. E neppure che Fra Maiato, con i suoi 80 anni, passi casa per casa confortando gli infermi e i disperati. Non fa notizia che piú di 60.000 dei 400.000 sacerdoti e religiosi abbiano lasciato la loro terra e la loro famiglia per servire i loro fratelli in un lebbrosario, in ospedali, campi di rifugiati, orfanotrofi per bambini accusati di maleficio o orfani di genitori morti di AIDS, in scuole per i piú poveri, in centri di formazione professionale, in centri di attenzione ai sieropositivi... e soprattutto, in parrocchie e missioni dando motivazioni alla gente per vivere e per amare.

Non fa notizia che il mio amico Padre Marcos Aurelio, per salvare alcuni giovani durante la guerra in Angola, li abbia trasportati da Kalulo a Dondo e, tornando alla sua missione, sia stato mitragliato lungo la strada; che Fratel Francisco, con cinque signore catechiste, per andare ad aiutare nelle aree rurali piú lontane, sia morto in un incidente stradale; che decine di missionari in Angola siano deceduti, per mancanza di soccorso sanitario, per una semplice malaria; che altri siano saltati in aria a causa di una mina, mentre andavano a visitare la loro gente. Nel cimitero di Kalulo ci sono le tombe dei primi sacerdoti che arrivarono nella regione... Nessuno supera i 40 anni.

Non fa notizia accompagnare la vita di un sacerdote “normale” giorno per giorno, nelle sue difficoltà e gioie, mentre, senza far rumore, consuma la sua vita a favore della comunità che serve.

La verità è che non cerchiamo di fare notizia, bensí di portare la Buona Notizia, quella notizia che, senza rumore, cominciò la notte di Pasqua. Fa piú rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Non pretendo di fare un’apologia della Chiesa e dei sacerdoti. Il sacerdote non è né un eroe né un nevrotico. È un semplice uomo, che con la sua umanità si sforza di seguire Gesú e servire i suoi fratelli. Ci sono miserie, povertà e fragilità, come in ogni essere umano; ma anche bellezza e bontà, come in ogni creatura...

Insistere in forma ossessiva e persecutoria su un tema, perdendo la visione d’insieme, crea in realtà caricature offensive del sacerdozio cattolico, nelle quali mi sento offeso.

Solo Le chiedo, amico giornalista, di cercare la Verità, il Bene e la Bellezza. Questo La farà nobile nella Sua professione.

In Cristo,

Padre Martín Lasarte, SDB


Rilevo, con un pizzico di amarezza, che una tale apologia non avrebbe dovuto farla un missionario... Ben vengano gli inviti alla penitenza, sempre necessari. Ma quando agli attacchi dei nemici della Chiesa si aggiungono i rimproveri, insistenti e pressoché esclusivi, dei propri Pastori, diciamo la verità, si finisce per sentirsi un po’ abbandonati. Quando, non solo sul New York Times ma anche nella Chiesa, sembrerebbe che tutte le attenzioni debbano concentrarsi esclusivamente su Padre Maciel, il Card. Groer e Don Cantini, beh diciamo pure che ci si sente un po’ scoraggiati. Ogni tanto, non dispiacerebbe sentire anche una parola di incoraggiamento.

domenica 2 maggio 2010

San Francesco Saverio Maria Bianchi

L’altro giorno il blog Messainlatino ha pubblicato alcune “Orazioni giaculatorie per allontanare i divini flagelli” composte dal santo barnabita Francesco Saverio Maria Bianchi. Chi era costui? Se qualcuno fosse interessato ad approfondire la figura, straordinaria ma poco conosciuta, di questo religioso, può leggersi la seguente relazione, da me svolta lo scorso 23 aprile nella chiesa di Santa Maria di Caravaggio a Napoli (dove si venerano le reliquie del Santo), nellambito di un convegno organizzato dalla Provincia Italiana Centro-Sud dei Barnabiti in occasione dellAnno sacerdotale. Al convegno è intervenuto anche il Vescovo di Sora-Aquino-Pontecorvo Mons. Filippo Iannone.




SAN FRANCESCO SAVERIO MARIA BIANCHI
LUCE E SPERANZA IN UN TEMPO DI CRISI


Credo che sia stata un’ottima iniziativa, da parte della Consulta provincializia, voler riproporre, in occasione dell’Anno sacerdotale, la figura di san Francesco Saverio Maria Bianchi. Forse, durante questo anno (che si avvia alla sua conclusione), noi sacerdoti ci siamo concentrati quasi esclusivamente su san Giovanni Maria Vianney: certamente focalizzarsi sul Curato d’Ars non può che averci fatto bene; ma non possiamo dimenticare che, accanto a lui, esiste una miriade di santi sacerdoti a cui volgere il nostro sguardo. Fra questi, come Barnabiti, non possiamo ignorare il nostro confratello arpinate, che si pone innanzi a noi non solo come una gloria di cui andar fieri, ma anche e soprattutto come un modello da imitare. Si tratta di una figura straordinaria, per alcuni versi paragonabile, ai nostri giorni, con quella di Padre Pio, ma con un destino totalmente diverso: mentre il Santo di Pietrelcina è conosciuto da tutti e il suo culto è diffuso in ogni parte del mondo, il Bianchi è pressoché ignoto al di fuori della ristretta cerchia dei concittadini e dei confratelli (e anche fra questi la conoscenza è spesso piuttosto limitata). Penso che sia l’unico iscritto all’albo dei santi che, al momento, non possa vantare neppure una chiesa dedicata al suo nome, né nella sua città natale, né in questa città (dove è vissuto ed è morto e che pure lo venera come il suo “apostolo”), né nella sua Congregazione. Forse meriterebbe un po’ piú di attenzione.


Il “secolo dei lumi”

Dal punto di vista storico, il periodo che dobbiamo considerare è quello che va dal 1743 al 1815, rispettivamente anno di nascita e di morte del Bianchi (un arco di 72 anni).

Dal punto di vista geografico, il contesto è quello del Regno di Napoli (che nel 1816 verrà unificato con quello di Sicilia, dando origine al “Regno delle Due Sicilie”). A scuola ci hanno insegnato che si trattava della regione piú arretrata d’Italia; probabilmente la realtà non era cosí catastrofica come vorrebbero farci credere. Anzi...

Il contesto culturale in cui ci muoviamo è quello dell’Illuminismo. Anche qui, abbiamo appreso dai manuali scolastici che il Settecento è il “secolo dei lumi”, quasi che esso sprigioni solo luce; mentre forse la realtà è un tantino piú complessa. Giorni fa Avvenire ha pubblicato in anteprima un capitolo del volume Oltre l’abisso, del filosofo-sociologo francese, tuttora vivente, Edgar Morin. Nel capitolo, intitolato “Oltre i Lumi”, l’autore sostiene che «la Rivoluzione francese si è fondata contemporaneamente sul trionfo e sulla crisi dei Lumi. Il trionfo, con il messaggio di emancipazione del 1789 [la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”]. La crisi, con il terrore e il culto della ragione (penso a Alejo Carpentier, nel suo splendido romanzo Il secolo dei lumi, in cui dice che i Lumi arrivarono ai Caraibi con la ghigliottina)» (“Agorà”, 11 aprile 2010, p. 4).

Ma, prima di arrivare alla Rivoluzione francese (che corrisponde, nella vita del Bianchi, al periodo della sua graduale trasformazione spirituale), non possiamo dimenticare il precedente fenomeno, non meno devastante per la Chiesa, dell’assolutismo illuminato, quando cioè i sovrani si accordarono con i “filosofi” (vale a dire gli intellettuali illuministi) per introdurre nei loro regni alcune “riforme”. Ci furono due serie di riforme. Innanzi tutto gli interventi sulla grande proprietà fondiaria, laica ed ecclesiastica, per introdurvi la borghesia con la nuova mentalità capitalistica tendente a sfruttare la terra che, in molti casi, rimaneva incolta. Tali interventi perlopiú fallirono; mentre ebbe successo un’altra serie di riforme, quelle ecclesiastiche. Si affermò in quel periodo il cosiddetto “giurisdizionalismo”, grazie al quale il sovrano rivendicava il diritto di dare il suo gradimento per la nomina di vescovi e parroci (“placet”) e pretendeva che le leggi ecclesiastiche fossero da lui approvate, perché potessero avere vigore (“exequatur”). Voi capite che si trattava di una drastica limitazione della libertà della Chiesa. Si voleva che il clero dipendesse dallo Stato; i beni ecclesiastici venivano spesso e volentieri espropriati; addirittura, in qualche caso (si pensi all’imperatore Giuseppe II, il cosiddetto “re sagrestano”), si giungeva al punto di voler regolamentare anche il culto; soprattutto, si voleva sottrarre alla Chiesa l’educazione, che fino ad allora era stata praticamente monopolio del clero; si cercò, sebbene senza molto successo, di formare delle chiese nazionali (“febronianesimo”); i religiosi venivano sottratti alla dipendenza dai loro superiori centrali; si iniziò una lotta senza quartiere contro i Gesuiti, che avrebbe portato, nel 1773, alla soppressione della Compagnia da parte del remissivo Clemente XIV.

Quale fu la reazione della Chiesa di fronte a tali riforme? L’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche fu piuttosto arrendevole dinanzi al potere politico. A parte gli ecclesiastici che si fecero addirittura sostenitori dei principi illuminati — basti qui menzionare il vescovo giansenista di Pistoia Scipione de’ Ricci, piú o meno contemporaneo del nostro Santo (1741-1809) — gli stessi pontefici si mostrarono piú che condiscendenti: non solo il già citato Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli, 1769-1774), ma anche il solitamente celebrato Benedetto XIV (Prospero Lambertini, 1740-1758) condusse una politica di continui cedimenti alle potenze dell’epoca (fu lui a nominare come visitatore dei Gesuiti in Portogallo il cardinale Saldanha, parente del marchese di Pombal, primo ministro massone di quel paese). Potremmo dire che, per la Chiesa, il Settecento fu tutt’altro che un “secolo dei lumi”; esso fu piuttosto un secolo buio. Grazie a Dio, quando l’oscurità è piú profonda, c’è sempre qualche luce che si accende: il Settecento, come tutte le altre epoche critiche nella storia della Chiesa, fu illuminato da non pochi santi. Basti qui fare due nomi: san Paolo della Croce (1694-1775) e sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), entrambi promotori in Italia di un’opera di rievangelizzazione attraverso le “missioni popolari”.

Quali furono i riflessi delle “riforme” sui Barnabiti? Negli anni Sessanta del Settecento nel Napoletano si stabilí, prima, che i noviziati dei religiosi potessero accogliere solo candidati originari del Regno; poi vennero addirittura banditi tutti i religiosi “stranieri”. Nel 1774, per ordine del Papa, i Barnabiti dovettero subentrare ai Gesuiti nella conduzione di alcune loro opere, come il complesso di Santa Lucia a Bologna e il Gesú a Perugia. Nel 1781 la Provincia Lombarda e quella Germanica furono separate dal resto dell’Ordine. Nel 1783 i Barnabiti furono espulsi dalla Toscana, ponendo cosí fine alla ultracentenaria storia della Provincia Etrusca. Nel 1789 le case religiose del Regno di Napoli furono separate dai superiori residenti a Roma (si tenga presente che a quell’epoca le case napoletane non costituivano ancora una provincia; la Provincia Napoletana sarebbe stata eretta solo nel 1850). Le riforme introdotte nel Napoletano, naturalmente, ebbero ripercussioni, in un modo o nell’altro, nella vita del Bianchi.

Nel 1789 ebbe inizio la Rivoluzione francese. A parte qualsiasi giudizio di valore, non si può negare che tale data segni una svolta nella storia dell’Occidente: dopo la Rivoluzione, nonostante il Congresso di Vienna e la Restaurazione, il mondo non fu piú lo stesso; l’Ancien Régime scomparve per sempre. In un primo momento poteva sembrare che si trattasse di un evento interno alla Francia; ma nel 1796, con la prima campagna d’Italia, a opera di Napoleone, ebbe inizio l’esportazione della Rivoluzione in Europa. Ufficialmente si volevano diffondere gli ideali di libertà, fraternità, uguaglianza; di fatto, fu un vero e proprio saccheggio: si trattava di risolvere la crisi economica provocata in Francia dalla rivoluzione. La spoliazione d’Italia fu attuata con metodo scientifico. I principi, illuminati o non-illuminati che fossero, vennero spodestati e si diede vita a molteplici repubbliche giacobine. Ne ricordiamo solo due: quella romana del 1798 (il papa Pio VI — Giovanni Braschi — fu deportato in Francia, dove morí l’anno successivo) e quella partenopea del 1799. Si trattò di un’esperienza brevissima (solo sei mesi, da gennaio a giugno), fallita, secondo Vincenzo Cuoco (1770-1823), per l’astrattezza delle idee dei “patrioti”, completamente distaccati dal popolo (“rivoluzione passiva”).

Se le repubbliche giacobine furono espressione di ristrette élites intellettuali, un fenomeno autenticamente popolare fu la reazione delle masse all’imposizione dell’utopia rivoluzionaria: le cosiddette “insorgenze”. Solitamente i manuali scolastici — che ignorano tale termine — ci presentano, ovviamente in una luce negativa (come espressione di ignoranza e di populismo reazionario), solo due di tali sollevazioni popolari: la prima, quella della Vandea, nel 1793, e poi quella sanfedista, capeggiata dal cardinale Fabrizio Ruffo, che pose fine all’esperienza della Repubblica partenopea (1799). Ma il fenomeno delle insorgenze è generale, in Italia e in Europa: ovunque arrivasse Napoleone a portare gli ideali giacobini, trovava contadini armati di forconi a difendere la loro fede, la loro cultura e le loro tradizioni. Ricordiamo che in Italia, fra il 1796 e il 1799, ci furono insorgenze in Piemonte e Val d’Aosta, in Liguria, in Lombardia, nella Repubblica di Venezia (“Viva San Marco”), in Tirolo (Andreas Hofer), nella Romagna (la “Vandea italiana”), in Toscana e Umbria (“Viva Maria”), nelle Marche, negli Abruzzi, a Roma e nel Lazio (Fra Diavolo), in Campania, in Puglia e Lucania, in Calabria. Ma nessuno ce ne parla. All’estero, non possiamo non menzionare la grande insorgenza spagnola (1808-1813), che segnò l’inizio del declino di Napoleone.

Il 1799 fu l’anno del colpo di Stato di Napoleone, che portò al consolato e, successivamente, nel 1804, all’impero. Nel 1806 i francesi occuparono il Regno di Napoli, ponendo sul trono Giuseppe Bonaparte (mentre Ferdinando IV si rifugiò in Sicilia); al clero fu chiesto il giuramento di fedeltà; l’Arcivescovo fu costretto a fuggire. Nel 1808 Giuseppe Bonaparte divenne re di Spagna e fu sostituito da Gioacchino Murat. Questi, nel 1809, emanò le “leggi eversive del feudalesimo”, soppresse gli ordini religiosi (fra cui anche la nostra Congregazione) ed espropriò i loro beni. Nello stesso anno lo Stato pontificio fu annesso all’impero e il papa Pio VII (Barnaba Gregorio Chiaramonti) fu condotto prigioniero in Francia (stessa sorte toccò anche al padre generale, futuro cardinale, Francesco Luigi Fontana). Nel 1810 Napoleone soppresse gli ordini religiosi (il decreto imperiale faceva esplicita menzione anche dei Barnabiti); nel 1812 ci fu la campagna di Russia; dopo la sconfitta di Lipsia (1813), nel 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare e a ritirarsi all’isola d’Elba. Il 1815 è l’anno dei “cento giorni”, della definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo e del suo esilio a Sant’Elena (dove sarebbe morto nel 1821); l’anno del Congresso di Vienna e della restaurazione delle antiche dinastie (fra cui quella dei Borboni a Napoli). Ed è pure l’anno della morte del Bianchi, che aveva in vario modo previsto tali avvenimenti. Semplice coincidenza?


La via dell’umana sapienza

Francesco Saverio Maria Bianchi fu educato dai Barnabiti ad Arpino, nel Collegio dei Santi Carlo e Filippo. Successivamente, essendo nipote di un sacerdote, fu mandato a Nola, in seminario, dove studiò prima le lettere, poi la retorica e infine la filosofia, come si usava a quel tempo. Terminato questo ciclo di studi, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli; ma fu un’esperienza negativa, che lo indusse ad abbandonare, dopo appena un anno, gli studi. Già sentiva la vocazione religiosa: in un primo momento avrebbe desiderato entrare tra i Gesuiti; poi finalmente si decise per i suoi antichi maestri.

Fece il noviziato a Zagarolo (1763), poi si trasferí a Macerata (1764), per studiare la filosofia; quindi a Roma (1765-66), per attendere agli studi teologici, che proseguí poi a Napoli (1766-67). Quando aveva appena compiuto 23 anni, nel 1767, fu ordinato sacerdote. Evidentemente riusciva molto bene negli studi se, subito dopo l’ordinazione, fu mandato a insegnare retorica ad Arpino (1767-69). Fu quindi trasferito a Napoli dove iniziò ad insegnare filosofia (1769-72). Fu addirittura invitato a insegnare nell’Università di Napoli; ma, siccome le nostre Costituzioni non permettevano l’insegnamento nelle università pubbliche, fu costretto a rifiutare. Nonostante questo, però, fu nominato professore straordinario di teologia dogmatica e polemica all’Università di Napoli. Era anche socio nazionale della Reale Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere per la classe di “istruzione della storia medievale”. Come vedete, aveva una formazione molto vasta, che spaziava in diversi campi del sapere.

A proposito di questi suoi studi il Bianchi ci ha lasciato una testimonianza assai preziosa: «Anch’io nel tempo della mia giovinezza fui molto affezionato a simili conoscenze; e pregai Dio che mi aiutasse per servire con vantaggio della mia Congregazione. Dietro a queste preghiere eccomi una volta sopraffatto di tanto lume che, quasi squarciandomisi un velo davanti alla mente, mi si manifestarono le verità delle scienze umane, di quelle ancora non mai studiate, per un’intelligenza infusa, conforme già a Salomone. Per lo spazio di circa ventiquattro ore mi assisté questo lume, infino a che, come se di nuovo il velo si calasse, tornai ignaro qual era, mentre mi sentiva in cuore una voce: Questa è l’umana sapienza; e a che giova? Studia me, studia il mio amore». Un’esperienza mistica importante (è chiamata dono della “scienza infusa”); una prima avvisaglia di ciò che sarebbe avvenuto successivamente.

Iniziò poi anche una certa carriera ecclesiastica, giacché, a seguito dell’espulsione dei religiosi stranieri dal Regno di Napoli (1769), fu nominato superiore del Collegio di Santa Maria in Cosmedin a Portanuova, rimanendo in carica per ben dodici anni (1773-1785). Nel 1779 partecipò al Capitolo generale a Milano, ricoprendovi la carica di cancelliere. Terminato il Capitolo, accompagnò il nuovo padre generale Scipione Peruzzini nella visita alle case del Piemonte e della Lombardia. Nel 1785 partecipò nuovamente al Capitolo generale, questa volta a Bologna. Pare che si tentò pure di nominarlo vescovo, ma lui sempre rifiutò.

A un certo punto, ci fu una svolta nella vita del nostro Santo, una vera e propria “conversione”. Abbandonò interamente i libri, le amicizie, gli studi ameni, gli incontri con i dotti e si raccolse nella propria cella, cominciando a vivere completamente la vita nascosta con Cristo in Dio (Col 3:3). Lasciò ciò che gli era piú caro, i suoi amati studi; ma, nonostante questo, negli ultimi anni della sua vita, quando ormai i Barnabiti erano stati soppressi, si preoccupava — pensate un po’ — di comperare i libri per la biblioteca, per quando l’Ordine sarebbe stato ristabilito (ciò che avvenne tre anni dopo la sua morte, nel 1818, a San Giuseppe a Pontecorvo e, successivamente, qui a Santa Maria di Caravaggio).


L’ascesa alla santità

Tale conversione non fu una trasformazione improvvisa, come quella di Saulo sulla via di Damasco, ma una maturazione progressiva (durò piú di dieci anni), di cui possiamo cogliere alcune tappe, databili con una certa precisione.

Nel 1787, durante il mese di maggio, si ammalò seriamente; pensò addirittura che fosse ormai vicina la fine (sebbene avesse solo 44 anni); ma un’anima pia, la terziaria francescana suor Maria Francesca delle Cinque Piaghe (Anna Maria Gallo, 1715-1791), ora anche lei canonizzata, disse al Bianchi: «Abbiate fede, che nel nome di Dio dovete star bene; vi resta di faticar molto per lui: toglietevi ogni apprensione e abbiate fede». A me questo fa pensare a un’esperienza simile, avvenuta molti secoli prima, quella del profeta Elia, il quale, dopo il sacrificio del Carmelo, nel quale aveva sconfitto i profeti di Baal, era perseguitato dalla regina Gezabele e a un certo punto, stanco di vivere, si rivolse al Signore, dicendogli: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Ma l’angelo lo scosse e gli disse: «Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino» (1 Re 19).

Il 3 giugno successivo, festa della santissima Trinità, alzandosi dal letto al mattino, il nostro Santo ricevette quello che lui chiamò un “biglietto” da parte di Gesú, un’ispirazione celeste: «Ego ero merces tua magna nimis». Si tratta di una citazione del libro della Genesi, quando Dio dice ad Abramo: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande» (15:1).

All’inizio dell’anno seguente, l’11 gennaio 1788, ricevette una visita dello Spirito Santo, ancora una ispirazione, che gli serví per penetrare un versetto dei salmi: «Ascensiones in corde tuo disposui» (83:6). Di per sé, soggetto, verbo e aggettivo possessivo nel testo della Volgata (che traduce la LXX) sono alla terza persona: «Beatus vir, cuius est auxilium abs te, ascensiones in corde suo disposuit» (tradotto dalla CEI, che segue il testo ebraico: «Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore»). Ma il Bianchi accolse queste parole come se gli fossero rivolte dal Cielo: «Io ho disposto delle ascensioni (cioè una “ascesa” spirituale) nel tuo cuore».

Nel 1789 (l’anno della Rivoluzione francese), aprendo la Bibbia a caso, come era solito fare, gli caddero gli occhi su un altro versetto dei salmi: «Ego Dominus Deus tuus, qui eduxi te de terra Ægypti. Dilata os tuum et implebo illud» (80:11: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto; apri la tua bocca, la voglio riempire»).

Il culmine di questa “ascesa” si avrà nel giorno di Pentecoste dell’anno 1800, il 1° giugno. In tale occasione Saverio si recò a pregare, come spesso faceva, in una chiesa di monache di clausura, la chiesa del Divino Amore, dove c’era l’esposizione eucaristica, e lí, durante la preghiera, vide un raggio di luce che partiva dall’ostensorio e lo raggiunse al petto, lo penetrò, gli ferí il cuore, e svenne. Si tratta di un fenomeno non molto conosciuto e neppure molto diffuso: la “trasverberazione”. Sono relativamente pochi i santi che hanno avuto questo privilegio: il caso piú celebre è quello di santa Teresa d’Avila (immortalato dal Bernini nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma); ai nostri giorni, un santo che ha avuto lo stesso dono è Padre Pio da Pietrelcina, che fu trasverberato prima ancora di ricevere le stimmate. Ebbene, anche il nostro Santo, nella Pentecoste del 1800 fu trafitto al cuore. Probabilmente si trattava della risposta del Signore a una sua preghiera. Abbiamo una esplicita testimonianza in proposito. Il Bianchi, sebbene solitamente non parlasse molto di sé, in certi momenti, colloquiando con i suoi figli spirituali, si lasciava andare a qualche confidenza e un giorno disse: «Io ho pregato sempre il Signore di imprimere nel cuor mio la sua passione, come la impresse già sul velo della Veronica; e il Signore mi ha esaudito» (Eco dei Barnabiti, n. 4/2000, pp. 27-31).

Dopo questa esperienza, Saverio fu colmato di tutta una serie di doni straordinari. Abbiamo già visto che in una circostanza, almeno per ventiquattro ore, ebbe il dono della scienza infusa; dopo la trasverberazione era molto frequente in lui il fenomeno del rimbalzo o esultazione del cuore, cioè delle palpitazioni cardiache che lo colpivano o quando era in preghiera o quando anche solo vedeva una immagine sacra o sentiva un canto sacro (incominciava immediatamente a palpitare o a sudare e i presenti che lo conoscevano dovevano prendere le necessarie misure per farlo tornare in sé). Ebbe il dono delle lacrime; il fulgore sul viso; i doni della levitazione, della bilocazione, del profumo delle piaghe. Ebbe visioni e rivelazioni; era dotato del dono della profezia, innanzitutto nella direzione spirituale (penetrava senza difficoltà l’animo dei suoi discepoli); piú volte poi preannunciò i castighi divini per gli sconvolgimenti sociali (predisse l’eruzione del Vesuvio del 1804 e il terremoto del 1805); prevedeva guarigioni e decessi; pronosticava anche il successo negli affari e nella carriera; fece non poche profezie politiche e seguí, oggi diremmo “in tempo reale”, alcuni importanti avvenimenti storici, come l’esilio di Pio VII o la campagna di Russia (vedeva ciò che stava succedendo in quel momento al papa o a Napoleone; poi lo raccontava alle persone che lo circondavano e diceva loro di annotarlo; quando poi avevano modo di controllare, scoprivano che quei fatti erano realmente accaduti). Ebbe il dono dei miracoli: fermò la lava del Vesuvio; operò diverse guarigioni; moltiplicò il denaro per aiutare chi era nel bisogno. Va inoltre ricordato il fenomeno prodigioso riportato da tutti i biografi: dal 25 marzo 1814, quando oramai era completamente immobilizzato su una poltrona, per sei mesi riuscí miracolosamente ad alzarsi per celebrare la santa Messa; terminata la quale, doveva di nuovo sedersi e rimaneva immobilizzato fino al giorno successivo. Infine ebbe quel misterioso morbo che lui chiamò “spine e fuoco”, cioè delle piaghe che lo tormentarono alle gambe per oltre dieci anni, gli ultimi della sua vita. Queste piaghe gli erano state predette da suor Maria Francesca. Un giorno questa gli toccò gli arti inferiori dicendo: «Oh, quanto avranno a soffrire queste gambe!», molti anni prima che ciò avvenisse. Un fenomeno mistico prima che fisiologico. I medici non riuscivano a dare una spiegazione né a trovare un rimedio; anzi molto spesso gli provocavano maggiori sofferenze con i loro tentativi totalmente inefficaci. Un giorno il Bianchi disse: «Vi assicuro che da queste piaghe non leverete un dito». Il medico gli chiese: «Quale dito?». E lui rispose: «Il dito di Dio». Era pienamente consapevole che si trattava di un fenomeno soprannaturale e ne diede questa interpretazione: «Il Signore si degnò di visitarmi nel dolore e con l’ardore di queste piaghe, perché cosí, con questa forza opposta, si mitigasse la fiamma del mio cuore». Una specie di bilanciamento del dono mistico che aveva ricevuto nella chiesa del Divino Amore.

Sapeva perfettamente che tale straordinaria esperienza spirituale non era la cosa piú importante nella vita: non era tanto importante il dono della contemplazione — che pure è un dono che va accolto con riconoscenza — quanto piuttosto il compimento della volontà divina: «Al Signore non piace che io cerchi questo dono della contemplazione, ma che studi di morire a me stesso e di attendere solamente alla santa sua volontà»; «Signore, fate che io sempre cerchi di fare la vostra volontà divina in tutte le cose, e non me la fate trovare mai: fate che io la faccia, e non me la fate conoscere»; «Fa’ di me quello che sai e vuoi, senza saperlo io né prima né poi».


La grazia dell’apostolato

Per indicare la conversione, che abbiamo cercato di descrivere, solitamente viene usata dai biografi l’espressione “vocazione alla vita contemplativa”; personalmente preferisco usare un’altra locuzione, che ho trovato in Madre Teresa di Calcutta, e cioè “vocazione nella vocazione”. Credo che sia un’esperienza spirituale che ciascuno di noi deve fare, perché nessuno viene chiamato una volta per tutte; all’interno della propria vocazione ciascuno di noi riceve, prima o poi, una seconda chiamata; e questo è proprio il caso del Bianchi. Prima di questa “seconda vocazione” non è che egli fosse un peccatore: era sicuramente un buon religioso; ma a un certo punto si sentí chiamato a una vocazione piú alta. Ora, l’espressione comunemente usata — “vocazione alla vita contemplativa” — non mi sembra del tutto appropriata, perché potrebbe essere fraintesa: il Bianchi non diventò un monaco; con questa vocazione egli divenne piuttosto un apostolo. Leone XIII lo proclamerà “Apostolo di Napoli”. Giustamente, a questo proposito, qualche biografo ha parlato di “vocazione apostolica” del Bianchi, perché il suo apostolato cominciò proprio dopo questa esperienza mistica. Naturalmente si tratta di un apostolato che non consiste in quella agitazione fine a sé stessa che spesso contraddistingue la nostra azione pastorale e che non produce nessun frutto; ma un apostolato vero, che agisce in profondità, che trasforma le coscienze: molti cuori induriti si convertivano, molte anime tiepide intraprendevano i sentieri della santità.

Il Bianchi usciva poco dalla sua camera; negli ultimi anni non usciva piú, perché completamente immobile; eppure esercitava una profonda influenza nell’ambiente napoletano. La sua camera divenne meta di un incessante pellegrinaggio, al punto che gli rimaneva pochissimo tempo per sé. Disse una volta: «Carità vuole che io serva nel giorno al bisogno altrui, a me penso la notte».

Nonostante il suo rigore, era estremamente umano verso i fedeli; fece questa raccomandazione ai confessori: «Badiamo noi confessori: quando Iddio batte un’anima, non abbiamo da consigliarle altre mortificazioni, che riuscirebbero importune e forse nocive. Quando poi Iddio smetterà di batterla, potremo sí consigliarle di battersi da sé stessa, ma non siamo mai due in un tempo a battere». Allo stesso tempo era però molto esigente con quanti si sottoponevano alla sua direzione. Diceva: «Anime tapine, non ne voglio vedere».

La sua parola infiammava il cuore degli ascoltatori. Qualche testimone ha lasciato detto: «Sembrava un serafino, a parlarmi». Spesso bastava la sola presenza, bastava uno sguardo, un segno di croce sulla fronte, la mano sul capo, un abbraccio al petto, per trasformare le anime. Quelli che lo avvicinavano sentivano la presenza di Dio e, una volta accostatolo, non lo lasciavano piú. La sua vicinanza riempiva di pace. Un altro testimone disse: «Io entro qua pieno di inquietudine e ne riparto interamente tranquillo».


Il dono della profezia

L’esperienza mistica e apostolica non distolse il Bianchi dalla partecipazione alla vita sociale e politica del suo tempo. Non si tratta naturalmente di un intervento diretto: non è compito del religioso o del sacerdote immergersi nelle questioni temporali; ma neppure egli può rimanere neutrale, come spesso facciamo noi. Il Bianchi esprimeva un giudizio sulle vicende politiche del suo tempo.

Quando le case napoletane dei Barnabiti furono separate da Roma, nel 1789, egli non volle contribuire all’elezione di superiori indipendenti; continuò sempre a sentirsi dipendente dai legittimi superiori della Congregazione.

Incontrò anche il duca Carlo Emanuele IV di Savoia e sua moglie Maria Clotilde, che erano stati spodestati al termine della prima campagna di Napoleone, nel 1798. Vennero a Napoli e si incontrarono col nostro Santo, il quale cercò di confortarli.

Si oppose alla Rivoluzione napoletana del 1799 e non permise ai suoi discepoli di arruolarsi nella Guardia nazionale, costituita per l’occasione. Anticipò anche le violenze che si sarebbero scatenate il 15 giugno di quell’anno, al termine dell’esperienza della Repubblica partenopea, quando l’Armata della Santa Fede entrò in Napoli. Previde pure la brevità della restaurazione borbonica (che infatti durò soltanto fino al 1806).

Rifiutò il giuramento di fedeltà, richiesto da Giuseppe Bonaparte e non lo permise ai suoi discepoli. Fece in modo che diversi suoi discepoli non facessero il servizio militare, quando fu disposta la leva militare obbligatoria: i giovani, che erano stati già arruolati, all’ultimo momento venivano inspiegabilmente rimandati a casa. Fu anche minacciato di arresto; ma, nelle condizioni in cui si trovava, fu impossibile procedere.

Alcune delle profezie politiche a cui abbiamo fatto cenno. Quando Giuseppe Bonaparte nel 1808 lasciò Napoli per andare in Spagna, sentite che cosa disse il Bianchi a un suo amico: «Hai veduto la partenza di Giuseppe Bonaparte? Egli va nella Spagna e di là comincerà la mano del Signore a umiliare i francesi ... Iddio vuol mostrare l’opera sua. Vedrai che dalla Spagna avrà principio la depressione francese; se altri potentati l’avessero fatto, si sarebbe attribuito il trionfo alla forza umana». Si sta riferendo proprio alla grande insorgenza spagnola, in un momento nel quale nessuno avrebbe potuto sospettare il tramonto dell’astro napoleonico. Disse ancora: «La rovina dei francesi comincerà dalla Spagna, mentre Dio per abbatterli si servirà degli spagnoli».

Nel 1812, durante la campagna di Russia, fu fatto cantare nel Duomo di Napoli, come in tutte le città, un Te Deum di ringraziamento, per celebrare la vittoria. Come reagí il Bianchi? Disse: «Avrebbero fatto meglio a cantare il Miserere ... San Michele con la sua spada ha già distrutto quasi tutta l’armata francese entrata in Mosca. Un’anima — ovviamente è lui l’anima — ha veduto questo nella sua orazione. Notate questo giorno; e a suo tempo saprete che cosa ha fatto la mano del Signore».

All’inizio del 1815 (il 31 gennaio di quell’anno sarebbe morto) disse: «Questo è l’anno felice, l’anno della misericordia del Signore, l’anno che, dissipato il governo francese, risalirà sul trono il re Ferdinando!». E cosí avvenne.


Conclusione: “luce e speranza in un tempo di crisi”

Vorrei terminare con qualche riflessione. Il titolo di questa conferenza era: “San Francesco Saverio Maria Bianchi, luce e speranza in un tempo di crisi”. Abbiamo detto che il “secolo dei lumi” fu un’epoca piuttosto oscura per la Chiesa: un tempo di crisi, appunto. Abbiamo anche detto che questo secolo buio fu illuminato dai santi, fra i quali il Bianchi. Il nostro confratello costituisce una “luce”: in mezzo alle tenebre, egli tenne accesa una lampada e tale lampada permise ai suoi contemporanei di vedere la strada da percorrere. Nel momento della desolazione, egli fu un segno di speranza e di consolazione.

Il nostro Santo fu “luce e speranza” specialmente per i Barnabiti di duecento anni fa. Mi sembra emblematico che egli trascorse gli ultimi sei anni della sua vita e morí fuori della Congregazione (è vero che essa era stata già ristabilita a Roma nell’agosto del 1814; ma a Napoli fu ripristinata, come abbiamo detto, solo nel 1818). Potrebbe sembrare che egli segni la conclusione di una storia gloriosa; in realtà, con la sua umile esperienza, egli pose le premesse per l’inizio di una nuova storia. Gettò un seme che sarebbe germogliato dopo la sua morte. Per questo egli può, a buon diritto, essere considerato “secondo padre e fondatore” dell’Ordine. Potremmo — perché no? — applicare a lui la categoria di “riformatore”, prevista da sant’Antonio Maria Zaccaria nelle sue Costituzioni.

Piú o meno contemporaneo del Bianchi fu il cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802): quando nacque il Bianchi, il Gerdil aveva 25 anni; quando morí il Gerdil, il Bianchi era quasi sessantenne. Anche il Gerdil è una gloria della Congregazione, di cui possiamo andar fieri: senza ombra di dubbio è il piú grande filosofo cristiano del Settecento; fra i sette cardinali barnabiti, è forse il piú illustre; se non fosse stato per il veto dell’Austria, nella storia della Chiesa avremmo avuto un papa barnabita. Eppure oggi siamo qui a commemorare san Francesco Saverio Maria Bianchi, e non il cardinale Gerdil. Perché il Bianchi, dopo aver percorso, come il suo eminentissimo confratello, le vie della scienza, a un certo punto cambiò strada e si inerpicò per gli impervi sentieri della santità. E con la sua santità contribuí al rinnovamento della Chiesa e della Congregazione.

Ma il titolo della conferenza non specifica a quale tempo di crisi ci si riferisca. Certamente era un tempo di crisi il Settecento; ma non meno critica è l’epoca in cui viviamo. Può san Francesco Saverio Maria Bianchi costituire una “luce” e una “speranza” anche per il nostro tempo? Direi proprio di sí.

Innanzi tutto, egli ci insegna che, se vogliamo riformare la Chiesa e la Congregazione, dobbiamo, come lui, farci santi. Non bastano gli studi; non basta essere dei grandi filosofi o dei grandi teologi; bisogna diventare santi. Se vogliamo rinnovare la Chiesa, non bastano le riforme strutturali e pastorali — pure necessarie — promosse dal Vaticano II. Per essere attuali e un tantino polemici: se vogliamo purificare la Chiesa dalla corruzione e dall’immoralità, non bastano i processi o le nuove guidelines della Santa Sede contro la pedofilia; ci vuole la santità.

Ma, oltre a mostrarci un cammino da seguire, valido per tutti i cristiani, e in special modo per i sacerdoti, penso che, in particolare, san Francesco Saverio Maria Bianchi indichi in questo momento un percorso alla sua famiglia religiosa. Mi sembra assai significativo che in un momento in cui tutto intorno a lui stava crollando, egli puntò sull’essenziale: lui che era un dotto barnabita, dedito agli studi e all’insegnamento, a un certo punto piantò tutto e si concentrò sull’unum necessarium: preghiera, penitenza, ministero (soprattutto confessioni e direzione spirituale), osservanza regolare (per quanto glielo permettessero le circostanze). In tal modo egli ha tracciato un cammino valido anche per noi, che stiamo vivendo un’esperienza simile alla sua: tutto ci sta crollando addosso. Che fare? Spesso non sappiamo come regolarci: quali scelte fare per fronteggiare la crisi? Spesso ci illudiamo che ci sia bisogno di elaborare dei grandi progetti; e poi rimaniamo frustrati, perché ci accorgiamo che non abbiamo le forze per realizzarli. Ecco, il Bianchi ci indica una strada molto piú semplice: non curarsi dei fronzoli, per quanto illustri e benemeriti essi possano essere, e puntare all’essenziale. L’ha percorsa lui, questa strada; perché non provare a percorrerla anche noi?