mercoledì 14 aprile 2010

Tiepidezza e santità

Le polemiche di questi giorni mi hanno fatto tornare in mente una conferenza che tenni otto anni fa al clero della diocesi di Acerra, in occasione del quinto centenario della nascita di Sant’Antonio Maria Zaccaria. Mi è tornata in mente, perché vi avevo fatto un riferimento allo scandalo della pedofilia che era appena scoppiato in America. A rileggere oggi quel passaggio (che ho evidenziato), mi accorgo che non ci sono voluti cinquecento anni per renderci conto della condizione critica della Chiesa odierna. Ma mi viene da fare anche qualche altra considerazione, che rimando alla fine della rievocazione storica (se avrete la pazienza di arrivare fino in fondo). La conferenza si svolse nel monastero di San Giovanni Evangelista, nel comune di San Felice a Cancello (Caserta) il 9 maggio 2002.


A parte qualche illustre eccezione, spesso si ha l’impressione che ciascuno abbia i suoi santi: le città e le nazioni, i loro; le chiese particolari, i loro; gli ordini religiosi, i loro. Sono pochi i santi veramente universali. Ai nostri giorni si potrebbe dire che, di santo di tutti, ce ne sia uno solo: Padre Pio. Lascia davvero sbalorditi come la sua fama e la sua devozione si stia diffondendo in ogni parte del mondo e presso ogni categoria di fedeli. Ma, per il resto, il culto di santi, anche recentemente beatificati o canonizzati, ha una diffusione circoscritta ad alcuni luoghi o fra determinati gruppi. Soprattutto quando si tratta di fondatori di ordini religiosi, si ha l’idea che essi appartengano esclusivamente all’istituto da loro fondato; che solo i loro figli spirituali debbano conoscerli e venerarli. Si arriva all’assurdo che spesso le stesse chiese locali, da cui quei santi provengono, anziché essere fiere di aver espresso simili figure, spesso le trascurano, delegando in maniera pressoché esclusiva gli istituti da loro fondati a custodirne e coltivarne la memoria.

Ci dimentichiamo però che, quando la Chiesa riconosce ufficialmente la santità di uno dei suoi figli, non lo fa certo per accontentare le rivendicazioni di qualche lobby di potere o per assecondare le ambizioni di qualche consorteria; lo fa esclusivamente per proporlo all’imitazione di tutti i cristiani. Afferma in proposito il Catechismo della Chiesa cattolica: «Canonizzando alcuni fedeli, ossia proclamando solennemente che tali fedeli hanno praticato in modo eroico le virtú e sono vissuti nella fedeltà alla grazia di Dio, la Chiesa riconosce la potenza dello Spirito di santità che è in lei e sostiene la speranza dei fedeli offrendo loro i santi quali modelli e intercessori. “I santi e le sante sono sempre stati sorgente e origine di rinnovamento nei momenti piú difficili della storia della Chiesa” (Christifideles laici, n. 16). Infatti, “la santità è la sorgente segreta e la misura infallibile della sua attività apostolica e del suo slancio missionario” (ibid., n. 17)» (n. 828).

I santi perciò — tutti i santi — sono santi di tutti, sono santi della Chiesa. Chiaramente, se i santi sono modelli, lo sono in particolare per coloro che, nella Chiesa, svolgono il medesimo servizio che quelli hanno svolto: un sacerdote santo — diocesano o religioso, non importa — è un esempio per tutti i sacerdoti. Lo è, in particolare, Antonio Maria Zaccaria, presbitero cremonese vissuto cinquecento anni fa.

Il Catechismo, citando l’esortazione apostolica Christifideles laici (che, a sua volta, riprendeva la relazione finale della seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi del 1985), ci ha ricordato che «i santi e le sante sono sempre stati sorgente e origine di rinnovamento (fons et origo renovationis) nei momenti piú difficili della storia della Chiesa». In effetti, se andiamo a fare un’indagine storica sui santi canonizzati, ci accorgiamo che proprio le epoche piú critiche nella storia della Chiesa sono state quelle che hanno espresso il maggior numero di santi. Naturalmente, non è casuale che ciò avvenga. Come in un organismo si producono gli anticorpi, quando esso viene attaccato da agenti patogeni, cosí nella Chiesa Dio suscita i santi quando essa è afflitta da mali che potrebbero metterne a rischio la sopravvivenza. Lo Zaccaria non solo era cosciente di questo, ma andava anche oltre. Perfettamente consapevole della profonda crisi che attanagliava la Chiesa e la società del suo tempo, scriveva: «Ci si potrebbe chiedere il motivo per cui Dio permetta che rovinino i buoni costumi … Scruti bene ciascuno nel libro della somma Provvidenza, e vedrà almeno questo: che Dio dispone in diversi anfratti e travagliosi tempi di coronare diversi capitani» (Costituzioni XVIII). Antonio Maria arriva al punto di dire che Dio permette le crisi della Chiesa per incoronare dei santi. Dunque, non sono i santi a essere suscitati per riformare Chiesa, ma è la Chiesa che va in crisi perché siano suscitati dei santi!

Fra le epoche piú critiche della storia della Chiesa va certamente annoverato il XVI secolo. Non che prima le cose andassero meglio; ma certo, nel Cinquecento, quella crisi che si trascinava da lungo tempo esplode in maniera devastante.

Ai danni provocati alla Chiesa dal feudalesimo — a cui aveva cercato di porre rimedio la riforma gregoriana dell’XI secolo — si erano poi aggiunte le conseguenze rovinose della cattività avignonese (1309-1377) e del successivo scisma d’Occidente (1378-1449). Le “piaghe”, che col passare dei secoli si erano venute incancrenendo nel corpo ecclesiale, erano soprattutto l’ignoranza e l’immoralità del clero; il rilassamento degli ordini religiosi; la carriera ecclesiastica spesso intrapresa non per vocazione, ma per interesse, o personale (desiderio di ricchezza, di prestigio, di potere) o familiare (l’esigenza di non disperdere il patrimonio); il cumulo dei benefici e la conseguente dissociazione di questi dai rispettivi uffici, che indusse molti titolari a non risiedere nella propria sede; la vita mondana degli ecclesiastici, che spesso furono uomini di corte piú che pastori d’anime; l’intreccio fra autorità spirituale e potere temporale, che portò papi, vescovi-principi e abati ad avere preoccupazioni piú politiche che religiose; il nepotismo dei sommi pontefici e il fiscalismo vorace della Curia romana, che alienarono al papato le simpatie di vasti settori della cristianità; le interferenze del potere politico, che limitavano fortemente la libertà della Chiesa; la crisi della teologia e lo scadimento della predicazione, che provocarono un impoverimento della pietà popolare, sempre piú in preda alla superstizione. Lo stesso Rinascimento, anziché porre rimedio, aggravò la situazione, accentuando la secolarizzazione delle gerarchie ecclesiastiche e favorendo la paganizzazione della società.

In una situazione cosí drammatica si erano già manifestati numerosi fermenti di riforma. Già nel Tre-Quattrocento alcune figure avevano lavorato per il rinnovamento della Chiesa: alcune lo avevano fatto rompendo con essa — si pensi all’inglese John Wycliffe (1330-1384) e al boemo Jan Hus (1369-1415) —; altre lo avevano fatto rimanendo all’interno della Chiesa: basti citare Santa Caterina da Siena (1347-1380), San Vincenzo Ferrer (1350-1419), San Bernardino da Siena (1380-1444), San Giovanni da Capestrano (1386-1456).

Nel Cinquecento si ripete qualcosa di analogo: anche nel XVI secolo vengono intrapresi due diversi tentativi di riforma della Chiesa: uno in polemica con la Chiesa istituzionale (la Riforma protestante) e l’altro che rimane fedele a essa (la cosiddetta Riforma cattolica). La prima non solo non raggiunge l’obiettivo prefisso, ma anzi aggrava la crisi esistente: a tutti i problemi già presenti ne aggiunge di piú gravi, come l’eresia e la disintegrazione della comunione ecclesiale. Da parte sua la Riforma cattolica — solo di recente messa in luce da una piú attenta storiografia e da non confondersi con la successiva Controriforma — promuove dall’interno l’autentico rinnovamento della Chiesa.

Aspetti rilevanti della Riforma cattolica vanno considerati l’Umanesimo cristiano, con la sua esigenza di ritorno alle fonti bibliche e patristiche del cristianesimo; il fenomeno delle Osservanze, che manifesta il bisogno della vita religiosa di tornare al proprio primitivo rigore; il cosiddetto movimento oratoriano, espressione di una insospettabile vitalità ecclesiale (molto simile agli attuali movimenti); la fondazione dei nuovi ordini religiosi dei chierici regolari, che si propongono la riforma del clero e, attraverso questa, la riforma della Chiesa e della società.

All’interno di tale contesto di crisi e di vitalità ecclesiale si situa anche la figura di Sant’Antonio Maria Zaccaria. Nato a Cremona nel 1502 (cinquecento anni fa!), intraprende in un primo momento la carriera medica. Dopo essersi laureato in medicina all’Università di Padova, però, decide di darsi a vita spirituale. E inizia, ancora laico, la sua opera di catechesi e di testimonianza cristiana. Spinto dal proprio direttore spirituale, si orienta verso il sacerdozio e, nel 1529, riceve l’ordinazione, continuando, nella nuova veste, la sua azione evangelizzatrice e caritativa. Si affida alla guida spirituale di un domenicano riformatore, collega del Savonarola, fra Battista da Crema, il quale gli fa conoscere la contessa Ludovica Torelli di Guastalla, di cui diviene presto cappellano. Questo composito terzetto, accomunato da un ardente desiderio di riforma, si trasferisce nella capitale del Ducato, Milano. Qui entra in contatto con uno di quei cenacoli di riforma di cui si diceva: l’Oratorio dell’Eterna Sapienza. Nascono cosí nuove amicizie; si stringono nuovi legami spirituali; il gruppo si allarga. Si concepisce un progetto ardito: la formazione di una nuova compagine ecclesiale, formata da sacerdoti, religiose e laici coniugati, tutta dedita alla santificazione personale e alla riforma della Chiesa e della società. Il modello a cui si guarda, e sotto la cui protezione si pone il nuovo movimento, è l’apostolo Paolo, considerato non tanto come teologo della giustificazione mediante la fede (come, piú o meno contemporaneamente, faceva Lutero), ma piuttosto come apostolo ed evangelizzatore. Nel 1533 il papa approva il ramo maschile, quelli che successivamente sarebbero stati chiamati “Chierici regolari di San Paolo” o, piú brevemente, dal nome della loro prima chiesa, “Barnabiti”. Nel 1535 poi viene approvato il monastero femminile: alle religiose si dà il nome di “Angeliche di San Paolo”. Caratteristica delle Angeliche: non sono soggette alla clausura, perché devono partecipare al lavoro apostolico dei confratelli. Accanto a loro, come dicevamo, tutta una serie di laici, per lo piú di rango elevato, che condividono il medesimo progetto e collaborano alla sua realizzazione.

Inizia subito l’opera di rievangelizzazione di Milano. Si usano dei mezzi spesso provocatori, che destano la reazione del potere — ecclesiastico e laico — costituito. Molto significativamente Angelo Montonati ha intitolato la nuovo biografia dello Zaccaria, pubblicata quest’anno, Fuoco nella città. Sí, perché proprio di questo si tratta: riportare un po’ di fuoco nella vita della Milano di quel tempo.

Antonio Maria, da buon medico, fa una diagnosi attenta dei mali che affliggono la Chiesa e la società del suo tempo. Il risultato di tale diagnosi non è la lunga lista di “piaghe” che abbiamo elencato poc’anzi. Il suo referto individua un’unica malattia: la tiepidezza. Obiettivo suo e dei suoi discepoli è una lotta senza quartiere contro una vita cristiana mediocre. Scrive alle Angeliche: le mie figlie devono essere «apostole per rimuovere non solo la idolatria e altri difettoni grossi dalle anime, ma per distruggere questa pestifera e maggior nemica di Cristo crocifisso, la quale sí grande regna ai tempi moderni: madonna — dico — tepidità» (Lettera V). Tale lettera risale al 1537; con essa il Santo annuncia la prima missione fuori Milano: i paolini sono stati chiamati dal vescovo di Vicenza a compiere un’opera di riforma, soprattutto dei monasteri, di quella città. Di lí, successivamente, i paolini si sarebbero allargati al resto della Repubblica di Venezia, conquistando l’adesione di larghi strati dell’intellighenzia veneta (questo alla lunga avrebbe provocato la reazione dell’establishment politico della Serenissima, che, nel 1551, decreterà l’espulsione dei paolini dai domini della Repubblica).

Lo Zaccaria, nel frattempo, continua la sua opera a Milano. Nel 1539 si reca a Guastalla, per riportare la pace in quella contea in preda a lotte intestine. È già ammalato: gli strapazzi e il clima della Bassa padana aggravano le sue condizioni di salute. In giugno sente venir meno le forze e chiede di tornare a Cremona, nella casa natale. Circondato dalla mamma e dai suoi piú fedeli discepoli, confortato dall’apparizione dell’apostolo Paolo, fa le sue ultime raccomandazioni ai presenti, riceve i sacramenti e spira nel primo pomeriggio del 5 luglio 1539, secondo la sua predizione, nell’ottava degli apostoli Pietro e Paolo. Aveva 37 anni.

Come si vede, una vita molto breve e senza fatti straordinari: né esperienze mistiche singolari, né miracoli strepitosi, né realizzazione di opere esterne che rimanessero nei secoli futuri. Solo una preoccupazione: estirpare la tiepidezza, appiccare il fuoco del fervore. Rivolgendosi ai suoi figli scriveva: «[Accontentate] il desiderio del nostro divin padre [= San Paolo], il quale … voleva che fossimo piante e colonne della rinnovazione del fervor cristiano» (Lettera VII). La frase del vangelo, che egli cita nei suoi scritti in riferimento a Cristo (Sermone IV), può tranquillamente essere applicata a lui stesso: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12:49).

Il segreto di Antonio Maria? La santità. È questa la risposta che lui dà alle sfide del suo tempo: la santità personale come presupposto e la santità dei cristiani come obiettivo dell’azione pastorale. Afferma l’esortazione apostolica Christifideles laici, citata dal Catechismo della Chiesa cattolica: «La santità … è la sorgente segreta e la misura infallibile della sua [= della Chiesa] attività apostolica e del suo slancio missionario» (ChL 17; CCC 828). Ciò che il papa ci raccomanda nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, a proposito della santità, era stato già intuito e attuato da Sant’Antonio Maria Zaccaria cinquecento anni fa: la vocazione universale alla santità, la santità come urgenza pastorale e alla base della programmazione pastorale, la contraddittorietà di una vita cristiana mediocre, il coraggio di riproporre una “misura alta” della vita cristiana ordinaria, la necessità di una pedagogia della santità. Sono tutti aspetti che ritroviamo, con diverse sfumature, nella spiritualità zaccariana.

Ciò che colpisce maggiormente, al di là della ruvidezza di certe espressioni (una ruvidezza che forse, piú che dalla diversità dei tempi, dipende dalla parrhesía evangelica che caratterizza i santi di tutti i tempi) è la modernità del linguaggio zaccariano. Basti un esempio: «Gli uomini moderni sembrano fatti apposta per allontanare l’uomo da Dio» (Lettera III). Potrebbe essere tranquillamente l’affermazione di un’analista cattolico dei nostri giorni; mentre si tratta di una constatazione fatta dallo Zaccaria cinquecento anni fa.

Ma ciò che meraviglia, oltre la modernità del linguaggio, è l’attualità delle intuizioni che ebbe questo Santo del Cinquecento. Si pensi, per esempio, alla valorizzazione della donna e del laicato e al loro coinvolgimento nell’opera di evangelizzazione. Un’intuizione che allora non fu capita: la Chiesa tridentina, comprensibilmente preoccupata della propria sopravvivenza, guardò con sospetto a tutto ciò che non rientrava negli schemi di un’organizzazione clericale della vita ecclesiale. Fu cosí che, nel 1552, le Angeliche furono costrette alla clausura e i Coniugati di San Paolo semplicemente scomparvero.

Oggi certe intuizioni, premature per quell’epoca, sono diventate patrimonio comune: il Concilio ha espressamente ricordato ai cristiani l’universale vocazione alla santità; la donna sta progressivamente trovando spazio nella Chiesa; i laici sono ormai diventati collaboratori indispensabili nell’attività pastorale. Missione compiuta, dunque? Sant’Antonio Maria Zaccaria non ha piú nulla da dire alla Chiesa di oggi? Se dovessimo pensare una cosa del genere, significherebbe che la nostra analisi della situazione attuale è molto superficiale. Significherebbe confondere i progetti, sapientemente elaborati, con la realtà vissuta. Significherebbe credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili o, se volete, nella migliore delle Chiese possibili. Significherebbe pensare che il rinnovamento della Chiesa promosso dal Concilio si esaurisca in una riforma strutturale ormai portata a termine e quindi non bisognosa di ulteriori interventi. Significherebbe chiudere gli occhi sulla realtà che ci circonda, tutt’altro che tranquillizzante. Significherebbe che, mentre, chiusi nelle sagrestie, ci compiacciamo dei risultati raggiunti, non ci accorgiamo che nel frattempo la società si sta sempre piú allontanando da Dio e dalla Chiesa.

Un tempo, il nostro, molto simile a quello in cui visse lo Zaccaria. Certo, i paragoni fra epoche storiche cosí distanti fra loro sono sempre rischiosi; ma è indubbio che esistano delle analogie fra la società cinquecentesca e la situazione attuale. Certamente non ritroviamo oggi gran parte delle “piaghe” della Chiesa di allora, ma ne ritroviamo altre, non meno pericolose. Per fare solo un esempio, volutamente provocatorio: noi ci scandalizziamo dell’immoralità del clero di allora; che cosa scriveranno di noi gli storici fra cinquecento anni, quando dovranno riferire dei molti preti che hanno abbandonato il sacerdozio per sposarsi, dell’omosessualità diffusa nei seminari e nei conventi, dello scandalo della pedofilia che ha occupato le prime pagine dei giornali in questi giorni? Siamo poi tanto migliori dei nostri confratelli di cinquecento anni fa?

Io credo che, se Antonio Maria vivesse oggi, senza stracciarsi le vesti, senza fustigare i costumi corrotti, senza fare il moralista alla Savonarola, individuerebbe senza esitazione il virus che, oggi come allora, colpisce la Chiesa: la tiepidezza. E, altrettanto prontamente, indicherebbe il rimedio: la santità.

Innanzi tutto, la santità intesa come stile di vita di chi, nella Chiesa, è chiamato a esercitare un ruolo di guida nei confronti dei suoi fratelli. Dice lo Zaccaria, rivolgendosi al “riformatore dei buoni costumi”, colui che avrebbe dovuto assumersi il compito di rinnovare la vita religiosa: «Bisogna che tu sia di cuore e animo grandi … Bisogna che, nella tua impresa, tu sia perseverante … Bisogna che tu sia di grandemente bassa umiltà … Bisogna che tu sia, per la molta meditazione e orazione, sempre sospeso … Bisogna che tu sia di grandemente buona e diritta intenzione … Bisogna che tu ti proponga di passare piú avanti e in cose piú perfette … Bisogna che sempre tu confidi nell’aiuto divino … le cose divine non siano trattate se non dai divini. Perciò il riformatore deve essere divino e santo» (Costituzioni XVIII).

In secondo luogo, la santità come ideale di vita coraggiosamente proposto ai fratelli. Scrive lo Zaccaria nella sua lettera-testamento, indirizzata a una coppia di sposi pochi giorni prima di morire: «Non pensate che l’amore che nutro per voi, né che le doti che possedete possano far sí che io desideri che siate santi piccoli. Vorrei, e desidero, e voi siete in grado, se volete, a diventare gran santi, purché vogliate sviluppare e restituire piú belle quelle doti e grazie al Crocifisso, dal quale le avete ricevute» (Lettera XI).


Non vorrei apparire polemico, ma credo che molti oggi si illudano che sia sufficiente il carcere per fare pulizia nella Chiesa. Per chi non lo sapesse, è un’esperienza già fatta: nel passato, oltre a esistere le prigioni dell’Inquisizione, esisteva anche un carcere in ogni monastero e in ogni convento. Eppure tutto ciò non è stato sufficiente per evitare o eliminare la corruzione dalla Chiesa. Finché non ci convinceremo che la Chiesa la si riforma con la santità, perderemo il nostro tempo. Prima ci siamo illusi che bastasse convocare un concilio e procedere a una serie di riforme strutturali; ora, vista l’inefficacia dei rimedi adottati, ci affidiamo alla giustizia (canonica o civile). Pensiamo che basterà questo per riformare la Chiesa? I santi ci invitano a imboccare una strada diversa. Speriamo che, come per il passato, anche la profonda crisi che stiamo attraversando sia il segno che si sta approssimando per la Chiesa una nuova primavera di santità.