Ormai non sono piú un ragazzo; gli anni continuano a passare. Fra i tanti inconvenienti dell’età che avanza, ci sono anche alcuni vantaggi: l’esperienza permette di guardare con un certo disincanto alle vicende della vita. Pensate alla politica: di tempo in tempo si presentano nuovi uomini e movimenti politici che ci promettono mari e monti; messi alla prova, dimostrano poi di essere in tutto e per tutto simili, se non peggiori di quanti li hanno preceduti.
Lo stesso sentimento di distacco provo in questi giorni a proposito dello IOR (l’Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana). Senza contare le vicende di anni lontani, di cui sono stato informato da altri che le avevano vissute, limitandomi a ciò che posso ricordare personalmente, sono stato testimone piú volte di annunciate radicali riforme dell’Istituto, sistematicamente risoltesi in un nulla di fatto (tanto che si è poi sentita l’esigenza di una successiva, ulteriore riforma). Per cui, quando sento proclami che d’ora in poi tutto cambierà, non ci credo piú, perché so che tutto rimarrà come prima. Né la cosa mi scandalizza piú di tanto, perché sono giunto alla conclusione che il mondo va, e sempre andrà, come deve andare.
Per questo, quando assunse la presidenza dello IOR Ettore Gotti Tedeschi, accolsi con una certa diffidenza i suoi propositi di svolta radicale nella gestione dell’Istituto. La Procura di Roma si è poi incaricata di dimostrare che le cose non stanno propriamente andando nel senso preannunciato dal presidente dello IOR. Naturalmente ci si giustifica adducendo come motivo gli effetti negativi delle passate gestioni.
È ovvio che tale tipo di giustificazione inevitabilmente provoca la reazione di chi è stato responsabile di quelle gestioni. È esattamente ciò che è avvenuto in questi giorni (si veda l’articolo di Repubblica del 1° novembre). L’ex-presidente dello IOR, Angelo Caloia, non ha gradito molto le esternazioni di Gotti Tedeschi e ha chiesto che gli sia data la possibilità di replicare alle sue insinuazioni dalle colonne dell’Osservatore Romano. Una richiesta — mi pare — piú che legittima. Spero vivamente che la direzione del giornale vaticano dia a Caloia la possibilità di fornire la sua versione dei fatti.
Gotti Tedeschi non si è dimostrato molto prudente in questa vicenda. Ma mi sembra che si sia dimostrato altrettanto imprudente nel promettere totale “trasparenza” nella gestione della banca vaticana. Ormai è diventata una moda parlare di trasparenza; ma il piú delle volte non ci si rende conto delle conseguenze che ciò può comportare. Tanto è vero che, nel medesimo articolo di Repubblica, si parla di una corsa ai ripari per tutelare una piú che legittima privacy. Ho l’impressione che talvolta non si considerino i risvolti di quel che si dice; sembra che si faccia di tutto per compiacere i media, adottandone il linguaggio; ma poi ci si accorge che, una volta imboccata quella strada, non si sa dove si va a finire. È dell’altro giorno la notizia che un gruppo di sopravvissuti all’Olocausto hanno chiesto all’Unione Europea che si indaghi sull’eventualità che lo IOR abbia svolto un ruolo nel trasferimento dei beni rubati dai nazisti ai deportati nei campi di concentramento (si veda l’articolo su La Stampa).
Prima di riempirci la bocca di certe espressioni (e, conseguentemente, adottare un determinato sistema di valori) prudenza vorrebbe che si riflettesse un attimino sul significato, l’origine e il fine di quelle espressioni. La “trasparenza”, che io sappia, non rientra fra le virtú umane e cristiane; si tratta di un “valore” di recente creazione. Se voi andate a cercare in un dizionario anche solo di qualche anno fa, non troverete il significato che noi diamo oggi a tale parola. Probabilmente l’idea di trasparenza ha cominciato a diffondersi al tempo di Gorbacev (già questo dovrebbe farci riflettere: la glasnost, una volta usata per smantellare il sistema sovietico, fu velocemente messa da parte). Ho l’impressione che la trasparenza venga reclamata solo quando ci si propone un preciso obiettivo (si pensi, per esempio, all’insistenza sulla trasparenza durante la campagna contro la pedofilia nella Chiesa). Un altro aspetto da considerare, poi, è che chi rivendica trasparenza è in genere il primo a non praticarla. Un esempio: gli ebrei continuano a chiedere l’apertura degli archivi vaticani sul pontificato di Pio XII, ma poi in Israele prolungano di venti anni il periodo di secretazione dei loro documenti (si veda l’articolo su Haaretz). Voglio dire: noi spesso siamo un po’ ingenui, e non ci accorgiamo che la richiesta di trasparenza, solitamente, nasconde secondi fini. Eppure Gesú ci aveva messi in guardia: «I figli di questo mondo verso i loro pari sono piú scaltri dei figli della luce» (Lc 16:8).
Che si debba parlare di giustizia e di onestà o anche, piú semplicemente, di correttezza e di rigore, sono d’accordo; ma quando si incomincia a parlare di “trasparenza”, meglio stare accorti. Se invece di farci belli con espressioni oggi alla moda, pensassimo a praticare la vecchia virtú della prudenza, forse faremmo meglio.