sabato 22 gennaio 2011

Ambiguità dove meno te le aspetti

Una delle critiche piú ricorrenti che vengono rivolte al Vaticano II da parte tradizionalista è quella di ambiguità nel linguaggio adottato. Il Concilio avrebbe abbandonato la rigorosa terminologia del magistero precedente per utilizzare espressioni volutamente ambigue, che possono, certo, essere interpretate correttamente, senza che però se ne possa escludere una interpretazione scorretta. L’esempio piú famoso di tale linguaggio ambiguo è l’affermazione contenuta in Lumen gentium 8: 

«Questa Chiesa [una, santa, cattolica e apostolica], costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui».

Giustamente si è fatto notare: che bisogno c’era di utilizzare il verbo “sussiste” (subsistit in), quando sarebbe stato cosí semplice usare la copula “è”? Il Catechismo di San Pio X diceva senza alcuna ambiguità:

«La Chiesa di Gesú Cristo è la Chiesa Cattolica Romana, perché essa sola è una, santa, cattolica e apostolica, quale Egli la volle» (n. 107).

C’è voluto un intervento della Congregazione per la dottrina della fede per chiarire che l’uso di quella espressione non modificava la dottrina tradizionale, ma voleva solo mettere in luce la presenza di “numerosi elementi di santificazione e di verità” anche al di fuori della compagine della Chiesa cattolica.

Dalla chiarificazione del Sant’Uffizio risulta evidente il motivo che ha spinto il Concilio ad adottare un linguaggio diverso rispetto a quello tradizionale: mettere in risalto degli aspetti che il linguaggio tradizionale, cosí rigoroso, impediva che emergessero. Un intento in linea col carattere “pastorale” proprio del Vaticano II. 

A tale motivazione personalmente ne aggiungerei un altro paio. In primo luogo direi che il Concilio ha voluto recuperare una ricchezza di linguaggio che, col passare dei secoli, si era andata perdendo, proprio per la preoccupazione di precisare i concetti. Una preoccupazione legittima, dal momento che si trattava di definire il contenuto della fede di fronte alle deviazioni dell’eresia. Bisogna però serenamente riconoscere che tale processo aveva gradualmente portato a una certa aridità. Tanto per intenderci, molti teologi avevano sostituito la Bibbia col “Denzinger”. Ecco dunque il bisogno di tornare alle fonti della rivelazione, specialmente alla Scrittura e ai Santi Padri, per ridare vita a un linguaggio che si era progressivamente cristallizzato, se non addirittura fossilizzato. In un certo senso, il Vaticano II ha percorso un cammino a ritroso, per recuperare ciò che nel corso dei secoli si era potuto perdere lungo la strada. Il rischio, inevitabile, era quello di recuperare, insieme con la ricchezza del linguaggio, anche una certa ambiguità.

Un altro motivo, piú pratico, era quello di mettere d’accordo tante posizioni diverse. Il Concilio si è svolto nel momento forse meno opportuno per la Chiesa. Non è vero, come pensano i tradizionalisti, che fino al Vaticano II nella Chiesa tutto andava bene e che il Concilio avrebbe provocato in essa ogni sorta di disordine. La Chiesa in quel momento storico era in piena ebollizione. Come ho avuto già occasione di dire, il Concilio non ha provocato la crisi, ma è piuttosto frutto di una crisi già in corso. Durante le discussioni conciliari è emerso il malessere che serpeggiava nella Chiesa e si è creata una polarizzazione fra le posizioni piú innovative e quelle piú conservatrici. Solo una visione superficiale della realtà potrebbe pensare che fosse facile evitare o anche solo comporre quelle contrapposizioni. Fu un lavoro estremamente difficile riuscire a mettere insieme posizioni tanto radicalmente divergenti; ma, a poco a poco, si riuscí a giungere a delle soluzioni di compromesso (i documenti conciliari), sui quali la totalità dei Padri si trovò d’accordo. È ovvio che, per trovare un compromesso, fu inevitabile ricorrere a espressioni un tantino ambigue. Fu un compromesso accettato da tutti, anche da Mons. Lefebvre (che firmò tutti i documenti conciliari), il quale evidentemente pensava che si sarebbe potuta dare un’interpretazione ortodossa del Concilio.

Ai nostri giorni, dopo aver assistito a ciò che è avvenuto nel post-Concilio, durante il quale i passaggi ambigui sono stati per lo piú interpretati in senso innovativo, alcuni ritengono che sia giunto il momento di dare un’interpretazione “autentica” del Vaticano II, precisando, appunto, il senso esatto delle espressioni ambigue in esso contenute. Qualcuno è giunto al punto di auspicare la pubblicazione di un nuovo ”Sillabo”. Non voglio, almeno per il momento, entrare nel merito della questione.

Desta piuttosto meraviglia che si trovino ambiguità dove meno te le aspetteresti. Proprio ieri il blog Disputationes theologicae ha pubblicato un post a proposito delle ambiguità esistenti all’interno della Fraternità sacerdotale di San Pio X. Da una parte si intraprendono colloqui per giungere a una piena comunione con la Chiesa cattolica e dall’altra si permette la pubblicazione di articoli che sono «una magistrale dichiarazione di scisma». Bisognerà che chi denuncia le ambiguità attualmente presenti nella Chiesa cattolica provveda innanzi tutto a eliminare le ambiguità presenti in casa propria.

martedì 18 gennaio 2011

Tutti i Papi da canonizzare?

Su questo blog mi sono già occupato piú volte del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II: rispettivamente il 2 giugno 2009, il 2 gennaio 2010  e il 5 marzo 2010. Quanto dovevo dire, l’ho detto in tempi non sospetti, e pertanto ora potrei starmene tranquillo e limitarmi a constatare con piacere che alcune delle idee che esprimevo (allora controcorrente) vengono ora condivise da molti. In particolare, prendo atto con una certa soddisfazione che la distinzione fra “santità personale” e “scelte operative”, che in un primo momento sembrava dovesse essere applicata soltanto a Pio IX, Pio X e Pio XII, incomincia a essere usata anche nei confronti di Giovanni Paolo II.

Giunti a questo punto, però, con la firma del decreto di beatificazione da parte di Benedetto XVI, non ho alcuna difficoltà ad accettare il giudizio della Chiesa sulla santità di Giovanni Paolo II. Un giudizio che, oltre a fondarsi sui processi canonici (sul rigore dei quali è lecito nutrire qualche perplessità), trova secondo me una prova irrefutabile nel fatto che Wojtyla fu spiato per decenni dai servizi segreti comunisti, senza che essi riuscissero mai a incastrarlo in alcun modo: se solo ci fosse stata una seppur minima ombra nella sua vita personale, pensate che non ne avrebbero approfittato per distruggerne l’immagine?

Mi pare però che non sia fuori luogo interrogarsi su una questione che è stata posta nei giorni scorsi da Étienne Fouilloux su Le Monde. Lo storico francese fa una semplice constatazione storica: la tendenza a canonizzare i Papi è un fenomeno nuovo nella storia della Chiesa. Prima di Pio IX l’ultimo Papa divenuto santo era stato Pio V, che risale al Cinquecento. Dopo Pio IX sembrerebbe che tutti i Papi debbano essere canonizzati; solo di tre di loro non è in corso il processo di beatificazione: Leone XIII, Benedetto XV e Pio XI. E Fouilloux ne spiega i motivi (personalmente ritengo che Papa Ratti cadde in disgrazia non per aver sottoscritto i Patti Lateranensi, ma, al contrario, per aver rotto col regime fascista). Fouilloux dà una spiegazione “politica” del fenomeno: si tratterebbe di «una forma di autogiustificazione del papato». Si può discutere su tale interpretazione, anche se mi sembra che non le manchi un fondo di verità. 

Ma, al di là della validità o meno di tale interpretazione, rimane il fatto, sul quale mi pare piú che lecito interrogarsi: è davvero necessario procedere alla canonizzazione di tutti i Papi? Non metto in discussione la santità personale degli ultimi Papi, ma mi pongo alcune domande.

1. Se, come pare, bisogna distinguere fra “santità personale” e “scelte operative”, e se non sono queste ultime a determinare la canonizzazione (visto che su di esse si può liberamente discutere), la santità personale degli ultimi Papi è cosí straordinaria da meritare il riconoscimento ufficiale della Chiesa? Non ci sono nella Chiesa persone piú sante di loro, che pure non arrivano (o non sono ancora arrivate) all’onore degli altari? Tanto per fare un paio di esempi, Mons. Giuseppe Canovai, un diplomatico come Roncalli, non potrebbe essere piú santo di quest’ultimo? E il Card. Stefan Wyszyński non potrebbe essere piú santo del suo figlio spirituale Wojtyla? 

2. Si direbbe dunque che gli ultimi Papi vengono canonizzati non perché erano piú santi di altri, ma semplicemente perché sono diventati Papi. Si ha l’impressione che il pontificato sia diventato una specie di “lasciapassare” verso la beatificazione. Si potrà contestare a Fouilloux che la decisione di canonizzare i Papi sia una decisione “politica”; ma non si può contestare che è “politica” la decisione di non introdurre il processo di beatificazione di alcuni di loro: che cosa impedisce di considerare santi Leone XIII, Benedetto XV e Pio XI? Non credo che basti dire che Papa Ratti aveva un caratteraccio (anche San Girolamo lo aveva). Sappiamo il giudizio che dànno di Pio XI Don Divo Barsotti e il Card. Giacomo Biffi: il Papa piú grande non solo del secolo ventesimo, ma di tutti gli ultimi secoli (G. Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, 1ª ed., p. 51). 

3. Vox populi, vox Dei! Qualcuno obietterà che la Chiesa non fa che riconoscere la “fama di santità” goduta dai Papi. Personalmente avrei qualche perplessità. Stiamo attenti a non confondere la vera devozione (si pensi, solo per fare un esempio, a quella per Padre Pio) con le reazioni emotive passeggiere, provocate spesso, soprattutto ai nostri giorni, dai mezzi di comunicazione. Non ho l’impressione che i fedeli abbiano grande devozione per Pio IX; anche nei confronti di Giovanni XXIII non esiste piú la venerazione che c’era negli anni immediatamente successivi alla sua morte. Temo che fra qualche anno, una volta scomparsa la generazione che lo ha conosciuto, possa succedere lo stesso anche con Giovanni Paolo II.

4. Proprio per il motivo appena espresso, non mi sembra fondato il timore di “papolatria” o di “culto della personalità”. Sta di fatto però che la tendenza attualmente presente nella Chiesa cattolica non aiuta certo lo sforzo ecumenico in corso. D’accordo che non dobbiamo rinunciare a nulla di quanto è autenticamente cattolico solo per “fare un piacere” ai fratelli separati; ma penso che sarebbe opportuno evitare quanto potrebbe provocare un loro rigetto, soprattutto se si tratta di fenomeni nuovi. Se è vero che il terreno piú adatto per l’ecumenismo è la tradizione, sarebbe opportuno ritornare, anche per quanto riguarda il papato, alla tradizione. Non c’è dubbio che il Papa svolga nella Chiesa un ruolo fondamentale; ma non è necessario, perché esso sia pubblicamente riconosciuto, ornarlo in tutti i casi col fastigio della canonizzazione. Questa dovrebbe rimanere, a mio modesto avviso, un’eccezione, da riservarsi solo ad alcuni casi straordinari, che per forza di cose non possono essere vagliati nel giro di sei anni.

giovedì 13 gennaio 2011

“La verità vi farà liberi”

Noto con soddisfazione che, finalmente, si incomincia a parlare delle persecuzioni contro i cristiani; che non solo il Papa, con grande coraggio, ha fatto sua l’espressione “cristianofobia”, ma che anche alcuni governi (fra cui, in primis, quello italiano) si stanno adoperando perché l’Europa prenda posizione su tale questione. Era ora che si aprissero gli occhi sulla realtà: il cristianesimo è di fatto la religione piú perseguitata di tutti i tempi.

Ma, proprio perché dobbiamo aprirci alla realtà cosí come essa effettivamente è, mi pare quanto mai opportuno l’invito che Vittorio Messori ha rivolto una settimana fa dalle colonne del Corriere della sera. Nel suo articolo, lo scrittore cattolico, onde evitare estremismi e spiriti di crociata, ci raccomandava lo studio della storia: «La storia — ricordava Croce — non è mai in bianco e nero, non è la lotta dei cattivi contro i buoni, ma è un palcoscenico dove vittime e carnefici si scambiano i ruoli appena possono». Sí, ammetto che forse può apparire di cattivo gusto rammentare tale verità proprio di fronte al massacro di vittime innocenti; ma, siccome in questo momento si corre un grosso rischio, quello di credere inevitabile uno “scontro di civiltà”, non mi sembra fuori luogo che qualcuno ci ricordi di considerare la storia in tutti i suoi risvolti, anche in quelli meno piacevoli.

Messori ha richiamato brevemente la storia dei cristiani d’Egitto, i quali, nel VII secolo, stanchi del dominio bizantino (cristiano), non respinsero gli arabi come invasori, ma li accolsero come liberatori. Un fenomeno ricorrente nella storia: Messori menziona anche il caso della Spagna; aggiungo io quello della caduta di Costantinopoli, quando i bizantini preferirono il dominio turco a quello del Papa (la riunificazione della Chiesa ortodossa con quella cattolica era stata già decisa dal Concilio di Firenze). Sono fatti storici, dolorosi, ma reali: perché far finta che non siano mai avvenuti? Che cosa si guadagna a censurare la storia?

Eppure a qualcuno l’intervento di Messori ha dato fastidio: “Ma Messori sta col Papa o col Grande Imam?” si è chiesto Antonio Socci nell’articolo pubblicato all’indomani su Libero. Capisco che si possano dare spiegazioni diverse di quanto sta accadendo ai cristiani in Medio Oriente; ammetto che alcune valutazioni di Messori si possano legittimamente discutere. Ciò che non comprendo è la reazione scomposta di Socci, che sembrerebbe contestare a Messori il diritto stesso di fare certe riflessioni: «Perché scrivere editoriali di quel genere?».

Che cosa rimprovera Socci a Messori? Non solo di averci rammentato la complessità della storia, ma anche — e si direbbe soprattutto — di aver accennato, fra i motivi che hanno rotto l’equilibrio che esisteva nel mondo arabo, all’«intrusione violenta del sionismo» in Medio Oriente. Che anche quest’affermazione sia opinabile, è fuori discussione; ma perché stracciarsi le vesti se qualcuno aggiunge anche questo elemento alla riflessione? Sembrerebbe quasi che la grande preoccupazione di Socci, piú che quella di difendere i cristiani, sia quella di difendere il sionismo («che non c’entra assolutamente niente con l’attentato alla cattedrale cristiana di Alessandria»). Mi chiedo poi come possa dirsi fautore degli incontri di Assisi uno che, per spiegare la storia, fa riferimento a Samuel Huntington, il politologo che ha teorizzato lo “scontro di civiltà”.

Chissà che cosa avrebbe da ridire Socci se leggesse il commento di Franco Cardini, “Cristiani perseguitati”, pubblicato ieri sul suo sito. Altro che Messori! Cardini, nel suo scritto, è ancor piú brutale nel rammentarci le pagine piú buie della nostra storia. Eppure, è giusto che qualcuno ce le ricordi.

«La verità vi farà liberi» (Gv 8:32), ci ha ripetuto piú volte il Santo Padre nei mesi scorsi, durante la bufera provocata dagli abusi del clero. La verità ci farà liberi anche in questo caso. Non possiamo ignorare le colpe che abbiamo come cristiani e come occidentali. Se vogliamo vivere in pace con tutti, se vogliamo che i nostri fratelli siano rispettati, è necessario che, per primi, riconosciamo le nostre responsabilità.

lunedì 3 gennaio 2011

Ancora su parola di Dio e liturgia

Il Signor Paolo Gobbini, dopo aver letto i miei post del 27 e del 28 dicembre, mi ha inviato alcune riflessioni, che mi sembrano meritevoli di attenzione:


«Ho letto il post del 28 dicembre dedicato alla manomissione del Salterio. A mio avviso la censura del Salterio è molto grave, è un vulnus che al piú presto deve essere sanato. Viceversa bisogna riabilitare Marcione. A tal proposito le invio l’appello che ho rivolto a Sua Santità Benedetto XVI e al mio Vescovo Luciano (Monari) in occasione della sua recente visita a Brescia.

Alle brevi riflessioni che ho svolto nell’appello, e dopo aver letto di René Girard Vedo Satana cadere come la folgore (pp. 157s), aggiungerei il seguente motivo per reintrodurre quanto prima i tre Salmi e i sessanta versetti deprecatori censurati: essi sono la voce delle vittime innocenti che protestano contro la violenza ingiusta cui sono sottoposte. Voce che spesso è zittita perché non la si vuole ascoltare. Essa scuote le fragili coscienze dei loro assassini, è la voce del sangue di Abele che grida a Dio dalla terra e invoca giustizia! Non possiamo farlo tacere, ma dobbiamo urlarlo, implorando a Dio la giustizia come la vedova importuna lodata da Gesú e presa a modello della preghiera perseverante. Quante vittime innocenti nel secolo XX sono state uccise e tragicamente la Chiesa ha anche rinunciato a dar loro voce nella sua preghiera! Milioni di uomini eliminati nei genocidi armeno, ebraico, kulaco, cambogiano, hutu-tutsi, jugoslavo, nel Darfur e soprattutto i bambini non nati uccisi ancora nel grembo materno.

Riguardo al tema del rapporto tra Parola di Dio e Liturgia da cui è scaturito il post, mi permetto di aggiungere un’altra osservazione allegandole l’appello rivolto al Papa e al mio Vescovo per rivedere i criteri di scelta della seconda lettura che spesso è slegata da ogni connessione con il Vangelo e quindi con la prima lettura».


I problemi dunque sono due: uno, la reintroduzione dei salmi imprecatori; l’altro, la revisione del Lezionario. Affrontiamoli separatamente. Per ciascuno dei due il Signor Gobbini ha allegato un “appello”.


1. Salmi imprecatori

«Nel Salterio pregato durante l’Ufficio Divino “sono stati omessi alcuni salmi e versetti dall’espressione alquanto dura, tenendo presenti specialmente le difficoltà che potrebbero nascere dalla loro celebrazione in una lingua moderna” (Costituzione apostolica Laudis canticum, n. 4). I Salmi sono tre: 58(57); 83(82); 109(108); ed i versetti sono sessantuno: 5,11; 21(20),9-13; 28(27),4-5; 31(30),18-19; 35(34),3ab.4-8.20-21.24-26; 40(39),15-16; 54(53),7; 55(54),16; 56(55),8; 59(58),6-9.12-16; 63(62),10-12; 69(68),23-29; 79(78),6-7.12; 110(109),6; 137(136),7-9; 139(138),19-22; 140(139),10-12; 141(140),10; 143(142),12.

La Costituzione Apostolica Laudis Canticum afferma che il salmista adopera “espressioni alquanto dure”, espressioni che, se da un lato sembrano contraddire il comando evangelico: “Benedite e non maledite” (Lc 6,28), d’altro canto sono perfettamente coerenti con le durissime parole pronunciate da Gesú stesso per scuotere i cuori piú duri, ad esempio: Mt 11,21-24; 15,24-26; 18,6.32-35; 21,18-19.44; 23,13-36; 25,41-46.

I Principi e Norme per la Liturgia delle Ore giustificano cosí la scelta di omettere i salmi imprecatori: “L’omissione di questi testi è dovuta unicamente ad una certa qual difficoltà psicologica. Infatti questi stessi salmi imprecatori si trovano nella pietà del NT […] ed in nessun modo intendono indurre a maledire” (n. 131). Difficoltà psicologica che è facilmente superabile con la spiegazione dei testi, spiegazione che gli stessi Principi e Norme già presuppongono, dato che offrono due suggerimenti. Il primo suggerimento: “Questi stessi salmi imprecatori si trovano nella pietà del NT”, per esempio in Ap 6,10,  vuole evitare l’errore marcionita dell’anti-ebraicità, errore che, giudicando superati i duri testi imprecatori, contrappone l’AT al NT. Il secondo suggerimento: “In nessun modo intendono indurre a maledire”, afferma che cosa non vuole il bimillenario uso cristiano dei Salmi imprecatori; il problema è caso mai di spiegare che cosa vuole l’uso cristiano, per esempio: scuotere la coscienza addormentata a convertirsi dagli idoli al Dio vivente, che è fuoco divorante.

La Scrittura va letta e pregata nella sua integrità, senza pretendere di giudicarla, ma lasciandosi giudicare da essa. Il veggente dell’Apocalisse deve mangiare un rotolo che in bocca è dolce e poi nelle viscere risulta amaro (Ap 10,10), cosí è la Parola di Dio: non è solo fonte di gioia, ma anche urticante. Dolce per consolare, dura per scuotere. Eliminando dalla preghiera ufficiale della Chiesa una parte del libro dei Salmi, quella meno sopportabile al nostro gusto moderno, a mio avviso, si è compiuto un duplice peccato. Innanzitutto, un atto di superbia contro Dio, pretendendo di dire a Dio cosa vogliamo ascoltare e cosa Egli dovrebbe dirci, cadendo nella tentazione diabolica già subita da Pietro e dai discepoli (Mt 16,22-23; Gv 6,60). Questo fu l’errore di Marcione, quando rifiutò l’unità della Bibbia e selezionò in base alle sue preferenze i libri sacri. Marcione però, fu almeno piú coerente, mentre noi risultiamo un poco vigliacchetti; non potendo eliminare i salmi imprecatori dalla sacra Scrittura, li escludiamo dall’uso liturgico, ottenendo con meno fatica lo stesso risultato. Inoltre tale censura della Scrittura manifesta un peccato di omissione da parte dei pastori della Chiesa che rinunciano a spiegare il significato dei Salmi imprecatori: il loro senso storico ed il senso teologico, poiché: “Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tm 3,16). La preghiera rivela sempre, nel bene e nel male, cosa c’è nel cuore di chi prega, e con la conoscenza di quel che si è in verità, il Signore dona anche la forza di cambiare, ovvero lo spirito, a chi persevera umilmente nella preghiera, infatti: “Il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23).

Perciò rivolgo un umile appello a Sua Santità di reintrodurre i testi imprecatori nel Salterio pregato».


Non ho molto da aggiungere a queste considerazioni, che condivido. Non posso che fare mio l’auspicio che i salmi imprecatori siano ripristinati quanto prima nella liturgia della Chiesa.


2. Il Lezionario

«L’Ordo Lectionum Missae utilizza due criteri nella scelta delle letture della s. Messa:
1. la lectio continua di un libro
2. in funzione del brano evangelico (lectio evangelica)

Il criterio della lectio continua guida la scelta del brano Evangelico, della seconda lettura e, durante il tempo pasquale, anche della prima lettura (Atti). Il criterio della lectio evangelica presiede quasi sempre alla scelta della prima lettura che, fatta salva l’eccezione del tempo pasquale, è preso dall’Antico Testamento, brano scelto in funzione del Vangelo. Il legame tra queste due letture è importantissimo. Domenica dopo domenica viene dispiegata l’unità inscindibile di tutta la Scrittura, affermando la necessità di tutta la Scrittura per confessare che Gesú morto in croce è veramente risorto e come tale è il Signore della Chiesa, della storia umana e del cosmo. Ciò avvenne per la prima volta lungo la strada di Emmaus, quando Gesú “cominciando da Mosé e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27) e continua ad avvenire nella Liturgia della Parola e nella confessione della fede “secondo le scritture” (1 Cor 15,3s).

Purtroppo la seconda lettura solo talvolta è legata al binomio Vangelo-prima lettura. Ciò avviene nelle undici domeniche di Avvento, Natale e Quaresima, durante la Settimana Santa e nelle Solennità. Ma piú spesso l’epistola è slegata dal binomio Vangelo-prima lettura, come accade nelle sette domeniche del tempo pasquale e nelle trentatré del tempo ordinario, quando secondo il criterio della lectio continua vengono lette le epistole apostoliche. Cosicché l’unità delle Scritture appena affermata dal legame reciproco AT-Vangelo, è contraddetta dal brano della seconda lettura slegato dal binomio prima lettura-Vangelo.

Quest’appello ripropone e rilancia la proposta fatta originariamente dal grande liturgista Adrien Nocent (Les deuxiemes lectures des dimanches ordinaires, in Ecclesia Orans 2 [1991], pp. 125-136), proposta cui aderisce anche la Comunità di Bose (La preghiera dei giorni, a cura della Comunità di Bose, Presentazione p. XV, Gribaudi, Torino 1993), e che consiste nell’utilizzare il solo criterio della lectio evangelica anche nella scelta del brano della seconda lettura, limitando il criterio della lectio continua alla scelta del brano Evangelico».


A proposito di questa proposta di revisione del Lezionario, penso che ci sia da aggiungere qualcosa. Va innanzi tutto ricordato che una delle proposizioni finali del Sinodo riguardava proprio questo problema:

«Si raccomanda che si dia avvio ad un esame del Lezionario romano per vedere se l’attuale selezione e ordinamento delle letture è veramente adeguato alla missione della Chiesa in questo momento storico. In particolare, il legame della lettura dell’Antico Testamento con la pericope evangelica dovrebbe essere riconsiderato, in modo che non implichi una lettura troppo restrittiva dell’Antico Testamento o un’esclusione di alcuni brani importanti[…]» (n. 16).

Il n. 57 dell’esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini risponde, negativamente, a tale proposta:

«La riforma voluta dal Concilio Vaticano II (SC 107-108) ha mostrato i suoi frutti arricchendo l’accesso alla sacra Scrittura che viene offerta in abbondanza, soprattutto nelle liturgie domenicali. L’attuale struttura, oltre a presentare frequentemente i testi piú importanti della Scrittura, favorisce la comprensione dell’unità del piano divino, mediante la correlazione tra le letture dell’Antico e del Nuovo Testamento, “incentrata in Cristo e nel suo mistero pasquale” (Ordinamento delle letture della Messa, n. 66). Talune difficoltà che permangono nel cogliere le relazioni tra le letture dei due Testamenti devono essere considerate alla luce della lettura canonica, ossia dell’unità intrinseca di tutta la Bibbia. Là dove se ne riscontra la necessità, gli organi competenti possono provvedere alla pubblicazione di sussidi che facilitino a comprendere il nesso tra le letture proposte dal Lezionario, le quali devono essere tutte proclamate all’assemblea liturgica, come previste dalla liturgia del giorno. Eventuali altri problemi e difficoltà vengano segnalati alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti».

Personalmente, io non vedo l’urgenza di una revisione del Lezionario, che per me va bene cosí com’è. Non voglio dire che sia perfetto; ma penso che un qualsiasi intervento sia opera estremamente rischiosa. Ritengo che, prima di por mano a eventuali riforme, dovremmo sforzarci di sfruttare le ricchezze dell’attuale Lezionario. È vero che non sempre c’è armonia fra le letture; ma… perché dovrebbe esserci? Lasciamo che la parola di Dio ci parli nella sua infinita varietà.

Non è necessario che il sacerdote, nella sua omelia, metta sempre d’accordo tutte e tre le letture che sono state annunciate. Talvolta può essere sufficiente soffermarsi anche solo su un punto di una di esse. Normalmente io commento unicamente il vangelo; se capita, faccio qualche riferimento agli altri testi. 

Molti anni fa, ricordo, dovendo celebrare la Messa vespertina sia il sabato sia la domenica, adottai questo criterio: il sabato commentavo la seconda lettura e la domenica il vangelo. Negli anni in cui ero responsabile della formazione dei seminaristi nelle Filippine, invece, per non lasciar cadere nel vuoto la seconda lettura (in genere tratta da san Paolo, nostro patrono), decisi di riprenderla durante la celebrazione dei Vespri, affidando ogni domenica a uno dei seminaristi il compito di preparare una riflessione sul testo (il che doveva naturalmente servire anche come allenamento alla predicazione). Allo stesso modo, penso che si possano trovare altre soluzioni per valorizzare l’abbondanza della parola di Dio che abbiamo a disposizione. 

Ciò che conta è non aver la pretesa di capire tutto subito. Molto sapientemente ci ammonisce sant’Efrem: 

«Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non contristarti per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, potrai riceverlo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere la pretesa di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a piú riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po’ alla volta» (Commenti al Diatesseron, 1).

domenica 2 gennaio 2011

Come non detto

Due giorni fa ho pubblicato l’articolo Il “cortile dei gentili” (che era stato scritto nel mese di ottobre per l’Eco dei Barnabiti), nel quale facevo riferimento anche al dialogo interreligioso e allo “spirito di Assisi”, sottolineando le differenze tra il pontificato di Benedetto XVI e quello di Giovanni Paolo II. Fra l’altro, affermavo: «Il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger è diventato Papa Benedetto XVI; e da allora non ci sono state, come era prevedibile, nuove giornate di Assisi». Era sottinteso: Non ci sono state — e non ci saranno piú! — nuove giornate di Assisi.

E invece ieri sono stato smentito: il Papa, durante l’Angelus di Capodanno, ha annunciato che a ottobre si recherà ad Assisi per una nuova Giornata mondiale di preghiera per la pace, in occasione del 25° anniversario della prima, nel 1986. Se devo essere sincero, ci sono rimasto male. Non perché consideri “eretiche” questo tipo di iniziative: è ovvio che i Pontefici, nell’intraprenderle, lo fanno con le migliori intenzioni e mettendo bene in chiaro lo spirito che le deve animare. Ma non è questo il punto.

Il problema è un altro (ed è ricorrente, purtroppo): che cosa “passa” al grande pubblico, di queste iniziative? che cosa rimane nell’immaginario collettivo? L’idea che una religione vale l’altra. Ovviamente il Papa non vuole che passi questo messaggio; ma di fatto è ciò che succede. L’uomo non comunica solo con le parole, ma anche con i gesti. E i gesti, il piú delle volte, sono ambigui. È per questo che vanno spiegati; ma molto spesso anche la spiegazione piú precisa non è sufficiente: talvolta sono necessari gesti di segno opposto per far passare il messaggio giusto.

Mi spiego. Quando la Chiesa, nel Concilio di Trento, si oppose all’uso della lingua volgare nella liturgia o alla comunione sotto le due specie, non lo fece perché tali cose, in sé stesse, fossero cattive (tanto è vero che attualmente noi le pratichiamo senza problemi); ma semplicemente perché esse avrebbero veicolato il messaggio sbagliato: la Messa vale solo se i fedeli capiscono ciò che si dice (agisce ex opere operantis); la comunione sotto una sola specie non è completa. E allora che fece la Chiesa? Spiegò, certo, la retta dottrina (i sacramenti sono efficaci di per sé, agiscono ex opere operato; Cristo è presente nella sua pienezza sotto ciascuna delle specie eucaristiche); ma a ciò aggiunse l’obbligo di celebrare la Messa in latino e di ricevere la comunione sotto la sola specie del pane. A quell’epoca non si parlava di pastorale, ma si aveva un senso pastorale che noi ci sogniamo. Oggi ci riempiamo la bocca di pastorale, ma poi non ci rendiamo conto di quanta confusione possono provocare certe iniziative.

Qualcosa del genere è accaduto anche con il libro-intervista Luce del mondo. Soprattutto dopo la precisazione della Congregazione per la dottrina della fede, si può difficilmente affermare che la risposta del Papa a proposito del preservativo fosse moralmente erronea. Il problema è ancora una volta: qual è il messaggio che è passato alla gente? Che l’uso del profilattico, almeno in certe situazioni, è giustificato. In barba alle reali parole pronunciate dal Papa, alle precisazioni di Padre Lombardi e alle note dottrinali del Sant’Uffizio!

Ma mi veniva da fare anche un’altra considerazione. C’è qualcuno che si chiede se Benedetto XVI e il Card. Ratzinger siano la stessa persona. Talvolta, confesso, me lo sono chiesto anch’io. Ma poi ho allargato la riflessione al passato (ormai comincio a non essere piú tanto giovane), e mi sono accorto che quanto sta accadendo al pontificato di Benedetto XVI è, piú o meno, lo stesso che accadde anche al pontificato di Giovanni Paolo II. Anche allora, quante attese, quante speranze all’inizio del pontificato! E poi, a poco a poco, quel pontificato si appiattí sull’ortodossia del “politicamente corretto”. Ho l’impressione che stia succedendo la stessa cosa anche oggi. Non nascondo di essere stato fra i “tifosi” del Card. Ratzinger durante il conclave (nonostante che molti escludessero in maniera categorica la sua elezione). Non potete immaginare la gioia di vederlo alla loggia di San Pietro quel 19 aprile 2005. Ancora una volta tante attese, tante speranze… E ancora una volta mi pare che si stia compiendo il progressivo adeguamento al “politicamente corretto”. Non vorrei essere frainteso: non sto muovendo accuse né a Giovanni Paolo II né a Benedetto XVI; sto semplicemente facendo una constatazione e cercando di comprendere il motivo che può spiegarla.

Una risposta abbastanza semplice potrebbe essere: beh, man mano che si sale in alto, si ha una visione sempre piú ampia della realtà; certe cose che non si possono capire da soldati semplici, si riescono a capire una volta divenuti ufficiali. Può darsi che sia cosí. 

Non escluderei però che ci possa essere anche una spiegazione d’altro genere, diciamo di carattere “cospirativo” (sono un inguaribile complottista). Nessuno mi toglierà di mente che il Potere cerchi di attuare, nei confronti di ciascun pontificato, una sorta di “normalizzazione”. Che cos’è stato, in fondo, l’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981? Con Benedetto XVI non si è fatto ricorso alle armi da fuoco, ma ad armi non meno lesive (i processi mediatici): i primi cinque anni di pontificato sono stati un attacco continuo, che non può essere considerato casuale; è ovvio che dietro c’era una regia ben organizzata. 

A un certo punto, sia nel caso di Papa Wojtyla, sia nel caso di Papa Ratzinger, tutto è cambiato. Nel primo caso, la seconda parte del pontificato è stata una continua apoteosi, culminata nel “Santo subito!” dei funerali. Ora, non so se ve ne siate accorti, da qualche tempo le cose stanno cambiando anche per Benedetto XVI: gli attacchi sono improvvisamente cessati; il Corriere della sera sembra diventato un’edizione locale dell’Osservatore Romano e la BBC una sezione staccata della Radio Vaticana. Che cosa è successo? Il Papa sta semplicemente recitando lo stesso copione che era stato scritto per il suo predecessore (visita alle sinagoghe e alle moschee, visita ad Auschwitz e allo Yad Vashem, giornate di preghiera con le altre religioni, ecc.). Cosí va bene: questo è il Papa che piace a chi ha in mano le sorti dell’umanità. A questo punto Benedetto XVI può anche permettersi il lusso di fare il tradizionalista in campo liturgico: un po’ di folclore non guasta...

Che dire? Cosí va il mondo. E forse dobbiamo farci il callo. Dopo tutto, la Chiesa è sopravvissuta a due Giornate di Assisi; volete che non sopravviva alla terza?