La disputa sul Concilio fra il sottoscritto e “Cesare Baronio” non accenna ad affievolirsi. Monsignore ha replicato al mio post del 31 gennaio con una dettagliata confutazione delle mie affermazioni (qui). Credo che, giunti a questo punto, serva a poco continuare a controbattere punto per punto. Penso che ormai le posizioni siano chiare: su alcuni punti ci troviamo d’accordo; su altri invece siamo irrimediabilmente discordi. La divergenza di fondo sta nel fatto che, mentre Baronio è convinto che siano state inserite deliberatamente nei testi conciliari delle ambiguità, in modo che successivamente al Concilio si potesse procedere alla demolizione della Chiesa secondo un piano prestabilito, io ritengo che il piano ci fosse, riconosco che nei documenti conciliari ci possano essere alcune ambiguità (inevitabili in un concilio pastorale), ma non credo che ci sia stata, da parte dei Padri conciliari (per lo meno da parte della maggioranza di loro) una intenzionale volontà di destabilizzare la Chiesa, come pure sono profondamente convinto che i Papi del postconcilio non abbiano in alcun modo contribuito alla demolizione della Chiesa, ma abbiano al contrario fatto di tutto per difendere la fede cattolica e, semmai, ricostruire ciò che era stato demolito. Queste sono le posizioni, ormai abbastanza chiare. Continuare a discutere su di esse rischierebbe di sfociare in un dialogo fra sordi o, peggio, in una stucchevole e sterile polemica.
Se proprio si volesse fare un lavoro utile, bisognerebbe incominciare ad approfondire in maniera rigorosa, oltre la questione dell’ambiguità dei testi conciliari (innegabile, ma a mio parere da non generalizzare), i singoli punti che di solito vengono messi in discussione, e che sono meno di quanto in genere si creda: collegialità, riforma liturgica, libertà religiosa, dialogo interreligioso. Ma si tratta di un lavoro estremamente impegnativo, che andrebbe fatto in una sede diversa e che in questo momento non mi sento di affrontare. Qui mi limiterò a notare che quelle tematiche non possono essere messe sullo stesso piano: un conto è la collegialità (che è una questione squisitamente dogmatica), un altro conto è la riforma liturgica (sulla cui attuazione si può tranquillamente discutere), un altro conto ancora sono la libertà religiosa e il dialogo interreligioso (questioni su cui ritengo assolutamente legittimo nutrire delle riserve). A questo proposito, non va trascurata la diversa natura dei documenti in cui le quattro questioni vengono trattate: si va dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium), alla Costituzione (senza aggettivi) sulla sacra Liturgia (Sacrosanctum Concilium), alle due Dichiarazioni sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) e sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane (Nostra aetate).
Mi sembra invece piú utile riprendere la conclusione del mio post precedente, che ha forse bisogno di chiarimenti e ulteriori approfondimenti. Scrivevo:
Sono convinto che, per opporsi all’attuale deriva, non si possono continuare a usare le armi spuntate della neoscolastica preconciliare. È come pretendere di abbattere un drone telecomandato con l’archibugio. Ma prima ancora di combattere gli errori, è importante saper leggere l’attuale situazione e valutarne l’effettiva gravità. E anche in questo caso, non lo si può fare con i ferri vecchi del passato, ma occorre servirsi degli strumenti concettuali propri della nostra epoca.
Baronio osserva in proposito:
Mi piacerebbe capire — magari con una risposta argomentata — in virtú di quale principio Ella parli di neoscolastica e non di scolastica tout-court, e perché la consideri inefficace per controbattere gli errori attuali, se non per quel pregiudizio insinuatoLe sin dal Seminario, assieme al latte materno della dottrina conciliare. Le ricordo che il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva che la filosofia e la teologia fossero insegnate «ad Angelici Doctoris rationem, doctrinam et principia», raccomandando che docenti e discenti «ea sancte teneant» (can. 1366, § 2). Forse non è un caso se, anche in questo, la neo-chiesa si è voluta discostare dalla saggezza della Chiesa Cattolica.
Monsignore mi chiede per quale motivo parlo di neoscolastica, anziché di scolastica tout-court. La risposta mi sembra piuttosto ovvia: perché si tratta di due fenomeni diversi. Con il termine “scolastica” si fa riferimento alla filosofia e alla teologia del medioevo; la “neoscolastica” è invece una creazione di fine Ottocento, voluta da Leone XIII in alternativa al rosminianesimo, nell’illusione di contrastare il pensiero moderno riallacciandosi, senza mediazioni, al pensiero medievale. Confondere scolastica e neoscolastica è come confondere i classici col neoclassicismo.
Baronio mi ricorda poi la raccomandazione della Chiesa perché lo studio della filosofia e della teologia si svolgano alla luce di San Tommaso. Faccio, innanzi tutto, notare a Monsignore che non c’è bisogno di scomodare il CJC del 1917, dal momento che la stessa raccomandazione, diversamente formulata, la ritroviamo anche nel CJC del 1983, l’unico attualmente in vigore. In secondo luogo, gli ricordo che tutta la mia formazione filosofica e teologica si è svolta alla scuola dell’Angelico Dottore. Per me, San Tommaso è sempre stato e continuerà ad essere un punto di riferimento imprescindibile per ogni questione filosofica e teologica. So anche, però, che San Tommaso non può dare una risposta immediata alle questioni sollevate dalla filosofia e dalla teologia dell’età moderna (per il semplice motivo che quelle questioni, al suo tempo, non erano ancora state poste). Questo è stato esattamente l’errore della neoscolastica: illudersi che, per far fronte alle sfide della modernità, fosse sufficiente riproporre, tale e quale, un filosofia e una teologia che erano nate per rispondere alle esigenze del medioevo. Baronio mi chiede poi di spiegargli per quale motivo la neoscolastica sarebbe inefficace per controbattere gli errori attuali. Beh, direi che non c’è bisogno di alcuna dimostrazione razionale; lo dimostra la storia: la neoscolastica ha avuto già modo di dimostrare le proprie capacità contro il modernismo; con quali risultati, è sotto gli occhi di tutti.
Monsignore, se avrà la pazienza di leggere la conclusione della mia tesi di laurea (qui), capirà che cosa intendo dire. La Provvidenza aveva dotato per tempo la Chiesa degli strumenti per confrontarsi con la modernità, donandole un filosofo che fu capace di attualizzare la filosofia perenne, Antonio Rosmini. Ma la Chiesa non comprese la grazia che Dio le stava facendo e preferí riproporre, senza variazioni, una filosofia che era stata pensata per un’epoca diversa. E, come se non bastasse, a 32 anni dalla morte, condannò quel filosofo come poco ortodosso, salvo poi riconoscerne, dopo 120 anni, la santità...
La storia non si fa con i se, ma probabilmente, se la Chiesa avesse fatto suo il rosminianesimo, avrebbe affrontato in modo diverso il modernismo. Non avendo a disposizione gli strumenti per rispondere alle sfide che il modernismo poneva, la Chiesa reagí con le censure (che in certi casi ci vogliono, ma non sono sufficienti, se non sono accompagnate da una risposta razionale a quelle esigenze). Ed è cosí che arriviamo ai nostri giorni: i problemi posti dal modernismo hanno continuato a covare sotto la cenere e, come un fiume carsico, sono riaffiorati col Concilio Vaticano II. La Chiesa, con esso, ha cercato di fare un discernimento, a mio parere utile; ma, a quanto pare, anch’esso insufficiente, forse proprio perché la Chiesa era ancora sprovvista degli strumenti concettuali per affrontare la modernità. Nella mia tesi di laurea (redatta nel 1990) scrivevo:
I problemi posti dal modernismo all’inizio del secolo e allora messi a tacere con le censure, si sono ripresentati oggi. Ma neppure oggi la Chiesa si è mostrata pronta a dare una risposta: non ha ancora gli strumenti per poterlo fare, o meglio non vuole rassegnarsi a riconoscere che quegli strumenti le erano stati forniti “per tempo” dal Rosmini. Ed è cosí che, non potendo piú reagire né con la forza né con le idee, in molti casi la Chiesa, invece che rispondere al modernismo, lo ha supinamente accettato, con tutti i rischi che ciò comporta per la sua stessa esistenza. Manca alla Chiesa di oggi un pensiero “forte”, un sistema solido e oggettivo, che le permetta di muoversi con sicurezza nel mare delle opinioni che la sconvolgono.
Siccome questo discorso potrebbe apparire completamente astratto, sarà forse utile fare un paio di esempi che aiutino a capire il senso delle mie affermazioni. Primo esempio: dopo la pubblicazione di Evangelii gaudium (24 novembre 2013), Padre Giovanni Cavalcoli (per il quale nutro grande stima e venerazione) pubblicò, sulla rivista della Pontificia Accademia Teologica Path, un articolo in cui interpretava il terzo “postulato” di Papa Francesco (“La realtà è piú importante dell’idea”) alla luce del realismo gnoseologico aristotelico-tomistico, senza accorgersi che l’attuale Pontefice si muove entro un orizzonte concettuale completamente diverso. Come facevo notare nel post del 10 maggio 2016, la “realtà” di cui si parla in quel postulato non è la realtà metafisica, ma una realtà puramente fenomenica; cosí come l’“idea” non è la rappresentazione mentale dell’oggetto, ma è intesa come sinonimo di ideologia. Tale esempio mostra tutti i limiti di una neoscolastica rimasta ferma al medioevo e che non tiene conto degli sviluppi che la filosofia ha avuto nel corso dei secoli.
Il secondo esempio lo traggo da un commento al post di Baronio. Un lettore esprime l’auspicio che un giorno la Chiesa possa procedere a «una censura delle ambiguità di molti documenti conciliari sul modello della censura dei 45 teologi su Amoris Laetitia». Premetto che la “censura dei 45 teologi su AL” non è la recente (estate 2017) Correctio filialis, ma la lettera che quegli studiosi inviarono, nell’estate del 2016, a 218 Cardinali e Patriarchi. Tra i “45 teologi” c’ero anch’io: mi chiesero di sottoscrivere la lettera; avevo qualche dubbio sulla sua utilità, ma ne condividevo il contenuto, per cui firmai. Sono convinto che da quella lettera siano poi scaturiti i dubia dei quattro Cardinali; per cui una sua utilità, forse, l’ha avuta. Però continuo a pensare che non sia questo il modo di affrontare oggi la situazione. Non è dichiarando eretiche alcune proposizioni che si risolve il problema del modernismo nella Chiesa. È stato già fatto, ma non ha sortito alcun effetto. Occorre piuttosto dimostrare razionalmente l’insostenibilità di certe posizioni. Ma per far questo bisogna servirsi degli stessi strumenti usati dagli interlocutori. Se noi continuiamo a usare le armi del passato, l’esito della battaglia è già segnato in partenza.
Ma forse... è troppo tardi. Il confronto con la modernità, la Chiesa avrebbe dovuto farlo quando era il momento. E avrebbe avuto a disposizione gli strumenti per farlo. Preferí invece tenersi sulla difensiva e continuare a usare armi arrugginite. Vistasi sopraffatta, ai nostri giorni ha alzato bandiera bianca e, uscita dalla trincea, fraternizza col nemico. Forse è troppo tardi per iniziare un confronto ad armi pari con la modernità. Essa stessa appare oggi superata; ormai siamo nella fase della “post-modernità”, con la quale si ha l’impressione sia piuttosto difficile stabilire un dialogo costruttivo. Forse, l’unica opzione rimasta è quella che chiamano “opzione Benedetto”: ritirarsi in buon ordine, lasciare che il mondo vada verso il suo destino, e... ricominciare da capo. Dal vangelo.
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