Ieri, durante l’udienza generale, dedicata a una catechesi sulla preghiera eucaristica, il Santo Padre ha tra l’altro affermato:
“Padre, quanto devo pagare perché il mio nome venga detto lí?” – “Niente”. Capito questo? Niente! La Messa non si paga. La Messa è il sacrificio di Cristo, che è gratuito. La redenzione è gratuita. Se tu vuoi fare un’offerta falla, ma non si paga. Questo è importante capirlo.
Naturalmente i media si sono subito buttati a capofitto sulla notizia, soffermandosi su queste tre righe e magari trascurando le altre cinquanta righe della catechesi. Ma questo fa parte del sistema dell’informazione.
Non per voler criticare il Papa, ma solo per deplorare una certa pastorale, diffusa soprattutto nell’immediato post-concilio, fatta piú di slogan che di ragionamenti, con tutto il rispetto chiedo: è proprio necessario ricordare ai fedeli quel che è ovvio («La Messa è il sacrificio di Cristo, che è gratuito») e non aiutarli invece a capire il senso di una prassi secolare della Chiesa (l’uso di accompagnare con un’offerta la richiesta di celebrare la Messa secondo le proprie intenzioni)? Lo scopo della catechesi non dovrebbe essere proprio quello di spiegare ai fedeli il senso, non sempre immediato, di certi usi tradizionali della Chiesa?
Il Codice di diritto canonico dedica un intero capitolo a “L’offerta per la celebrazione della Messa”. Ne riporto qui i primi tre canoni:
Can. 945 - §1. Secondo l’uso approvato della Chiesa, è lecito ad ogni sacerdote che celebra la Messa, ricevere l’offerta data affinché applichi la Messa secondo una determinata intenzione.
§2. È vivamente raccomandato ai sacerdoti di celebrare la Messa per le intenzioni dei fedeli, soprattutto dei piú poveri, anche senza ricevere alcuna offerta.
Can. 946 - I fedeli che danno l’offerta perché la Messa venga celebrata secondo la loro intenzione, contribuiscono al bene della Chiesa, e mediante tale offerta partecipano della sua sollecitudine per il sostentamento dei ministri e delle opere.
Can. 947 - Dall’offerta delle Messe deve essere assolutamente tenuta lontana anche l’apparenza di contrattazione o di commercio.
Mi sembra che si tratti di un testo molto chiaro ed equilibrato, che però, per ovvi motivi, non tutti i fedeli conoscono (e di qui l’opportunità di farlo conoscere loro nella catechesi). Da questi tre canoni risulta che: a) si tratta di un uso approvato dalla Chiesa; b) si tratta di un modo per sostenere i sacerdoti e l’attività pastorale della Chiesa; c) bisogna guadarsi da ogni forma di mercimonio e occorre essere pronti a celebrare per le intenzioni dei fedeli anche quando non si riceve alcuna offerta.
Il punto principale su cui, secondo me, bisognerebbe insistere è il secondo: attraverso l’offerta per la Messa i fedeli «contribuiscono al bene della Chiesa», dando cosí attuazione al quinto precetto della Chiesa («Sovvieni alle necessità della Chiesa»), di cui al Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2042). L’offerta per la Messa serve a molti sacerdoti per far quadrare il bilancio, visto che il loro stipendio non è sufficiente a far fronte a tutte le spese. Per i religiosi, che non possono neppure contare sul sostentamento del clero, l’elemosina per la Messa è spesso l’unico contributo che danno alla comunità che li mantiene. Per molti missionari le intenzioni di Messa sono l’unica entrata, che permette loro di vivere.
Molti fedeli queste cose non le sanno; molti di loro non sanno neppure che la Messa può essere celebrata secondo le loro intenzioni; e, se lo sanno, non sanno che, quando si chiede di celebrare la Messa secondo le proprie intenzioni, c’è l’uso di fare un’offerta. Per non parlare di quelli che pensano (aiutati in questo dai media, che magari sfruttano certe notizie per insinuarlo) che i preti nuotino nell’oro e che quindi non abbiano bisogno del loro aiuto. In genere capita che a non fare alcuna offerta per la Messa (e per gli altri sacramenti) non siano i piú poveri (che di solito sono i piú generosi), ma le persone a cui non manca nulla e per i quali tutto è dovuto.
Purtroppo il non aver piú insistito su certi aspetti, per paura di ingenerare il sospetto di avidità, sta portando in molti luoghi alla progressiva scomparsa di questa pratica. In Italia ormai soprattutto i religiosi fanno fatica a trovare intenzioni di Messe da celebrare.
Paolo VI, nel motu proprio Firma in traditione del 13 giugno 1974, metteva opportunamente in luce il significato teologico e spirituale di tale prassi:
È nella costante tradizione della Chiesa che i fedeli, spinti dal loro senso religioso ed ecclesiale, vogliano unire, per una piú attiva partecipazione alla Celebrazione Eucaristica, un loro personale concorso, contribuendo cosí alle necessità della Chiesa, e particolarmente al sostentamento dei suoi ministri, nello spirito del detto del Signore: «L’operaio è degno della sua mercede» (Lc 10:7), richiamato dall’Apostolo Paolo nella prima Lettera a Timoteo (5:18) e nella prima ai Corinzi (9:7-14).
Tale uso, col quale i fedeli si associano piú intimamente a Cristo offerente e ne percepiscono frutti piú abbondanti, è stato non solo approvato, ma anche incoraggiato dalla Chiesa che lo considera come una specie di segno di unione del battezzato con Cristo, nonché del fedele con il sacerdote, il quale proprio in suo favore svolge il suo ministero.
Queste sono le cose che, a mio parere, dovremmo aiutare i fedeli a capire. Rammentare loro quanto già sanno — che il Sacrificio di Cristo è gratuito — non li aiuta certo a prendere coscienza dei doveri che hanno verso la Chiesa e i suoi ministri.
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