Tutti gli osservatori hanno rilevato, negli ultimi giorni, un cambio di strategia, da parte della Santa Sede, di fronte all’assedio mediatico sui casi di pedofilia. Non tutti sono d’accordo sull’opportunità di gridare al complotto e preferiscono la politica della confutazione sistematica dei casi che vengono di volta in volta proposti. Non saprei: probabilmente c’è bisogno dell’una e dell’altra cosa (personalmente ho apprezzato molto l’intervento del Card. Sodano il giorno di Pasqua, che, al di là delle intenzioni, finisce per essere una lezione di stile per gli attuali responsabili della Segreteria di Stato).
Finora — diciamo la verità — c’erano state delle reazioni piuttosto imbarazzate, che lasciavano supporre che la Santa Sede avesse qualcosa da nascondere o che perlomeno si sentisse in colpa per aver mancato ai suoi doveri di vigilanza e di repressione degli abusi. Da quanto sta venendo fuori invece appare con chiarezza che la politica seguita dalla Congregazione per la dottrina della fede, specialmente dopo il 2001, è stata di estremo rigore. Il fatto che di buona parte (forse, della maggior parte) dei casi non si sia pubblicamente parlato, non significa che quei casi sono stati “insabbiati”, ma semplicemente che sono stati trattati con quella riservatezza che era — ed è — prevista dalle norme in vigore.
Ovviamente si è trattato di una gestione “interna”: la Chiesa ha un suo proprio ordinamento (l’ordinamento canonico), e ha il nativo diritto-dovere di trattare certe cause. Ma tale gestione interna non ha mai impedito o intralciato il corso della giustizia “esterna”. Certo, il Card. Ratzinger non ha mai denunciato alcun prete alla magistratura civile; ma perché avrebbe dovuto farlo? c’è forse qualche norma che glielo imponesse? Del resto non ce n’era neppure bisogno, giacché il piú delle volte le cause ecclesiastiche erano avviate quando già erano in corso i procedimenti civili.
Ma ormai, a quanto pare, anche la stampa si è resa conto del fatto che la giustizia civile non è mai stata ostacolata da quella canonica; per cui hanno cambiato tattica: hanno iniziato a intromettersi nella gestione ecclesiastica delle cause (rapporto fra diocesi e Santa Sede, svolgimento dei processi, sanzioni comminate, ecc.). E questo è un fatto gravissimo: si tratta di una intollerabile interferenza nella vita interna della Chiesa. A quanto mi risulta, il New York Times non è una corte di giustizia internazionale (e, anche se lo fosse, non avrebbe alcun titolo per ingerirsi nell’ordinamento canonico). Come si permettono di esprimere giudizi sull’operato della giustizia ecclesiastica? come si permettono di sindacare se quel prete è stato o non è stato ridotto allo stato laicale? come si permettono di pretendere che un Vescovo venga rimosso o, addirittura, che il Papa dia le dimissioni?
Un’ultima osservazione: quel che sta accadendo dovrebbe dimostrare quanto fosse saggia l’imposizione del segreto a questo tipo di cause: il “segreto del Sant’Uffizio” (sotto pena di scomunica) nell’istruzione Crimen sollicitationis del 1962 e il “segreto pontificio” nella lettera Ad exsequendam del 2001. Un segreto che non solo garantiva le vittime e gli imputati (non sempre necessariamente colpevoli), ma che anche impediva lo scempio che si sta facendo in questi giorni. Il segreto non ha mai impedito, ma semmai ha permesso il regolare svolgimento dei processi (canonici e civili) lontano dai riflettori. Non credo che ci si debba sentire imbarazzati perché nelle norme ecclesiastiche era — ed è — prevista una totale riservatezza. Vediamo i danni incalcolabili che la violazione del segreto sta portando alla Chiesa. E di questa violazione, ahimè, prima che il New York Times, sono responsabili quegli ecclesiastici che hanno fornito al New York Times certi documenti riservati. Non sarebbe il caso che contro tali ecclesiastici si applicassero le sanzioni previste dal diritto?