Giorni fa l’Arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin ha presieduto la celebrazione del 30° anniversario della morte del Servo di Dio Frank Duff, fondatore della Legione di Maria. Durante la Santa Messa ha tenuto un’omelia che costituisce un’approfondita riflessione sullo stato della Chiesa irlandese. Potete trovare il testo completo dell’intervento sul sito dell’Arcidiocesi di Dublino; ZENIT ne ha riportato ampi stralci in italiano.
Mi sembra importante soffermarsi sulle considerazioni di Mons. Martin, perché dànno un quadro completo della situazione della Chiesa in Irlanda. Negli ultimi anni l’attenzione dei media si è concentrata sullo scandalo degli abusi, una realtà che non può in alcun modo essere negata o anche semplicemente ignorata. Ma sarebbe sbagliato fermare l’attenzione esclusivamente su quel problema: gli abusi sono solo la punta di un iceberg; la crisi, secondo il Primate irlandese, è molto piú profonda.
Permettete, a questo proposito, che porti la mia piccola esperienza. Io avevo sempre nutrito una grande ammirazione per la Chiesa irlandese. Quando ero studente di teologia (negli anni Settanta) — dico la verità — guardavo con una certa invidia ai miei compagni irlandesi, perché erano ancora numerosi, al contrario di quanto avveniva in Italia, dove era già arrivata la crisi delle vocazioni. Successivamente, senza aver mai avuto la possibilità di contatti diretti con l’isola di San Patrizio, continuai a nutrire la convinzione che la Chiesa irlandese godesse di un ottimo stato di salute. Una decina di anni fa ebbi l’occasione di recarmi negli Stati Uniti; una cosa che mi colpí molto fu la cura riservata in America alle liturgie, soprattutto dal punto di vista musicale (fu allora che scoprii la bellezza degli antichi inni inglesi). Feci questa riflessione: visto che la maggior parte dei cattolici americani sono o di origine italiana o di origine irlandese, siccome non possono aver ereditato questa attenzione per la liturgia dall’Italia, certamente essa farà parte del retaggio irlandese. Pensavo: chissà che belle liturgie ci saranno in Irlanda! Non vedevo l’ora di poter verificare di persona. Nel 2003 ebbi la fortuna di trascorrere due mesi nella verde isola per motivi di studio. Quale fu la mia delusione! Non solo non trovai i begl’inni che mi attendevo, ma trovai le chiese semideserte, con poca o punta partecipazione dei fedeli alle celebrazioni; trovai una Chiesa pressoché agonizzante: i seminari vuoti; una secolarizzazione galoppante; la gente interessata esclusivamente al benessere economico (erano gli anni del boom della “tigre celtica”). Quel che mi impressionò maggiormente era che, a differenza dell’Italia, dove bene o male si era fatto un certo cammino di rinnovamento (pur con risultati contraddittori), lí sembrava quasi che non ci fosse stato neppure il minimo tentativo di rinnovamento. In campo liturgico, ritrovavo tutti gli aspetti piú deteriori della Chiesa preconciliare (individualismo, passività, trasandatezza, ecc.). Sembrava quasi che del rinnovamento conciliare si fossero adottati solo gli aspetti piú esteriori e discutibili, come il rilassamento dello stile di vita, l’abbandono dell’abito ecclesiastico da parte di sacerdoti e religiosi, ecc.
Chiesi: ma che è successo? Mi spiegarono che dieci anni prima (quindi durante gli anni Novanta) era cambiato tutto. Il segno piú appariscente di questa crisi fu lo svuotamento, da un giorno all’altro, dei seminari. Mi trovavo a Maynooth, una graziosa cittadina a pochi chilometri da Dublino, dove si trova un enorme seminario, il St. Patrick’s College, che un tempo conteneva centinaia di seminaristi: si era ridotto a essere praticamente l’unico seminario di tutto il paese, con qualche decina di seminaristi (tant’è vero che i locali erano stati utilizzati per un’università cattolica aperta a tutti). Nella stessa città tutti gli istituti religiosi avevano costruito le loro case di formazione (dei bellissimi edifici con tutte le comodità): completamente vuote o destinate a nuovi usi (lo studentato dei Verbiti, dove ero ospite, era stato trasformato in una scuola di inglese per stranieri).
Durante la mia permanenza, osservai molto attentamente la situazione e cercai di trovare una spiegazione a quanto accaduto. Giunsi a questa conclusione, che ora trovo confermata nell’omelia di Mons. Martin («a certain sense of arrogance and power seeking»): mi resi conto che il vero problema della Chiesa irlandese era che fino ad allora essa era stata una Chiesa estremamente potente. Forse proprio per questo non si era preoccupata di almeno tentare una qualche sorta di rinnovamento: perché farlo? che bisogno ce n’era? Nel momento in cui la società irlandese iniziò a cambiare, ovviamente il controllo che vi esercitata la Chiesa entrò in crisi. E, da un momento all’altro, crollò tutto. Allora non si parlava ancora di abusi (o perlomeno io non ne fui in alcun modo informato); ma quando lo scandalo venne a galla, la cosa non mi meravigliò piú di tanto, perché in quel contesto poteva essere facilmente compreso.
Nella sua omelia l’Arcivescovo di Dublino non si limita all’analisi della situazione, ma guarda anche al futuro, alla ricerca di possibili soluzioni. Innanzi tutto, Mons. Martin riconosce la necessità di rinnovamento: «Il rinnovamento è una dimensione essenziale della vita della Chiesa in ogni momento della storia». Ma aggiunge anche che «la Chiesa non sarà mai riformata dall’esterno … Il rinnovamento e la riforma della Chiesa verranno solo dall’interno della Chiesa … Il rinnovamento della Chiesa non consiste in strategie mediatiche o riforme strutturali». E siccome la crisi della Chiesa «non riguarda il ruolo della Chiesa nella società; non riguarda i numeri; ma riguarda la vera natura della fede in Gesú Cristo; riguarda la nostra comprensione del messaggio di Gesú Cristo; riguarda la fede nel Dio rivelato in Gesú Cristo; riguarda la questione fondamentale: chi è Gesú Cristo?», il rinnovamento della Chiesa consisterà nella «volontà di conoscere Gesú e di entrare in una vera amicizia con lui», consisterà nel «conoscere il Padre attraverso l’incontro con Gesú».
Penso proprio che il Primate d’Irlanda abbia colto perfettamente la portata della crisi (una crisi di fede, prima che una crisi morale) e abbia individuato con estrema lucidità la via d’uscita dalla crisi: la conoscenza del Padre che si realizza nell’incontro con Cristo (non si tratta di belle parole, ma della questione essenziale). Credo che, in un momento cosí delicato per gli irlandesi (sia sul piano economico-civile, sia sul piano morale-ecclesiale), si debba essere pienamente solidali con questi nostri fratelli. Le premesse per uscire dalla crisi ci sono tutte; dobbiamo però accompagnarli con la nostra preghiera e la nostra simpatia.
Ma credo pure che la vicenda irlandese dovrebbe insegnare qualcosa a tutti noi: ci insegna che la Chiesa deve essere in uno stato di continuo rinnovamento. Non si può dormire sugli allori, pensando che tutto va bene, che non c’è bisogno di cambiare nulla. Non si può essere soddisfatti delle posizioni raggiunte; non si può confidare sul potere; non ci si può mostrare arroganti. Si deve piuttosto avere sempre la consapevolezza della nostra debolezza e riconoscere umilmente i nostri peccati. Occorre vivere in uno stato di perenne conversione e auto-riforma. Soprattutto, bisogna ricentrare lo sguardo su Cristo, senza il quale non avrebbe nessun senso continuare a dirsi cristiani.