Finalmente sono riuscito a leggere l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini. A giudicare dalle reazioni e dai commenti, praticamente inesistenti, sembrerebbe già caduta nell’oblio. Mi sono chiesto il perché. In fondo è fatta bene, è completa e ricca di spunti. Come mai dunque nessuno ne parla? Butto là qualche possibile spiegazione.
Forse è passato troppo tempo tra la celebrazione del Sinodo (5-26 ottobre 2008) e la pubblicazione dell’esortazione apostolica (11 novembre 2010): non sono un tantino eccessivi due anni per rielaborare le conclusioni di un Sinodo e stenderne una sintesi?
Forse la pubblicazione di Verbum Domini è stata troppo presto “oscurata”, una decina di giorni dopo, da quella del libro-intervista Luce del mondo, che ha avuto una notevole risonanza sui media, per i motivi che conosciamo.
Forse il “monopolio” della Libreria Editrice Vaticana ha ritardato la distribuzione dell’esortazione apostolica nelle librerie: quando il documento è uscito, se uno, preso dalla curiosità, andava a cercarlo in libreria, non lo trovava; quando è arrivato (con un mesetto di ritardo), l’interesse era già scemato.
Forse la mole del documento (232 pagine) ha scoraggiato qualcuno: d’accordo che c’erano tante cose da dire; ma possibile che non si potesse essere un po’ piú sintetici?
Qualcun altro forse è stato scoraggiato dal prezzo: non sono pochi 6 euro per un opuscolo che, una volta aperto, si trasforma in un raccoglitore di foglietti volanti. Possibile che non si riuscisse a fare un’edizione piú agile ed economica? In fondo, gli Orientamenti pastorali della CEI Educare alla vita buona del Vangelo, pubblicati dalle Paoline, costano un quarto dell’esortazione apostolica (€ 1,50).
La lettura di Verbum Domini non ha dissipato le perplessità che avevo espresso in un recente post, a proposito delle esortazioni apostoliche e del sistema sinodale in genere. Mi chiedo se valga la spesa mettere in moto una macchina cosí complessa come il Sinodo dei Vescovi, per avere poi dei documenti che saranno anche belli, ma, con la pretesa di dire un po’ tutto, finiscono per essere verbosi e ripetitivi. Per parlare della parola di Dio, è proprio necessario metterla in rapporto con tutto lo scibile teologico (liturgia, sacramenti, catechesi, vocazioni, ministri ordinati, vita consacrata, laici, famiglia, evangelizzazione, giustizia, pace, giovani, migranti, poveri, ecologia, cultura, mezzi di comunicazione, ecumenismo, dialogo interreligioso, ecc. ecc.)? Non stiamo esagerando un pochino? Sarà anche vero che al Sinodo sono stati toccati tutti questi aspetti; ma... a che serve? Non vorrei apparire iconoclasta, ma a me sembra che il sommergere la parola di Dio in un profluvio di parole umane non giovi molto alla sua causa.
Oltre tutto, in qualche caso, quando si trattava di affrontare problemi specifici, si è preferito sorvolare. Tanto per fare un esempio, il Sinodo aveva avanzato una proposta, discutibile quanto si vuole, ma concreta: l’apertura del ministero del lettorato alle donne (proposizione 17). Ebbene, nell’esortazione apostolica... ne verbum quidem (cf n. 58). Capisco che talvolta, su certi argomenti, sia meglio glissare. Ma perché non dare una spiegazione della mancata accoglienza della proposta dei Vescovi? A che serve continuare a ripetere certe frasi fatte (“genio femminile”, n. 85), che rischiano di ridursi a semplici slogan? Non sarebbe stato piú semplice dire: “Sebbene non ci siano motivi teologici che lo impediscano, almeno per il momento si preferisce rimanere fedele alla secolare tradizione della Chiesa, che ha sempre riservato i ministeri istituiti ai soli uomini” (cf Paolo VI, motu proprio Ministeria quaedam, 15 agosto 1972, norma VII).
Da parte mia, vorrei soffermarmi su due aspetti, certamente secondari, ma ai quali sono particolarmente interessato. Il primo riguarda il rapporto fra la parola di Dio e la liturgia. L’esortazione apostolica gli dedica uno spazio non indifferente (dal n. 52 al n. 71). Personalmente, ho trovato molto stimolante la connessione fra “lettura orante” della Bibbia e liturgia:
«In un certo senso la lettura orante, personale e comunitaria, deve essere sempre vissuta in relazione alla celebrazione eucaristica. Come l’adorazione eucaristica prepara, accompagna e prosegue la liturgia eucaristica, cosí la lettura orante personale e comunitaria prepara, accompagna e approfondisce quanto la Chiesa celebra con la proclamazione della Parola nell’ambito liturgico» (n. 86).
C’è però, secondo me un altro aspetto che è stato completamente trascurato: è vero che la lectio divina dovrebbe far riferimento alla parola di Dio letta durante la Messa; ma è altrettanto vero che la riforma liturgica ha, in qualche modo, assunto la lectio divina all’interno della liturgia stessa, e precisamente nella Liturgia delle Ore, con un’Ora specifica detta, appunto, Officium lectionis. In italiano quest’Ora viene chiamata, piuttosto banalmente, “Ufficio delle letture”, senza rendersi conto che si tratta, invece, dell’Ufficio della lectio. Ebbene, che dice a questo proposito il Sinodo? Nulla. C’è — è vero — un numero dedicato a “Parola di Dio e Liturgia delle Ore”, che non aggiunge però nulla di nuovo: si limita a ripetere cose che già sapevamo. Si afferma che «il Sinodo ha espresso il desiderio che si diffonda maggiormente nel Popolo di Dio questo tipo di preghiera [= la Liturgia delle Ore], specialmente la recita delle Lodi e dei Vespri». Sí, benissimo; ma che c’entra in questo contesto? Perché non promuovere piuttosto la celebrazione, privata e pubblica, dell’Officium lectionis? E perché non raccomandare l’uso del ciclo biennale delle letture, previsto nella Institutio generalis Liturgiae Horarum (nel breviario attualmente in uso è contenuto il ciclo unico, che tralascia buona parte dei libri della Bibbia) e, già che c’eravamo, sollecitare la pubblicazione del “Supplemento” atteso da quarant’anni (ibid., n. 145)?
Un altro aspetto che mi sta a cuore è quello delle traduzioni della Bibbia. Verbum Domini ne parla al n. 115. Giustamente l’esortazione apostolica lamenta che «varie Chiese locali non dispongono ancora di una traduzione integrale della Bibbia nelle proprie lingue». Purtroppo è vero. Ma, accanto a tale problema, esiste anche quello delle traduzioni scadenti. È mai possibile che nelle Filippine (unico paese cristiano dell’Asia, con oltre l’80% di cattolici) per la liturgia si debba usare una modestissima traduzione della Bibbia in tagalog di origine protestante? (l’unica preoccupazione è stata quella di sostituire gli spagnolismi con termini indigeni, p. es. bautismo è stato rimpiazzato da binyagan). In barba alla raccomandazione conciliare di tradurre la Bibbia dai testi originali (Dei Verbum, n. 22), spesso viene il dubbio che certe traduzioni nelle lingue locali siano in realtà “ritraduzioni” dalle lingue europee...
Giustamente l’esortazione apostolica, citando un precedente documento della Pontificia Commissione Biblica, rammenta che «una traduzione ... è sempre qualcosa di piú di una semplice trascrizione del testo originale». Ma non sarebbe stato opportuno accennare almeno a qualche criterio di traduzione? Visto che si discute se si debba adottare la “corrispondenza letterale o formale” o la “equivalenza letteraria o dinamica” (vedi qui), non sarebbe stato il caso di suggerire qualche orientamento? In campo liturgico, si è intervenuti in maniera categorica, con l’istruzione Liturgiam authenticam (28 marzo 2001). Le traduzioni bibliche, a prescindere dal loro uso liturgico, non meritavano un’analoga attenzione?