Il blog Disputationes Theologicae ha riferito nei giorni scorsi su un convegno organizzato dalla Revue Thomiste e dall'Institute Catholique de Toulouse, dal titolo "Vaticano II: rottura o continuità? Le ermeneutiche presenti". A quanto pare, deve essersi trattato di un convegno molto interessante. Interessanti anche le riflessioni dei curatori del blog.
Mi ha colpito soprattutto un aspetto sollevato nel corso del convegno, quello del linguaggio. Si è fatto esplicito riferimento a un punto molto controverso del Concilio: "Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella (subsistit in) Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui" (Lumen gentium, n. 8). Fino al Vaticano II si era semplicemente identificata la vera Chiesa con la Chiesa cattolica; si poteva dire: la vera Chiesa è la Chiesa cattolica. Il Concilio dice: la vera Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica. Perché questo cambiamento?
Forse bisogna tener conto delle finalità del Vaticano II: tale Concilio ha intenzionalmente escluso per sé un carattere dogmatico; esso si è presentato come un concilio "pastorale". Non c'è bisogno di definire la dottrina — aveva affermato Giovanni XXIII all'apertura del Concilio — dal momento che essa è già chiara; scopo del Concilio è quello di trovare nuove forme per comunicare tale dottrina al mondo moderno. Come si vede, si trattava di trovare un nuovo linguaggio, piú comprensibile per l'uomo di oggi. È per questo che il Vaticano II ha abbandonato (anche se non completamente) il tradizionale linguaggio scolastico per adottare un linguaggio piú biblico, patristico e, in qualche caso, debitore della filosofia moderna.
Il proposito del Concilio è encomiabile. Il problema è: il Vaticano II ha raggiunto gli obiettivi che si prefissava? Come rilevavamo recentemente, i risultati sono stati spesso diversi, se non opposti a quelli che ci si era proposti ("eterogenesi dei fini"). Torniamo all'esempio del subsistit in: l'adozione di tale formula non solo non ha in alcun modo favorito il riconoscimento della Chiesa cattolica come vera Chiesa da parte di non-cattolici e non-cristiani, ma essa ha addirittura indebolito fra gli stessi cattolici la coscienza che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa. Anziché chiarire, essa ha creato maggior confusione. Ne sono prova non solo le innumerevoli discussioni teologiche (piú che legittime), ma addirittura i molteplici interventi magisteriali, che hanno cercato — per la verità, con poco successo — di precisare il significato di quell'espressione. Viene da chiedersi: era proprio necessario fare quel cambiamento?
Con questo non voglio dire: era meglio lasciare tutto com'era, e ora l'unica soluzione possibile è riconoscere l'errore e annullare il Concilio (come qualche tradizionalista radicale potrebbe sperare). La soluzione proposta da Disputationes Theologicae (a quanto pare ispirata dalle conclusioni del convegno) è la seguente:
«L’assenza di una terminologia chiara in tanta parte del testo conciliare rinvia dunque a riflettere sull’opportunità di un’opera di revisione, di spiegazione, di interpretazione autentica. – Un dichiarato ritorno alla precisione della terminologia scolastica, cosí come l’impiego della teologia tomista, non soltanto faciliterebbe la comprensione universale dei testi, ponendo ostacoli insormontabili alle ermeneutiche non ortodosse, ma aprirebbe anche la strada ad una vera intelligenza della dottrina cattolica per i nostri contemporanei. Un tale rinnovamento tomista della teologia conciliare è ciò che invocano in definitiva gli organizzatori del Convegno e siamo convinti dell’opportunità di quest’appello. Tuttavia questo lavoro presuppone, a nostro avviso, per essere realmente proficuo, la convinzione dell’opportunità di mettere mano non solo all’interpretazione, ma anche alla lettera del testo conciliare».
Non vorrei entrare, per il momento, su quest'ultima questione (se non sia opportuno rivedere i testi stessi del Vaticano II); ma soffermarmi esclusivamente sul linguaggio da adottare nell'interpretazione del Concilio. I curatori di Disputationes Theologicae dicono: torniamo al linguaggio scolastico e alla teologica tomista. Essendo stato formato alla scuola domenicana, la cosa non dovrebbe che farmi piacere; ma, avendo poi proseguito la mia formazione alla scuola rosminiana, devo riconoscere obiettivamente che un ritorno puro e semplice alla scolastica oggi non è piú proponibile. Perché?
Perché questo è esattamente ciò che la Chiesa faceva prima del Concilio, e abbiamo visto che non era sufficiente. Per quale altro motivo si è sentito bisogno di un Concilio? Perché ci si era accorti che la Chiesa non era stata capace, nell'Ottocento e nel Novecento, di rispondere alle sfide della modernità; c'era bisogno di adottare un nuovo atteggiamento. Ci aveva provato, agli inizi del Novecento, il modernismo, ma sappiamo con quali risultati. Nella seconda meta del secolo, il Vaticano II ha fatto un nuovo tentativo, certamente migliore del primo, ma ancora non del tutto soddisfacente. Probabilmente il limite principale del Concilio è stato l'inevitabilità del compromesso. Personalmente, non sono contrario in linea di principio ai compromessi: secondo me, essi sono alla base della convivenza pacifica fra persone che hanno interessi diversi. Ma quando si tratta di definire la dottrina, il compromesso non è certo la migliore soluzione, perché inevitabilmente esso porta a espressioni ambigue, che vengono accettate dalle parti appunto perché passibili di interpretazioni diverse. È esattamente ciò che è avvenuto al Concilio: per mettere tutti d'accordo si sono preparati dei testi che possono essere interpretati in maniera opposta. Per questo è giusto fare ricorso a un linguaggio rigoroso, che non permetta il conflitto delle interpretazioni.
Il linguaggio scolastico? Esso è stato elaborato per rispondere alle esigenze del Medioevo. L'errore della Chiesa moderna (leggi: Leone XIII) è stato quello di volerlo riproporre tale e quale per i nostri giorni. Ma tale tentativo è fallito. E la dimostrazione di tale fallimento sono appunto il modernismo prima e il Vaticano II poi. L'errore, commesso dalla Chiesa nell'Ottocento (errore che stiamo pagando ancora oggi) è stato quello di non voler riconoscere che Dio aveva donato alla Chiesa chi le forniva gli strumenti per affrontare il confronto con la modernità: il Beato Antonio Rosmini, interprete nel suo tempo della filosofia perenne. Ma allora si preferí condannarlo e si pensò che fosse sufficiente ricreare in laboratorio una filosofia d'altri tempi, il neo-tomismo (che molto poco aveva a che fare con il tomismo vero, presente nella filosofia rosminiana). I risultati di quell'operazione di "archeologismo filosofico" li abbiamo sotto gli occhi. Per cui mi sembra ingenuo pensare che si possa riproporre il linguaggio scolastico come soluzione ai problemi ermeneutici del Vaticano II. Solo quando, dopo aver riconosciuto la santità del Rosmini, la Chiesa avrà riconosciuto anche il suo contributo filosofico-teologico, forse avremo gli strumenti per risolvere i problemi che attanagliano la Chiesa d'oggi.
Mi ha colpito soprattutto un aspetto sollevato nel corso del convegno, quello del linguaggio. Si è fatto esplicito riferimento a un punto molto controverso del Concilio: "Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella (subsistit in) Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui" (Lumen gentium, n. 8). Fino al Vaticano II si era semplicemente identificata la vera Chiesa con la Chiesa cattolica; si poteva dire: la vera Chiesa è la Chiesa cattolica. Il Concilio dice: la vera Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica. Perché questo cambiamento?
Forse bisogna tener conto delle finalità del Vaticano II: tale Concilio ha intenzionalmente escluso per sé un carattere dogmatico; esso si è presentato come un concilio "pastorale". Non c'è bisogno di definire la dottrina — aveva affermato Giovanni XXIII all'apertura del Concilio — dal momento che essa è già chiara; scopo del Concilio è quello di trovare nuove forme per comunicare tale dottrina al mondo moderno. Come si vede, si trattava di trovare un nuovo linguaggio, piú comprensibile per l'uomo di oggi. È per questo che il Vaticano II ha abbandonato (anche se non completamente) il tradizionale linguaggio scolastico per adottare un linguaggio piú biblico, patristico e, in qualche caso, debitore della filosofia moderna.
Il proposito del Concilio è encomiabile. Il problema è: il Vaticano II ha raggiunto gli obiettivi che si prefissava? Come rilevavamo recentemente, i risultati sono stati spesso diversi, se non opposti a quelli che ci si era proposti ("eterogenesi dei fini"). Torniamo all'esempio del subsistit in: l'adozione di tale formula non solo non ha in alcun modo favorito il riconoscimento della Chiesa cattolica come vera Chiesa da parte di non-cattolici e non-cristiani, ma essa ha addirittura indebolito fra gli stessi cattolici la coscienza che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa. Anziché chiarire, essa ha creato maggior confusione. Ne sono prova non solo le innumerevoli discussioni teologiche (piú che legittime), ma addirittura i molteplici interventi magisteriali, che hanno cercato — per la verità, con poco successo — di precisare il significato di quell'espressione. Viene da chiedersi: era proprio necessario fare quel cambiamento?
Con questo non voglio dire: era meglio lasciare tutto com'era, e ora l'unica soluzione possibile è riconoscere l'errore e annullare il Concilio (come qualche tradizionalista radicale potrebbe sperare). La soluzione proposta da Disputationes Theologicae (a quanto pare ispirata dalle conclusioni del convegno) è la seguente:
«L’assenza di una terminologia chiara in tanta parte del testo conciliare rinvia dunque a riflettere sull’opportunità di un’opera di revisione, di spiegazione, di interpretazione autentica. – Un dichiarato ritorno alla precisione della terminologia scolastica, cosí come l’impiego della teologia tomista, non soltanto faciliterebbe la comprensione universale dei testi, ponendo ostacoli insormontabili alle ermeneutiche non ortodosse, ma aprirebbe anche la strada ad una vera intelligenza della dottrina cattolica per i nostri contemporanei. Un tale rinnovamento tomista della teologia conciliare è ciò che invocano in definitiva gli organizzatori del Convegno e siamo convinti dell’opportunità di quest’appello. Tuttavia questo lavoro presuppone, a nostro avviso, per essere realmente proficuo, la convinzione dell’opportunità di mettere mano non solo all’interpretazione, ma anche alla lettera del testo conciliare».
Non vorrei entrare, per il momento, su quest'ultima questione (se non sia opportuno rivedere i testi stessi del Vaticano II); ma soffermarmi esclusivamente sul linguaggio da adottare nell'interpretazione del Concilio. I curatori di Disputationes Theologicae dicono: torniamo al linguaggio scolastico e alla teologica tomista. Essendo stato formato alla scuola domenicana, la cosa non dovrebbe che farmi piacere; ma, avendo poi proseguito la mia formazione alla scuola rosminiana, devo riconoscere obiettivamente che un ritorno puro e semplice alla scolastica oggi non è piú proponibile. Perché?
Perché questo è esattamente ciò che la Chiesa faceva prima del Concilio, e abbiamo visto che non era sufficiente. Per quale altro motivo si è sentito bisogno di un Concilio? Perché ci si era accorti che la Chiesa non era stata capace, nell'Ottocento e nel Novecento, di rispondere alle sfide della modernità; c'era bisogno di adottare un nuovo atteggiamento. Ci aveva provato, agli inizi del Novecento, il modernismo, ma sappiamo con quali risultati. Nella seconda meta del secolo, il Vaticano II ha fatto un nuovo tentativo, certamente migliore del primo, ma ancora non del tutto soddisfacente. Probabilmente il limite principale del Concilio è stato l'inevitabilità del compromesso. Personalmente, non sono contrario in linea di principio ai compromessi: secondo me, essi sono alla base della convivenza pacifica fra persone che hanno interessi diversi. Ma quando si tratta di definire la dottrina, il compromesso non è certo la migliore soluzione, perché inevitabilmente esso porta a espressioni ambigue, che vengono accettate dalle parti appunto perché passibili di interpretazioni diverse. È esattamente ciò che è avvenuto al Concilio: per mettere tutti d'accordo si sono preparati dei testi che possono essere interpretati in maniera opposta. Per questo è giusto fare ricorso a un linguaggio rigoroso, che non permetta il conflitto delle interpretazioni.
Il linguaggio scolastico? Esso è stato elaborato per rispondere alle esigenze del Medioevo. L'errore della Chiesa moderna (leggi: Leone XIII) è stato quello di volerlo riproporre tale e quale per i nostri giorni. Ma tale tentativo è fallito. E la dimostrazione di tale fallimento sono appunto il modernismo prima e il Vaticano II poi. L'errore, commesso dalla Chiesa nell'Ottocento (errore che stiamo pagando ancora oggi) è stato quello di non voler riconoscere che Dio aveva donato alla Chiesa chi le forniva gli strumenti per affrontare il confronto con la modernità: il Beato Antonio Rosmini, interprete nel suo tempo della filosofia perenne. Ma allora si preferí condannarlo e si pensò che fosse sufficiente ricreare in laboratorio una filosofia d'altri tempi, il neo-tomismo (che molto poco aveva a che fare con il tomismo vero, presente nella filosofia rosminiana). I risultati di quell'operazione di "archeologismo filosofico" li abbiamo sotto gli occhi. Per cui mi sembra ingenuo pensare che si possa riproporre il linguaggio scolastico come soluzione ai problemi ermeneutici del Vaticano II. Solo quando, dopo aver riconosciuto la santità del Rosmini, la Chiesa avrà riconosciuto anche il suo contributo filosofico-teologico, forse avremo gli strumenti per risolvere i problemi che attanagliano la Chiesa d'oggi.