domenica 31 ottobre 2010

Il gioco delle parti

Ho l’impressione che abbiano avuto poca risonanza le rivelazioni fatte dal Vescovo Bernard Fellay in una recente conferenza alla Angelus Press (la casa editrice della FSSPX negli Stati Uniti), in occasione del 40° anniversario della fondazione della Fraternità. Ne ha riferito Brian McCall su The Remnant (traduzione italiana di ampi stralci dell’articolo su Messainlatino.it; a chi conosce l’inglese non posso che consigliare la lettura diretta dell’originale). Io, da parte mia, non faccio che ripensarci; perché tali rivelazioni sovvertono completamente l’idea che ci eravamo fatta della situazione. Finora pensavamo che la Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, da quando questi aveva ordinato illecitamente quattro Vescovi, non fosse piú in piena comunione con la Chiesa cattolica. Sapevamo pure che l’attuale Pontefice ha molto a cuore una riconciliazione con i lefebvriani, e per questo ha, prima, liberalizzato la celebrazione della Messa tridentina; ha poi revocato la scomunica ai quattro Vescovi; ha infine iniziato una serie di colloqui volti a superare le divergenze dottrinali e favorire cosí la riconciliazione. Ma, stando alla nota della Segreteria di Stato del 4 febbraio 2009, sapevamo pure che la FSSPX «non gode di alcun riconoscimento canonico nella Chiesa cattolica» e che, di conseguenza, i quattro Vescovi non esercitano lecitamente il loro ministero (lo stesso si poteva pensare dei sacerdoti della Fraternità, illecitamente ordinati da quei Vescovi).

Ed ecco che Mons. Fellay ci rivela che non è vero niente; che la realtà è completamente diversa. Con ciò non voglio dire che non credo al Superiore generale della FSSPX; non c’è nessun motivo per mettere in dubbio le sue parole; quel che racconta non solo è pienamente verosimile, ma è, anzi, l’unica spiegazione plausibile per tanti aspetti che finora rimanevano incomprensibili. Ma la cosa è talmente grossa, che io — confesso — sono rimasto sconvolto. Non che quanto rivelato mi dispiaccia (semmai, conferma la mia posizione sulla questione); rimango però stupefatto dalla duplicità della Santa Sede. Probabilmente, il primo a essere stupefatto è proprio Mons. Fellay, il quale è giunto a concludere che la Santa Sede abbia adottato una politica bifronte in seguito a tutta una serie di esperienze fatte in questi anni. 

Le prove che porta sono fondamentalmente tre. La piú convincente mi sembra la prima, riguardante la giurisdizione per l’ascolto delle confessioni: quando i sacerdoti della Fraternità ricorrono alla Santa Sede per i casi riservati, questa non ha nulla da eccepire e concede loro il potere di assolvere, riconoscendo cosí indirettamente la validità delle loro assoluzioni. Personalmente trovo tale argomento fortissimo anche perché dimostra un riconoscimento della Santa Sede da parte della Fraternità: i suoi sacerdoti non si arrogano poteri che non hanno, ma — va detto a loro onore — ricorrono alla Sede Apostolica come farebbe qualsiasi altro sacerdote cattolico.

La seconda prova non mi sembra che abbia grande valore. Mi pare ovvio che se un sacerdote (validamente ordinato) lascia la FSSPX per entrare in una diocesi o in un istituto o in una società che godono di riconoscimento canonico, la Santa Sede lo può tranquillamente dispensare da eventuali irregolarità e impedimenti all’esercizio del ministero. È diverso il caso degli Anglicani: in tal caso la Chiesa non riconosce la validità dei loro ordini, e perciò è necessario essere riordinati per poter svolgere il ministero.

Interessante anche la terza prova, quella di un “riconoscimento temporaneo” della Fraternità, concesso, nel marzo 2009, in cambio dello spostamento delle ordinazioni dalla Germania in Svizzera. La cosa, per quanto possa apparire bizzarra, ha un suo senso. Soprattutto perché, anche in questo caso, si è trattato di un reciproco riconoscimento: la Santa Sede ha riconosciuto la validità e la liceità di quelle ordinazioni; la FSSPX ha riconosciuto l’autorità della Santa Sede, acconsentendo alla richiesta che le veniva rivolta.

Nell’ambito di questa terza rivelazione risulta abbastanza stupefacente l’affermazione attribuita a un porporato vaticano (tutto porta a pensare che si tratti del Card. Castrillón Hoyos), secondo cui il Papa non avrebbe condiviso quanto ufficialmente dichiarato nella nota della Segreteria di Stato del 4 febbraio 2009. Non che una cosa del genere non possa accadere (anzi, ci credo senza esitazioni); ma, secondo me, una cosa del genere non dovrebbe accadere. Ora, se è accaduta, perché è accaduta?

La risposta che azzarda Mons. Fellay è che il Papa non è libero di procedere al riconoscimento della Fraternità ed è costretto a seguire una politica bifronte, perché è condizionato dall’opposizione di alcuni episcopati. A questo proposito, mi permetto di far notare (non ho capito bene se ne abbia parlato Mons. Fellay o se sia una deduzione dell’articolista) che la collegialità in questo caso non c’entra nulla. La collegialità è una cosa seria; non può essere confusa con una subdola opposizione di qualche conferenza episcopale al volere del Santo Padre. Di che cosa si tratta? E qui veniamo alla rivelazione secondo me piú esplosiva della conferenza.

A quanto pare, già nel 2005 Benedetto XVI avrebbe avuto intenzione di risolvere la partita con i lefebvriani erigendo per loro una amministrazione apostolica. Pare che il decreto fosse già pronto e avesse solo bisogno di qualche ritocco giuridico. A questo punto sembra che si sia mosso l’episcopato tedesco per bloccare il progetto (minacciando qualcosa?). Sta di fatto che non se ne fece nulla e si passò a quello che ha tanto l’aria di essere un piano alternativo, che è poi ciò che tutti conosciamo: motu proprio Summorum Pontificum, revoca della scomunica, colloqui dottrinali (devo dire sinceramente che, secondo me, tale piano alternativo si è rivelato molto piú problematico di quello originario).

Che il grosso ostacolo alla libertà di azione di Benedetto XVI fosse costituito dagli episcopati di lingua tedesca, lo si era capito da un pezzo. Ma che si fosse arrivati a questo punto, non lo avrei mai sospettato. Ora, stando cosí le cose, c’è da pensare che con questo Papa non si arriverà mai a una soluzione della questione lefebvriana. Si dovrà aspettare un Papa libero da condizionamenti etnici (vedete che, tutto sommato, l’essere italiano per un Papa aveva i suoi vantaggi…) e, nel frattempo, andare avanti con l’attuale “gioco delle parti”.

Direi però che, nel frattempo, qualche cosa si potrebbe fare. Certamente, come ci ricorda Brian McCall e come lo stesso Benedetto XVI aveva chiesto all’inizio del pontificato, dobbiamo pregare per il Papa, perché il Signore non lo faccia fuggire di fronte ai “lupi”. Ma, oltre a questo, direi che un po’ piú di chiarezza non guasterebbe. Sono d’accordo che in certe situazioni bisogna dare un colpo alla botte e un colpo al cerchio: chi ha una responsabilità non può sempre seguire il proprio istinto, ma deve necessariamente tener conto di tutte le parti in gioco. Non è possibile, per ricucire uno strappo, provocarne uno maggiore. Però non penso che giovino a nessuno le sceneggiate. Io non so se il riferimento di McCall al film A Man for All Seasons sia solo un tentativo personale di interpretazione o se effettivamente esso descriva la realtà. In ogni caso, penso che, se non è possibile oggi giungere a un riconoscimento de jure della FSSPX, ci potrebbero perlomeno essere risparmiate le note della Segreteria di Stato a cui non crede neppure il Papa. In certi casi, sarebbe meglio il silenzio.

Se poi è vero che la FSSPX, a sua volta, riconosce di fatto l’autorità della Santa Sede, anch’essa farebbe bene a evitare certe sterili polemiche (che a questo punto appaiono pura accademia) e a concentrarsi sulla preghiera, lo studio e l’apostolato svolto in piena comunione col Santo Padre. Sapendo che il Papa apprezza il loro lavoro, i lefebvriani dovrebbero, secondo me, ricambiare tale fiducia sostenendo con tutte le forze la sua azione, senza creargli inutili difficoltà.

mercoledì 27 ottobre 2010

Traduzioni edulcorate

Prima lettura della Messa di oggi: Efesini 6:1-9. Finora il v. 5 suonava: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo». Una traduzione letterale, abbbastanza fedele al testo originale (Οἱ δοῦλοι, ὑπακούετε τοῖς κατὰ σάρκα κυρίοις μετὰ φόβου καὶ τρόμου ἐν ἁπλότητι τῆς καρδίας ὑμῶν ὡς τῷ Χριστῷ). La nuova versione CEI invece ci fa ora leggere: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo». La nuova traduzione in un punto migliora la precedente: invece di “con semplicità di spirito”, rende, piú letteralmente, con “nella semplicità del vostro cuore”. Sembrerebbe dunque che uno dei criteri seguiti sia quello di una maggiore fedeltà al testo originale. E invece, che cosa succede? I “padroni secondo la carne” (che sarà pure un’espressione non usuale nel linguaggio corrente, ma certo di non impossibile comprensione) diventano “padroni terreni”. Si potrebbe discutere sull’opportunità di rimpiazzare quell’espressione “secondo la carne”, cosí comune nella Bibbia; ma passi (del resto anche la Volgata aveva reso con una certa libertà questo passo: «oboedite dominis carnalibus»).

Ciò che risulta assolutamente incomprensibile è invece l’annacquamento dell’espressione seguente (“con timore e tremore”), che diventa uno slavato “con rispetto e timore”. Notate: il “timore” si trasforma in “rispetto”, ma, al tempo stesso, inaspettatamente si sostituisce al “tremore”. Mi chiedo: perché mettere le mani su una formula fissa, ricorrente nella Bibbia, che semmai andrebbe spiegata, non alterata? San Paolo la usa diverse volte: oltre che qui, in 1 Cor 2:3; 2 Cor 7:15; Fil 2:12. Giustamente, la TOB nel presente passo annota: «Espressione biblica che designa una situazione in cui l’uomo impegna la propria esistenza e dove, al di là delle circostanze, si trova alle prese con Dio». In nota a Fil 2:12, spiega: «Coppia di parole già conosciuta nella Bibbia e nel giudaismo, per esprimere la debolezza che si prova di fronte a Dio vivente e santo, che manifesta la sua esigenza attraverso l’obbedienza di Cristo». Nel caso di 2 Cor 7:15, sempre la TOB postilla: «Espressione corrente, che esprime l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla grandezza e alla maestà divine…». Se si tratta di un’espressione cosí comune, in qualche modo “tecnica”, perché modificarla? Meraviglia poi che nel Sal 2:11 (possibile fonte di tale formula) la nuova versione CEI traduce letteralmente: «Servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (dal che si deduce che il tremore è addirittura compatibile con la gioia).

Qualcosa di simile è accaduto nel vangelo di san Luca (14:26). Finora leggevamo: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Ora leggiamo: «Se uno viene a me e non mi ama piú di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Si dirà: ma questo è esattamente il senso che intende Gesú con quell’espressione. Il passo parallelo di Matteo (10:37) suona infatti: «Chi ama il padre o la madre piú di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia piú di me non è degno di me» (in tal caso, traduzione vecchia e nuova della CEI piú o meno si equivalgono). Per l’appunto: Matteo sente il bisogno di sciogliere quell’espressione cosí ruvida, propria di una lingua priva di sfumature; mentre Luca la lascia cosí com’è (per rispetto degli ipsissima verba Iesu), lasciando agli interpreti il compito di spiegarla.

Ritengo che il compito del traduttore non possa essere confuso con quello dell’esegeta: al primo è chiesto di rendere in una lingua diversa il testo originale, sforzandosi di rimanervi il piú fedele possibile, in modo che i lettori, seppure in un altro idioma, possano assaporare il gusto (se necessario, anche l’asprezza) dell’originale. Il traduttore non può sostituirsi all’esegeta: il compito di interpretare e di spiegare non spetta al primo, ma al secondo. Capisco che talvolta si possano incontrare concetti oggi non politicamente corretti; ma lasciamo che sia l’interprete a edulcorarli, se proprio è necessario. Anche perché le interpretazioni possono variare (e di fatto sono variate) da un’epoca all’altra, a seconda delle mode del momento; il testo, invece dovrebbe rimanere sempre lo stesso. Tradurre troppo liberamente rischia di risolversi non solo in un tradimento dell’autentico significato del testo, ma anche in un tradimento del lettore, che ha il diritto di accostarsi al testo cosí come esso realmente è stato scritto.

venerdì 22 ottobre 2010

Ecumenismo nel segno della tradizione

Come al solito, riporto l’articolo da me pubblicato sul n. 3 dellEco dei Barnabiti (luglio-settembre 2010), pp. 12-16, per la rubrica “Osservatorio ecclesiale”.


Potrebbe apparire una indebita invasione di campo quella che compie l’“Osservatorio ecclesiale” in una rivista che ormai da anni dedica una rubrica fissa all’ecumenismo, letta e apprezzata anche fuori Congregazione. Ma verremmo meno al nostro proposito di “osservatori” se ci astenessimo dall’esaminare che cosa è avvenuto negli ultimi cinque anni (da quando cioè è diventato papa Benedetto XVI) in questo specifico settore di attività della Chiesa.

Uno degli stereotipi più ricorrente sull’attuale pontefice (del resto già diffuso all’epoca in cui era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede) è quello che egli sia un conservatore reazionario, affossatore del Concilio e nemico di qualsiasi rinnovamento ecclesiale. È ovvio che, a chi considera Papa Ratzinger sotto tale luce, egli non possa che apparire anche un fiero oppositore dell’ecumenismo, che fu una delle preoccupazioni principali del Concilio Vaticano II.

In realtà, se andiamo a leggere il primo intervento di Benedetto XVI dopo l’elezione (il discorso pronunciato al termine della concelebrazione eucaristica con i cardinali elettori nella Cappella Sistina, il 20 aprile 2005), vi troveremo scritto: 

«Nell’accingermi al servizio che è proprio del Successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei Predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa. Ricorrerà proprio quest’anno il 40.mo anniversario della conclusione dell’Assise conciliare (8 dicembre 1965). Col passare degli anni, i documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata».  

Questo per chiarire la posizione del nuovo pontefice nei confronti di quel Concilio a cui egli aveva partecipato come perito e al quale aveva dato un significativo contributo. Dunque, nessun ripensamento e, tanto meno, nessuna abiura del Vaticano II. Semmai, una quanto mai opportuna precisazione (che sarebbe stata successivamente illustrata nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005) sul modo di attuare il Concilio: «sulla scia dei miei Predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa». Una indicazione preziosa, su cui torneremo. A proposito dell’ecumenismo, in quella stessa occasione, Papa Ratzinger ebbe a dire:

«Con piena consapevolezza … all’inizio del suo ministero nella Chiesa di Roma che Pietro ha irrorato col suo sangue, l’attuale suo Successore si assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere. Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo.

«Il dialogo teologico è necessario, l’approfondimento delle motivazioni storiche di scelte avvenute nel passato è pure indispensabile. Ma ciò che urge maggiormente è quella “purificazione della memoria”, tante volte evocata da Giovanni Paolo II, che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo. È davanti a Lui, supremo Giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a Lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli.

«L’attuale Successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo. Sulla scia dei suoi Predecessori, egli è pienamente determinato a coltivare ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l’intesa con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali. Ad essi, anzi, invia anche in questa occasione il più cordiale saluto in Cristo, unico Signore di tutti».

Si tratta, come è normale in queste circostanze, di una “dichiarazione d’intenti”, di un impegno programmatico preso nel momento in cui si intraprende un mandato. Ora che sono passati cinque anni da quella data, possiamo chiederci: che ne è stato di quell’impegno? È stato fedele Benedetto XVI al suo proposito ecumenico? E, se sì, adottando quali mezzi e quale stile?

Se guardiamo al quinquennio trascorso, ci accorgeremo che l’impegno ecumenico di Benedetto XVI si è rivolto soprattutto in tre direzioni: verso l’ortodossia, verso gli anglicani, e verso il movimento lefebvriano. Si noterà che mancano in questo elenco le comunità nate dalla Riforma: potrà sembrare strano che un uomo, proveniente da un paese in cui la maggioranza relativa della popolazione è di fede evangelica, non si sia distinto nel dialogo con i luterani. Va detto che i rapporti con i protestanti sono stati sempre buoni (basti pensare alla visita alla chiesa evangelica luterana di Roma, svoltasi il 14 marzo scorso); ma va anche serenamente riconosciuto che l’ecumenismo con i figli della Riforma è quello più difficile, per evidenti motivi storici e dottrinali.

1. Ortodossi

Il dialogo con gli ortodossi ha invece conosciuto negli ultimi tempi un’accelerazione, che sarebbe stata semplicemente impensabile fino a qualche anno fa. Bisogna dire che i rapporti con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli (importante da un punto di vista storico e di prestigio, ma numericamente del tutto inconsistente) sono sempre stati cordiali (a cominciare dallo storico abbraccio del 5 gennaio 1964 fra il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, con la conseguente reciproca abolizione delle scomuniche del 7 dicembre 1965). Ciò che invece faceva problema era soprattutto il rapporto con la Chiesa Ortodossa Russa (quella numericamente più importante fra le Chiese ortodosse). Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che pure aveva fatto non poco per l’ecumenismo, i rapporti con gli ortodossi russi erano stati estremamente tesi, un po’ forse per motivi etnici (la storica rivalità fra russi e polacchi); un po’ per l’arrivo di missionari cattolici in Russia a seguito del crollo del comunismo (arrivo che fu visto dagli ortodossi come una sorta di “invasione” e di “conquista”, e provocò ricorrenti accuse di “proselitismo”); un po’ anche — va tranquillamente riconosciuto — per alcune scelte forse poco ponderate (come la costituzione, nel 2002, di quattro diocesi cattoliche nel territorio canonico di quella Chiesa o, nel 2003, la ventilata istituzione, poi necessariamente rientrata, del patriarcato greco-cattolico di Kiev). Non sarebbe giusto però passare sotto silenzio un gesto lì per lì apparentemente insignificante, ma gravido di conseguenze positive per il futuro, avvenuto pochi mesi prima della morte di Papa Wojtyła: la restituzione, nel 2004, dell’icona della Madonna di Kazan alla Chiesa Ortodossa Russa.

Con l’elezione di Papa Ratzinger tutto è improvvisamente mutato. Anche in questo caso avrà giocato un po’ il fattore etnico; un po’ la stima che il teologo Ratzinger ha sempre goduto nel mondo ortodosso; sta di fatto che abbiamo assistito a un inatteso e immediato disgelo. A ciò si aggiunga, nel 2008, la scomparsa del vecchio Patriarca Alessio e l’elezione del Metropolita Cirillo, che era stato per diversi anni “ministro degli esteri” del Patriarcato di Mosca e aveva perciò avuto la possibilità di conoscere a fondo la Chiesa cattolica e, in particolare, di apprezzare le posizioni teologiche del Card. Ratzinger. Cirillo, quando era ancora metropolita, aveva avuto modo di incontrare Papa Ratzinger due volte. Ovviamente, dopo l’elevazione di Cirillo al patriarcato, non c’è stato più alcun incontro; ma oggi un incontro fra il papa e il patriarca di Mosca non appare più una cosa impossibile.

Nel frattempo ci sono stati innumerevoli segnali di distensione. Ha iniziato Benedetto XVI nel 2007, sostituendo l’arcivescovo di Mosca Mons. Tadeusz Kondrusiewicz (di origine polacca) con l’italiano Paolo Pezzi.

Si è inoltre creata una perfetta sintonia fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti del mondo secolarizzato odierno. Sul piano dei principi morali c’è una totale identità di vedute fra le due Chiese. Qualcuno ha parlato addirittura di “santa alleanza” fra cattolici e ortodossi in vista della “nuova evangelizzazione”.

Non vanno trascurati poi i tanti piccoli gesti di reciproca attenzione e buon vicinato, che si sono susseguiti negli ultimi mesi, e che stanno a dimostrare come il clima fra le due Chiese sia profondamente mutato. Lo scorso dicembre il Patriarcato di Mosca ha pubblicato un’antologia di testi di Benedetto XVI sull’Europa. La Santa Sede ha ricambiato la cortesia pubblicando a sua volta una raccolta di interventi del Patriarca Cirillo sulla dignità e i diritti dell’uomo. Nel maggio scorso si sono svolte a Roma le “Giornate della cultura e della spiritualità russa”, durante le quali, fra l’altro, il Patriarcato di Mosca ha offerto un concerto a Benedetto XVI, a cui ha presenziato il successore di Cirillo nella carica di responsabile dei rapporti esterni del Patriarcato, il Metropolita Hilarion.

Non vanno infine dimenticati i colloqui della Commissione mista per il dialogo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che negli ultimi anni si sono focalizzati su un tema di estrema importanza per i rapporti fra le due Chiese: “conciliarità e autorità” (nel cui contesto va affrontata la delicata questione del primato romano). Sedi degli incontri sono state, successivamente, Belgrado, Ravenna, Creta, Cipro e Antelias (Libano). Di particolare importanza il documento sottoscritto a Ravenna nel 2007, nel quale si riconosce apertamente che «il vescovo di Roma è il protos tra i patriarchi» (restando le divergenze sulle prerogative del vescovo di Roma in quanto protos).

2. Anglicani

Non è un mistero che la Chiesa anglicana è stata agitata negli ultimi anni da non poche controversie, che ne hanno messo a rischio l’unità. In particolare, le polemiche si sono appuntate su tre questioni: l’ammissione delle donne al sacerdozio prima e poi all’episcopato; l’elezione di alcuni vescovi apertamente omosessuali; la benedizione di coppie dello stesso sesso. Già negli anni passati, alle prime avvisaglie di questi fenomeni, c’erano state persone, soprattutto membri del clero, che, in contrasto con le decisioni delle rispettive comunità, avevano chiesto di essere ammesse nella Chiesa cattolica. Ma si trattava di casi individuali, che vennero affrontati con una normativa espressamente predisposta nel 1982. Nel frattempo intere comunità si erano progressivamente separate dalla Comunione anglicana, dando vita a strutture parallele (come, per esempio, la Traditional Anglican Communion). Alcune di queste comunità si erano rivolte negli anni scorsi alla Santa Sede per sondare la possibilità di una eventuale adesione “corporativa” alla Chiesa cattolica, conservando le tradizioni — spirituali, liturgiche e disciplinari — proprie della Chiesa anglicana. Alcuni vescovi anglicani avevano già sottoscritto il Catechismo della Chiesa cattolica. Si trattava ora di trovare le forme canoniche per rendere possibile una tale adesione.

È la questione a cui ha dato risposta Benedetto XVI con la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus del 4 novembre 2009, con la quale vengono istituiti ordinariati personali per gli anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa cattolica. 

Alcuni hanno voluto vedere nella Costituzione apostolica una battuta d’arresto nel cammino ecumenico. Qualcuno è giunto al punto di parlare di “pirateria” romana in acque anglicane, rimpiangendo i “documenti realmente ecumenici” dell’ARCIC (la commissione internazionale anglicano-cattolica), che saranno stati anche belli sulla carta, ma non hanno avvicinato di un centimetro le posizioni di anglicani e cattolici; hanno anzi permesso che gli anglicani (dimostrando così una totale insensibilità ecumenica) introducessero nelle loro Chiese novità assolutamente inaccettabili per cattolici e ortodossi.

Sensibilità ecumenica che invece si manifesta nella decisione di istituire ordinariati personali. Se avesse voluto, Benedetto XVI avrebbe potuto istituire una sorta di Chiesa “uniate” anglicana, simile alle Chiese orientali cattoliche; non lo ha fatto proprio per rispetto alla Comunione anglicana, limitandosi a creare una struttura giuridica agile, che permettesse agli anglicani di entrare nella Chiesa cattolica conservando le loro tradizioni.

3. Lefebvriani

Qualcuno dirà: E che c’entrano i lefebvriani con l’ecumenismo? Solitamente, quando pensiamo all’ecumenismo, pensiamo al dialogo con le Chiese e le Comunità ecclesiali che si sono separate da Roma nei secoli passati: fondamentalmente, gli ortodossi e i protestanti. Ma a nessuno viene in mente che ci possono essere gruppi che sono usciti solo recentemente dalla comunione con la Chiesa cattolica, magari in nome della tradizione cattolica che, a loro dire, sarebbe stata tradita da Roma. 

Ed è proprio in tale prospettiva ecumenica che Benedetto XVI ha affrontato la delicata questione della riconciliazione con il movimento fondato da Mons. Marcel Lefebvre. Lo dice lui stesso espressamente nella lettera ai vescovi riguardante la remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre (10 marzo 2009):

«Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani — per l’ecumenismo — è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce — è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore … Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie». 

Forse non avrà fatto molto piacere ai lefebvriani sentirsi oggetto di quell’ecumenismo da loro tanto criticato come una delle “novità” del Vaticano II; ma per un uomo profondamente conciliare come Benedetto XVI non può essere che questo l’atteggiamento da tenere anche nei loro confronti. Probabilmente in questa attenzione, da alcuni giudicata eccessiva, verso il movimento lefebvriano gioca anche un fattore personale: che lo “scisma” si sia consumato sotto i suoi occhi, quando egli era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Era lui che dovette gestire, per conto di Giovanni Paolo II, le trattative con Mons. Lefebvre; ma, come sappiamo, le cose andarono a rotoli. Penso che lo consideri come un punto di onore riuscire a ricucire quello scisma prima di morire. Pur di raggiungere tale obiettivo, è stato disposto a fare tutte le concessioni possibili e immaginabili, dalla remissione della scomunica ai quattro vescovi ordinati da Mons. Lefebvre, alla liberalizzazione della Messa tridentina, all’apertura di colloqui ufficiali fra le due parti. Tali provvedimenti hanno attirato sul papa non poche critiche e incomprensioni; ma evidentemente si tratta di un prezzo da pagare, che Benedetto XVI aveva già previsto e serenamente accettato. Si tratterà ora di vedere se dall’altra parte ci sarà altrettanta disponibilità e apertura.

Conclusione

Quali considerazioni possiamo fare dopo aver “osservato” ciò che è avvenuto in questi cinque anni di pontificato in campo ecumenico? È vera l’impressione di alcuni, secondo cui l’ecumenismo ha segnato una battuta d’arresto? che le attese e le speranze suscitate dal Concilio sono state tradite?

Non possiamo certo dire che tutto procede come prima, che nulla è cambiato. Va riconosciuto che c’è stata una “svolta”; ma questo non perché Benedetto XVI non sia un papa ecumenico, bensì perché ha capito che un certo ecumenismo praticato negli anni passati non portava da nessuna parte. Oltre i sorrisi, le strette di mano, le preghiere comuni, i colloqui spesso inconcludenti, non si andava. Anzi, si ha l’impressione che quell’ecumenismo di facciata coprisse una realtà ben diversa: un progressivo, ulteriore allontanamento fra le diverse confessioni. Basti vedere che cosa è avvenuto, in questi anni di “ecumenismo”, all’interno della Comunione anglicana. 

E non è un caso che ciò sia avvenuto. È la conseguenza inevitabile dei presupposti sbagliati da cui muoveva quell’ecumenismo: si pensava che per superare le divisioni, si dovesse cercare un minimo comun denominatore su cui tutti potessero trovarsi d’accordo; che si dovesse tacere delle diversità che ci separano; che, per trovare un’intesa, si dovesse adottare un certo “relativismo”… E invece ci siamo accorti che, battendo questa strada, ci si allontanava ancora di più. 

Ecco allora l’intuizione di Benedetto XVI: il dialogo ecumenico va condotto nella verità, senza nascondere nulla di ciò che ci caratterizza (e spesso ci divide). Se proprio va cercato un terreno comune su cui condurre il dialogo, questo non può essere il relativismo oggi in voga, ma il ritorno alle fonti della rivelazione e della vita cristiana: la Scrittura (e su questo sono tutti d’accordo) e — ecco la novità, a cui nessuno aveva finora pensato — la tradizione (considerata anzi finora come un ostacolo e quindi come uno di quegli elementi da mettere tra parentesi nel dialogo ecumenico). Non può esistere una Chiesa che tagli le proprie radici, che interrompa il nesso con il suo passato. E, a quanto pare, muovendosi su questo terreno, l’ecumenismo, nonché arrestarsi, incomincia a dare i suoi frutti: sono molto più di quanto non si pensi i cristiani disposti a confrontarsi, oltre che sulla Scrittura, anche sul terreno della tradizione. Solo recuperando le proprie radici comuni, i cristiani realizzeranno di essere rami della medesima pianta, di appartenere alla stessa famiglia; scopriranno di essere non solo figli dello stesso Padre, ma anche della medesima Madre.

mercoledì 20 ottobre 2010

A servizio della Chiesa, sotto la guida di Pietro

Si direbbe che Mons. Bernard Fellay sia diventato particolarmente loquace negli ultimi tempi: non passa mese che non rilasci qualche intervista. Secondo me fa bene: si tratta di una strategia comunicativa efficace per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Se non altro, è meglio che parli lui, che per lo meno riesce a mantenere sempre un tono equilibrato, piuttosto che i suoi collaboratori, che ogniqualvolta aprono bocca combinano qualche pasticcio.

Anche nell’ultima intervista, rilasciata a Nouvelles de Chrétienté di settembre-ottobre 2010 (tradizione italiana su DICI), il Superiore generale della FSSPX conferma la sua saggezza e le sue doti diplomatiche. Quando, per esempio, viene interrogato sulle possibili soluzioni all’attuale crisi della Chiesa, risponde che, pur non escludendo una eventuale — “miracolosa” — soluzione istantanea, la via normale non può che essere una soluzione graduale, dimostrando cosí un realismo raro fra i suoi seguaci.

Concordo pienamente con lui, quando indica gli strumenti per il superamento della crisi (nomine episcopali; riforma dell’insegnamento nelle università pontificie; formazione dei sacerdoti nei seminari). Mi permetto di essere, in questo caso, un po’ piú pessimista di lui, che pensa che siano sufficienti dieci anni per raddrizzare la situazione. Non è facile intervenire nei settori da lui indicati. Non è da oggi che si cerca di farlo: Giovanni Paolo II ha impiegato tutto il suo lungo pontificato per dare vita a una nuova generazione di Vescovi. Con quale risultato? Anche ai nostri giorni, tutte le volte che il Papa cerca di toccare certe situazioni, vediamo che cosa succede. Le università pontificie: non sarà facile avviare un nuovo corso, dal momento che le nuove leve vengono formate da quegli stessi professori che si vorrebbe rimpiazzare. Lo stesso dicasi dei seminari, dove i formatori piú tradizionali sono costretti a fare i conti con l’ambiente circostante, per lo piú refrattario a qualsiasi tentativo di “disciplinamento”.

La parte che mi sembra piú interessante nell’intervista è quella centrale, dove si chiede a Mons. Fellay un giudizio sulla conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, del 2 luglio 2010 (potete leggerne sul sito della Fraternità San Pietro, a cui la conferenza era rivolta). Mons. Fellay risponde:

«Questa conferenza è l’applicazione molto logica dei principi enunciati nel dicembre del 2005 da Benedetto XVI. Essa ci fornisce una presentazione dell’ecumenismo passabilmente differente da quella che abbiamo ascoltata per quarant’anni… una presentazione mescolata ai principi eterni sull’unicità della Chiesa e sulla sua perfezione unica, sull’esclusività della salvezza. In questo si vede bene un tentativo di salvare l’insegnamento di sempre e contemporaneamente un Concilio rivisitato alla luce tradizionale». 

Vede Mons. Fellay che è possibile dare un’interpretazione “cattolica” del Vaticano II? Che non è necessario rifiutare il Concilio per continuare a dirsi cattolici? Monsignore dovrà convenire che la strada indicata da Benedetto XVI, nel suo discorso alla Curia Romana del 2005, è l’unica percorribile; non ci sono alternative, se si vuole venir fuori dall’impasse in cui si trova la Chiesa attuale; non è pensabile che la Chiesa possa “abolire” un Concilio. Mons. Fellay trova, se non pienamente condivisibile, per lo meno “interessante” questa “versione rivista” del Concilio:

«È interessante, nel senso che ci si presenta un nuovo Vaticano II, un Concilio che in effetti non abbiamo mai conosciuto e che si distingue da quello che è stato presentato negli ultimi quarant’anni. Una sorta di nuova pelle! È interessante soprattutto per il fatto che vi si trova condannata con molta forza la tendenza ultra-moderna. Ci si presenta una sorta di Concilio moderato o temperato».

Tutto bene, dunque? No, perché i lefebvriani possono accettare questa nuova interpretazione del Concilio solo come primo passo verso un ritorno sic et simpliciter al pre-Concilio. Per esempio, a proposito dell’ecumenismo, Mons. Fellay afferma: 

«Il miscuglio, quantunque interessante, lascia ancora aperte delle questioni di logica sul ruolo che giuocano le altre confessioni cristiane… chiamate, fino a Pio XII incluso, “false religioni”. Si oserà usare finalmente questi termini di nuovo?».

Mi chiedo: che bisogno c’è di tornare a un certo tipo di linguaggio, quando i principi sono chiari? Se c’è una utilità del Concilio, che mi sembra difficile mettere in discussione, è proprio il suo approccio pastorale, tendente, in questo caso specifico, a eliminare certe espressioni di cui non si capisce l’opportunità ai nostri giorni. Possibile che Mons. Fellay non comprenda che possiamo essere autenticamente cattolici, senza dovere necessariamente apostrofare i nostri fratelli acattolici come seguaci di “false religioni” (espressione oltretutto falsa, se applicata a chi appartiene all’unica religione cristiana).

L’altro punto di divergenza sta nella individuazione delle cause dell’attuale crisi della Chiesa:

«Diciamo che una buona parte dei nostri attacchi si vede giustificata, una buona parte di ciò che noi condanniamo viene condannata. Ma se la cosa è condannata, resta la grande divergenza sulle cause. Poiché in definitiva se a proposito del Concilio è stato possibile un tale disorientamento degli spiriti, e a un tale livello, e di una tale ampiezza… ci sarà bene una causa proporzionata! Se a proposito dei testi del Concilio si constata una tale divergenza d’interpretazione, bisognerà bene un giorno convenire che le deficienze di questi testi vi svolgono una parte non da poco».

Certo, prima o poi, un discorso sui testi del Concilio e la loro corretta interpretazione, come chiede Mons. Gherardini, bisognerà pur farlo. Ma mi sembra troppo semplicistica l’analisi di Mons. Fellay: se i testi conciliari hanno prodotto interpretazioni cosí divergenti, significa che quei testi sono in sé stessi deficienti, e vanno perciò corretti. Ragionando in tal modo, si dovrebbe correggere anche il Vangelo, visto che ha dato origine a… tante eresie. Se un testo è passibile di molteplici interpretazioni (e qualsiasi testo lo è), non per questo diventa manchevole; l’importante è darne l’interpretazione corretta. Proprio per questo esiste nella Chiesa un Magistero che ci accompagna in tale sforzo ermeneutico. Che bisogno ce ne sarebbe se tutti i testi su cui si fonda la nostra fede fossero chiari in sé stessi?

Io mi vado sempre piú convincendo che i documenti conciliari sono il “massimo” che il Vaticano II poteva produrre; non possiamo chiedergli di piú. Che cosa voglio dire? Voglio dire che il Concilio Vaticano II va “storicizzato”, va inserito nel contesto storico in cui si è svolto; esso non può essere valutato con i criteri odierni. Spesso affermiamo (mi ci metto dentro io per primo) che il Concilio ha provocato la crisi della Chiesa; ormai sono giunto alla conclusione che il Concilio non è la causa, ma l’effetto della crisi. La crisi, nella Chiesa, già esisteva; essa ha radici assai profonde; bisogna andare indietro nei decenni e forse nei secoli. Per lungo tempo si è cercato di arginarla con vari interventi (si pensi alla condanna del modernismo di cento — diconsi cento! — anni fa); ma a un certo punto ciò non è stato piú possibile. In un momento di relativa (forse meglio sarebbe dire: apparente) tranquillità, un Papa pensò bene di dare voce a questo malessere diffuso nella Chiesa; e ne venne fuori il Vaticano II. Se si fosse lasciata mano libera all’ala progressista, ora non saremmo qui a discutere, dal momento che la Chiesa già oggi sarebbe solo un ricordo del passato. Il Concilio riuscí a mediare fra le diverse posizioni e a raggiungere un punto di equilibrio (di qui l’ambiguità di certi testi: solo cosí potevano essere accettati da tutti). Ovviamente dopo il Concilio, l’ala progressista, che era rimasta delusa dalle conclusioni ufficiali del Concilio, tentò di imporre le sue vedute tirando in ballo lo “spirito del Concilio”. Non si può negare che tale tendenza abbia fatto strada nella Chiesa, conquistando posizioni ragguardevoli (fra i Vescovi, nelle università pontificie e nei seminari, appunto). Per fortuna è rimasta sempre la ferma mano di Pietro a guidare la Chiesa e a interpretare correttamente il Concilio (l’interpretazione “cattolica” del Vaticano II non è una invenzione di Mons. Pozzo o di Benedetto XVI, ma è quella che è stata sempre praticata dai Papi in questi anni). Questo i lefebvriani non lo hanno mai capito: hanno pensato che il Papa fosse passato dall’altra parte; e, invece di aiutarlo, hanno cominciato ad attaccarlo. Ora pensano che la storia stia dando loro ragione; che la Chiesa sia salva grazie a loro. No, cari fratelli, la Chiesa è salva grazie alla roccia di Pietro e a tutti quei semplici fedeli che in questi anni, nel silenzio e nell’obbedienza, non si sono mai staccati da quella roccia.

Alla fine dell’intervista viene chiesto a Mons. Fellay «quale ruolo possono svolgere i fedeli legati alla Tradizione in quest’opera di restaurazione». Se mi è permesso rispondere al suo posto, vorrei dire che essi possono svolgere un ruolo fondamentale. A una condizione: a condizione che smettano di pensare a una Chiesa ideale, che esiste solo nelle loro menti, e pongano le loro energie a servizio della Chiesa reale, cosí com’è, con tutti i problemi che essa vive, sotto la guida di colui al quale, solo, è stato affidato il timone della Chiesa.

lunedì 18 ottobre 2010

De re liturgica

Lycopodium mi ha inviato il seguente messaggio:


«Mi piacerebbe conoscere il suo parere su quanto appresso:

1) TRADUZIONI. 
Io non sono tanto convinto dell’utilità di una nuova traduzione, che — oggi come oggi — si limiterebbe a utilizzare ideologicamente i diversi criteri di versione: si userebbe il “letterale”, dove c’è da snervare componenti non politicamente corrette (tipo il “quod pro vobis tradetur”, che cosí farebbe sparire la parola “sacrificio”), mentre userebbe l’“integrativo” o il “correttivo” per proporre traduzioni edulcorate (caso tipico: nella 3ª preghiera eucaristica) [veda il recente dibattito sul blog di padre Augé]. Io credo, poi, che sarebbe giusto non ripetere l’operazione verticistica che si è fatta col lezionario, che ci è stato tirato addosso senza poter protestare, tanto piú che non si tratta di uno sterile esercizio di democratismo, ma di esercitare il legittimo diritto/dovere dei christifideles...

2) ORIENTE
Cosa ne pensa di questa notizia? Allora non è vero che la storia è maestra di vita e si tenta, invece, compulsivamente di ripetere gli stessi errori degli altri?».


1. Per quanto riguarda il problema delle traduzioni, capisco la preoccupazione del lettore: il Messale attuale, almeno lo conosciamo; certo, conosciamo anche i suoi limiti; ma, tutto sommato, ci possiamo accontentare. Se ci si mette mano, non si sa che cosa può venir fuori… Il riferimento al nuovo Lezionario effettivamente fa riflettere, se non altro per le modalità con cui esso è stato pubblicato.

Devo aggiungere però, a proposito del Lezionario, che secondo me si dovrebbe distinguere fra il contenuto (la nuova versione CEI della Bibbia) e la forma (l’impostazione grafica). Per ciò che concerne il contenuto, rinvio ai miei post sulla traduzione della CEI. Mi sembra doveroso precisare però che, insieme ai limiti che ho cercato di evidenziare, non posso negare che tale traduzione ha anche dei meriti, che finora non ho messo in luce, soprattutto là dove essa si sforza di tradurre piú letteralmente il testo originale (mi riferisco soprattutto al testo greco del Nuovo Testamento). Come si sarà notato, le mie critiche sono rivolte soprattutto all’Antico Testamento (in particolar modo ai salmi).

Ciò che invece proprio non mi va, del nuovo Lezionario, è la sua grafica, che mi sembra un passo indietro rispetto all’edizione precedente, a cominciare dal carattere usato. Del tutto inutili e, soprattutto, fastidiose, le tavole (artistiche?) che sono state inserite. Qualcuno critica anche i ritornelli dei salmi, il piú delle volte lunghi e difficili da ricordare. Ma ciò dipende da uno dei criteri adottati nelle nuove traduzioni liturgiche, quello della fedeltà all’originale latino. Spero che con il tempo riusciremo a farci l’orecchio e a memorizzarli.

Se passiamo poi al Messale, la traduzione, secondo i criteri dell’istruzione Liturgiam authenticam, della terza edizione del Missale Romanum, non è una questione di gusti; è semplicemente un atto dovuto. La mancata traduzione mi sembra una gravissima inadempienza, per la quale non riesco a trovare giustificazioni. Se ci sono, sarebbe bene che venissero rese pubbliche. 

La terza edizione del Messale latino si distingue, positivamente, dalla precedente (del 1975) in numerosi punti, certo non sostanziali, ma che possono contribuire notevolmente a un miglioramento della celebrazione. È giusto quindi che sacerdoti e fedeli, dopo dieci anni dalla sua pubblicazione, possano usufruirne. Quanto alla traduzione, di per sé, la maggior parte dei testi potrebbero rimanere immutati, dal momento che nell’originale tali sono rimasti. Ma nel frattempo, e precisamente nel 2001, è stata pubblicata l’istruzione Liturgiam authenticam, che detta nuovi criteri di traduzione, che non erano ancora in vigore negli anni Settanta-Ottanta, quando furono approntate le traduzioni della prima e della seconda edizione. Piú recentemente poi è stata resa nota la lettera del Card. Arinze sulla traduzione letterale da darsi all’espressione “pro multis” nelle parole della consacrazione.

Che ci sia il rischio di un peggioramento dell’attuale traduzione, certo non lo si può escludere a priori (al peggio non c’è fine…). Ma, in linea di principio, direi che in questo campo oggi viviamo in un momento piú favorevole rispetto a quaranta anni fa. Stanno a dimostrarlo le due traduzioni del Messale in inglese, la prima e quella in procinto di entrare in vigore. Beh, non c’è confronto. È vero che è stato un lavoro immane, in certi casi una vera e propria lotta (alcuni, ancora oggi, ad approvazione avvenuta, continuano a combatterla); ma alla fine, grazie alla determinazione, in questo caso dobbiamo dirlo, della Santa Sede, ci si è arrivati. Perché non dovrebbe essere possibile arrivare a un risultato altrettanto soddisfacente in Italia (dove la cosa sarebbe, per vari fattori, di gran lunga meno laboriosa)?


2. Quanto alla, diciamo cosí, “esportazione” della riforma liturgica in Oriente, per assoluta incompetenza in materia, preferisco non pronunciarmi. In generale, penso che sia opportuno non “ideologizzare”, né dall’una né dall’altra parte, il problema. Quando si parla di riforma liturgica (ma lo stesso discorso vale per qualsiasi cosa), non possiamo essere a favore o contro per partito preso. Se è necessaria una riforma liturgica, ben venga; se non lo è, inutile porre il problema. Siccome io non so se i riti orientali abbiano bisogno di una riforma, preferisco astenermi da qualsiasi giudizio. 

Quanto alla storia magistra vitae, ciò non significa che, se in passato, nel tentativo di raggiungere un determinato obiettivo, abbiamo commesso degli errori, non dobbiamo piú perseguire quell’obiettivo per non ripetere gli stessi errori. Dobbiamo piuttosto fare tesoro dell’esperienza passata e perseguire il medesimo obiettivo (se lo riteniamo degno di essere perseguito) cercando di evitare gli errori commessi.

Entrando nel merito, dirò solo che mi pare strano che si discuta di tradurre tali liturgie nelle lingue volgari (in particolare l’arabo), perché, a quanto ne so, ciò già avviene attualmente. Aggiungerò inoltre che, in qualche caso, mi sembra che una “riforma” si renda effettivamente necessaria. Mi riferisco al rito siro-malabarese, sul quale sono informato un tantino di piú. Tale rito, siccome era praticamente scomparso, lo si sta in qualche modo “ricostruendo” ai nostri giorni. Il problema è che ognuno fa quel che vuole; gli stessi Vescovi sono divisi tra loro, avendo posizioni profondamente divergenti in materia. Penso che, almeno in questo caso, si renda davvero necessario un intervento (di chi? della Chiesa sui juris, che non è ancora una Chiesa patriarcale, o della Santa Sede?) che riporti un po’ d’ordine. 

sabato 16 ottobre 2010

In margine ai lavori sinodali

1. Confesso di non seguire attentamente i lavori del Sinodo per il Medio Oriente. Mi limito a leggere i resoconti che appaiono sui media, i quali hanno i loro criteri per la selezione delle notizie. E tali criteri — lo sappiamo — non sono sempre quelli dell’obiettività. Se si vuole un esempio di perfetta disinformazione (dove tutto, anche il Sinodo, fa brodo), si può andare a leggere l’articolo apparso ieri sul Foglio, “Islam pigliatutto. Il medio oriente si avvia allo svuotamento dei cristiani”. Non che non sia vero che le tradizionali comunità cristiane in Medio Oriente stiano subendo un progressivo assottigliamento, con rischio di vera e propria estinzione. Quel che dà noia è il modo fazioso in cui viene presentato un dato oggettivo; si tende a portare il lettore a un’unica possibile conclusione: “Islam pigliatutto”. Come se l’Islam fosse un fenomeno nuovo in quelle regioni; come se musulmani e cristiani non avessero vissuto insieme per secoli sulle stesse terre. Allora, come mai solo oggi l’Islam sta diventando “pigliatutto”? Non sarà intervenuto nel frattempo qualche altro fattore a determinare l’esodo dei cristiani da quelle regioni? Domande che, naturalmente, nessuno si pone; perché c’è una soluzione semplicissima a portata di mano, la pretesa incompatibilità fra musulmani e cristiani. Ma nessuno pensa che a far scomparire i cristiani dalla Turchia (dove — ci informa Il Foglio — ce n’erano due milioni) è stata la rivoluzione “laica” di Atatürk. Lo spopolamento di cristiani dalla Palestina non può essere certo attribuito all’Autorità nazionale palestinese o ad Hamas, ma piuttosto al conflitto che in quella terra si è innescato in seguito alla costituzione dello Stato d’Israele. La fuga dei cristiani dall’Iraq (dove essi vivevano tranquillamente anche sotto il “dittatore” Saddam, tanto che il Vicepresidente era appunto un cristiano) è iniziata proprio quando l’America ha occupato quel paese per portarvi la democrazia. Dunque la situazione è un tantino piú complessa di come Il Foglio vorrebbe farci credere. E, a pensarci bene, si potrebbe giungere a una conclusione diversa da quella proposta dal quotidiano di Ferrara.

In ogni caso, a parte le divergenze sull’interpretazione da dare al fenomeno, il fenomeno in sé non può essere in alcun modo negato. È giusto esserne preoccupati. E bene fanno i Vescovi del Medio Oriente a riflettervi sopra per trovare eventuali strategie pastorali per farvi fronte. Ma c’è un altro aspetto che si sta verificando sotto i nostri occhi, del quale però non si tiene alcun conto. Mentre ci lamentiamo che i cristiani fuggono dal Medio Oriente, non ci accorgiamo che frotte di cristiani si stanno riversando in quelle stesse regioni, anzi anche in alcuni paesi dove, di cristiani, non ce n’è mai stati punti. Si tratta di milioni (sottolineo “milioni”, non solo qualche migliaio) di lavoratori, soprattutto filippini e indiani, che si recano a lavorare nei paesi arabi. Per il momento tali comunità non sono molto visibili, sia perché non sono in alcun modo organizzate, sia perché in alcuni casi (p. es. in Arabia Saudita) è proibita qualsiasi manifestazione religiosa esteriore. Ma ciò non toglie che si stiano ponendo le premesse per una vera e propria “rivoluzione”. In alcuni emirati del Golfo i cristiani già costituiscono la maggioranza della popolazione (ovviamente senza alcun diritto). Ciò non può, alla lunga, rimanere senza conseguenze. I “nostri” lavoratori filippini e indiani — spesso sfruttati e disprezzati, forse talvolta moralmente non del tutto irreprensibili, ma certamente animati da grande fede — costituiscono una oggettiva presenza della Chiesa in regioni dove, fino a qualche tempo fa, era inconcepibile anche solo immaginare una qualche presenza cristiana. «Le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55:8): Dio ha i suoi piani, per noi spesso indecifrabili. Mentre noi ci preoccupiamo per l’esodo dei cristiani dal Medio Oriente, Dio sta rimpiazzando quelle perdite con l’arrivo di altri, forse piú numerosi, cristiani.

2. Un altro punto che ha attirato la mia attenzione è stata la richiesta, da parte dell’Esarca armeno in Argentina, Mons. Vartan Waldir Boghossian, di far partecipare i Patriarchi orientali all’elezione del Papa. Ne parla Paolo Rodari nel suo blog Palazzo Apostolico. A parte l’incoerenza dell’articolo (prima si dice che i Patriarchi non dovrebbero ricevere il titolo latino di “Cardinali”; poi si afferma che i Patriarchi chiedono di “entrare di diritto nel collegio piú esclusivo della cattolicità, il collegio cardinalizio”), la cosa non è cosí semplice come potrebbe apparire. Di fatto, un tentativo in tal senso era già avvenuto in passato: Giovanni XXIII aveva ammesso i Patriarchi delle Chiese orientali nel Collegio cardinalizio; ma ciò non era stato molto gradito dagli stessi cristiani orientali, i quali vedevano in tale gesto non tanto un riconoscimento del loro ruolo nella Chiesa cattolica, quanto piuttosto un tentativo di assimilazione alla Chiesa Romana. E non avevano tutti i torti. Attualmente fanno parte del Collegio dei Cardinali il Patriarca dei Maroniti (Sfeir), quello dei Caldei (Delly) e quello emerito dei Siri (Daoud), oltre ad alcuni Arcivescovi Maggiori.

Dove sta il problema? Il problema sta nella concezione di Chiesa che abbiamo in mente. Talvolta siamo portati a pensare che la Chiesa cattolica sia una grande organizzazione internazionale, a cui capo c’è il Papa, con tante filiali locali, a cui capo ci sono i Vescovi. Se cosí fosse, sarebbe giusto che tutti i Vescovi della Chiesa contribuissero all’elezione del loro “presidente”. Ma in realtà non è cosí: la Chiesa è una realtà un po’ piú complessa, fondamentalmente costituita da un insieme di Chiese locali in comunione fra loro. Fra queste Chiese, poi, ce n’è una — quella romana — che esercita un primato sulle altre Chiese e il cui Vescovo esercita un primato sugli altri Vescovi. Cosí come le Chiese orientali hanno le loro legittime procedure interne per l’elezione del loro Patriarca; cosí la Chiesa Romana ha adottato una sua procedura: ha affidato al Collegio dei Cardinali l’incarico di eleggere il proprio Vescovo. I Cardinali sono parte, a vario titolo (come vescovi, preti o diaconi), della Chiesa di Roma; e solo a tale titolo eleggono il Papa. Si obietterà che la stragrande maggioranza dei Cardinali oggi sono anche pastori di altre Chiese particolari. È vero; ma, a parte le poche eccezioni su riportate, tali Chiese particolari fanno tutte parte della Chiesa latina. Che cosa significa? Significa che, come in Oriente esistono varie Chiese patriarcali, anche in Occidente esiste una Chiesa “patriarcale”, che è appunto la Chiesa latina, il cui Patriarca è il Papa (titolo a cui Benedetto XVI ha incomprensibilmente rinunciato). È quindi giusto che anche alcuni Vescovi della Chiesa latina partecipino all’elezione del loro Patriarca, esattamente come avviene nelle Chiese orientali. Non avrebbe invece alcun senso che vi partecipassero i Patriarchi delle Chiese orientali.

Anche sul piano ecumenico, non credo che i nostri fratelli orientali acattolici vedrebbero di buon occhio una novità del genere, che manifesta l’idea di una “Super Chiesa”, che non rientra in alcun modo nella loro (e nostra) ecclesiologia. L’unità dei cristiani non può essere intesa come un annullamento delle autonomie e un accentramento di ogni potere nelle mani del Papa; essa piuttosto deve significare una valorizzazione delle diversità e un riconoscimento della legittima autonomia delle singole Chiese sui juris. Non si vuol negare che il Papa abbia un primato (non solo onorifico, ma anche giurisdizionale) su tutta la Chiesa, ma tale primato può essere esercitato in tanti modi diversi. Certamente non si può pretendere che il Papa eserciti il primato nei confronti delle Chiese orientali nello stesso modo in cui lo esercita all’interno della propria Chiesa patriarcale, la Chiesa latina.

venerdì 15 ottobre 2010

Di nuovo sulle traduzioni (questa volta liturgiche)

Caterina, dopo aver letto i miei post sulla nuova traduzione italiana della Bibbia, mi chiede di allargare il discorso alla traduzione dei testi liturgici contenuti nel Messale Romano. E lo fa rinviandomi a un post del blog Cantuale Antonianum dello scorso maggio: “La traduzione politicamente corretta”

Come si può vedere, avevo già commentato quel post con un «Puntuale, come al solito. Complimenti». Un commento che non posso che confermare anche in questa sede. Dobbiamo essere davvero grati a “fr. A. R.” per l’opera che sta portando avanti in favore della liturgia. Quello che fa maggiormente piacere è che non lo faccia con lo spirito nostalgico e le prevenzioni di tanti tradizionalisti dell’ultim’ora, ma in maniera intelligente.

Il post citato da Caterina dimostra una cosa solitamente messa in dubbio dai tradizionalisti: che coloro che hanno lavorato alla riforma liturgica hanno lavorato seriamente; i testi del Missale Romanum, oltre che essere ineccepibili dal punto di vista dottrinale, sono da ammirare e gustare per la loro bellezza. Certo, si potrà pure discutere su qualche singolo testo (soprattutto quelli di nuova composizione), ma nell’insieme non si può negare «la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale» (Benedetto XVI, Lettera ai vescovi di tutto il mondo per presentare il motu proprio “Summorum Pontificum”, 7 luglio 2007).

I problemi sono nati con la traduzione del Messale nelle diverse lingue. Se devo essere sincero, fino a non molto tempo fa ero convinto che la traduzione italiana non fosse poi cosí male. Soprattutto se confrontata con la traduzione inglese ancora in vigore (che, piú che una traduzione, era una libera rielaborazione nel segno della piú assoluta banalità), la traduzione italiana appariva, tutto sommato il “meno peggio”.

Giustamente fr. A. R. ci fa notare invece come non si tratta affatto di una traduzione fedele; anzi, in certi passaggi, essa si dimostra addirittura illogica. Si potrà pure concedere che i traduttori furono un po’ condizionati dall’urgenza (per quanto quella che abbiamo fra mano non è, come nel caso della traduzione inglese, la prima edizione del Messale, ma la seconda) e — diciamolo pure — dal contesto culturale in cui lavorarono, che portava appunto a censurare alcuni concetti non “politicamente corretti”.

Ciò che appare invece assolutamente incomprensibile e inaccettabile è come mai, dopo circa dieci anni dalla pubblicazione dell’editio typica tertia del Missale Romanum, non solo non ne abbiamo ancora la traduzione italiana, ma — a quanto se ne sa — non è stata neppure intrapresa. Se non altro gli anglofoni, che per quarant’anni hanno dovuto sorbirsi la loro pessima traduzione, ora sanno che il prossimo anno potranno godersi la nuova versione, che si annuncia non solo fedele all’originale latino, ma anche bella dal punto di vista letterario. Per il momento non ho avuto modo di consultare il Proprio; è però a disposizione online il testo dell’Ordinario della Messa

Che cosa stia succedendo in Italia, nessuno lo sa. Ciò appare tanto piú sorprendente, in quanto finora la Chiesa italiana era apparsa sempre all’avanguardia (si pensi, per esempio, al Messale della Beata Vergine Maria, tradotto in pochi mesi, in occasione dell’Anno mariano), tanto da costituire poi un punto di riferimento per altre conferenze episcopali. 

Si potrebbe pensare che ciò che viene oggi richiesto dall’istruzione Liturgiam authenticam (28 marzo 2001), vale a dire una traduzione fedele dell’originale latino, sia pressoché irrealizzabile. Una traduzione “dinamica” dovrebbe necessariamente subentrare a una impossibile traduzione “statica”. Fr. A. R., nel suo piccolo, ci dimostra invece che è possibile tradurre fedelmente l’originale latino, senza con questo renderci incomprensibili. Semmai, incomprensibili sono molti testi “politicamente corretti” che infarciscono le nostre attuali liturgie (si pensi a certe intenzioni della preghiera dei fedeli…).

Ma forse non tutto il male vien per nuocere. Il ritardo nella pubblicazione della traduzione italiana della terza edizione del Missale Romanum potrebbe essere provvidenziale. Dopo l’elezione di Benedetto XVI molte cose stanno cambiando in campo liturgico, per esempio riguardo a una rivalutazione del latino nella celebrazione. A questo proposito, mi pare molto interessante un recente post di Cantuale Antonianum, dove si propone la stampa di messali bilingui, in latino e in italiano. 

La proposta mi trova pienamente d’accordo, anche se l’esperienza mi insegna che oggi è veramente difficile trovare sacerdoti (e vescovi!) che conoscano il latino. Ma questo è il risultato di una certa politica, fatta di tante piccole scelte che, a poco a poco, hanno portato alla marginalizzazione del latino nella vita della Chiesa. Tra queste piccole scelte si può annoverare anche la decisione, in Italia, di pubblicare il Missale parvum separatamente (era inevitabile che in tal modo finisse nelle biblioteche), mentre invece esso era destinato a essere pubblicato in appendice ai messali nelle lingue vernacole. Per fortuna, in questo caso non si può scaricare la responsabilità sul povero Paolo VI, che invece fece di tutto per salvaguardare l’uso del latino nella liturgia. Alle prove portate da fr. A. R. personalmente posso aggiungere alcuni ricordi personali. Tutti gli anni, quando, all’inizio della Quaresima, riceveva il clero romano, lasciava loro sempre un dono: un anno fu, appunto, il Missale parvum, e un altro anno addirittura l’intero lezionario latino. Nel 1977 fece pubblicare un Missale Romanum cum lectionibus in quattro volumi in formato tascabile (come i volumi della Liturgia delle ore), oggi praticamente introvabile. Paolo VI desiderava vivamente che la liturgia rimanesse “latina” almeno per il clero; altri, non so se in mala fede o se presagendo l’evoluzione dei tempi, lavorarono per la pratica scomparsa del latino.

I tempi sembrano ormai maturi per un maggiore equilibrio. Una nuova edizione del Messale, che contenga il testo latino con accanto una nuova traduzione, piú fedele all’originale, penso che sarebbe un grande contributo in questo senso.

mercoledì 13 ottobre 2010

"Partiamo male!"

«Partiamo male!», avrebbe detto un vaticanista inglese alla conferenza stampa per la presentazione del motu proprio con cui si istituisce il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”. Perché, secondo il giornalista, si sarebbe partiti male? Perché la lettera apostolica Ubicumque et semper è stata pubblicata soltanto in latino (il testo ufficiale) e nella traduzione italiana.

Certo, si potrebbe ribattere al vaticanista che, di per sé, la Santa Sede non sarebbe tenuta a fornire le traduzioni dei suoi documenti in tutte le lingue: potrebbe essere sufficiente pubblicare i documenti nella lingua ufficiale della Chiesa (il latino); altri poi dovrebbero provvedere a tradurli (è ciò che di fatto è già avvenuto: Zenit ha già tradotto il motu proprio in inglese e spagnolo). Probabilmente un tempo avveniva proprio cosí; ma — diciamoci la verità — è tollerabile che oggi, sia per la generalizzata ignoranza del latino, sia per la effettiva internazionalizzazione della Chiesa, un documento venga pubblicato, oltre che nel suo testo originale, esclusivamente in traduzione italiana? Ci credo che poi parlano di “deitalianizzare” la Curia!

Ma quello che mi interessa non è tanto il fatto in sé stesso, quanto una situazione generale della Curia Romana, di cui quel fatto è solo una manifestazione. Mi spiego: ho l’impressione che, negli ultimi tempi, si stiano moltiplicando le occasioni che dimostrano la superficialità, l’improvvisazione, il pressappochismo di chi gestisce attualmente l’apparato curiale.

Gli esempi piú recenti che mi vengono in mente: un anno fa fu annunciata l’istituzione di ordinariati personali per l’accoglienza di gruppi di anglicani che chiedono di essere ammessi nella Chiesa cattolica; la relativa costituzione apostolica fu pubblicata solo dopo alcune settimane. Durante l’Anno sacerdotale era stato annunciato che esso si sarebbe concluso con la proclamazione del Santo Curato d’Ars come patrono dei sacerdoti; alla fine non se ne fece nulla. Prima del recente viaggio nel Regno Unito, era stato annunciato che il Papa avrebbe utilizzato nelle liturgie la nuovissima traduzione inglese, appena approvata, del Messale Romano; poi invece è stata usata la vecchia versione. A questo si potrebbero aggiungere le mancate traduzioni — che hanno rovinato l’estate di Raffaella… —  dei documenti papali sul sito della Santa Sede (qualcuno era arrivato al punto di ipotizzare un vero e proprio boicottaggio nei confronti del Santo Padre).

Capisco che si tratta di fenomeni di diversissima natura, che possono essere spiegati in tanti modi diversi. Ma c’è una cosa che li accomuna tutti: dànno un’impressione di scarsa professionalità. Mi chiedo: che bisogno c’è di annunciare qualcosa, quando non si è sicuri che poi quella cosa si realizzerà? In certi casi, meglio stare zitti. Talvolta sembra quasi che ci si voglia fare belli a divulgare una notizia, quando non è ancora del tutto sicura, senza rendersi conto che certe decisioni richiedono diversi passaggi e a un certo punto potrebbero, per un motivo o per l’altro, incepparsi. Cosí per le traduzioni: non si potrebbe attendere un giorno in piú per la conferenza stampa, in modo da avere a disposizione le diverse traduzioni? Se a Zenit riescono ad approntarle in poche ore, perché questo non dovrebbe essere possibile in Curia? Ripeto: scarsa professionalità.

Direte: nihil sub sole novi; da che mondo è mondo (pardon, da che Chiesa è Chiesa), è sempre stato cosí. Il Card. Biffi era solito replicare, a quanti sostengono che la Chiesa è una grande organizzazione internazionale, che in realtà si tratta della piú grande disorganizzazione di tutti i tempi. A volere, si potrebbe anche usare tale disorganizzazione come ulteriore prova della soprannaturalità della Chiesa: se essa è riuscita a sopravvivere nonostante tale disorganizzazione, vuol dire proprio che non è una realtà puramente umana.

Ma ciò non toglie che la disorganizzazione rimanga e vada condannata. A tale disorganizzazione non possono essere attribuite cause preternaturali (è colpa del diavolo…), ma puramente umane. Se in Curia ci sono degli incompetenti, sarebbe bene che si facessero da parte. Altrimenti saremo costretti a concludere che, quando il Santo Padre nei suoi interventi parla di arrivismo e carrierismo fra il clero, non stia parlando in generale, ma si riferisca a qualche situazione particolare a lui nota.

domenica 10 ottobre 2010

Ancora sulla Settanta

Vorrei tornare su un argomento da me toccato alcuni giorni fa nel post su “La nuova traduzione della CEI” (29 settembre 2010). In quel post lamentavo la preferenza data in tale versione (come del resto in tutte le traduzioni moderne della Bibbia) al testo masoretico rispetto alla versione greca dei Settanta.

Proprio ieri Avvenire (si veda, nell’archivio storico, a p. 25 del numero del 9 ottobre, l’articolo “Settanta radici ebraiche del cristianesimo”) ha pubblicato una recensione del volume di Natalio Fernández Marcos, Septuaginta. La Bibbia di ebrei e cristiani, Morcelliana. Vi consiglio di leggere questa recensione, perché riassume brevemente la storia delle due tradizioni parallele (quella del testo masoretico e quella dei Settanta), mettendo in chiaro che «le due religioni, l’ebraica e la cristiana, fin dall’inizio si riferirono a due corpi scritturali non identici, diversi nella lingua e parzialmente nella composizione dei testi. La Septuaginta era certamente una Bibbia tradotta da ebrei per gli ebrei di Alessandria che non parlavano piú ebraico bensí greco (tradotta precisamente da chi, è ancora tema di discussione tra gli studiosi), ma con il declinare di quella comunità venne abbandonata proprio mentre, a poco a poco, diventava la Bibbia adottata dalla nuova religione, quella cristiana, e mentre il giudaismo rabbinico fissava il suo canone e la sua versione in ebraico tradizionale, ossia masoretico» (dopo tali premesse, faccio fatica a capire la conclusione dell’autore: «Si devono rispettare ambedue le tradizioni, quella ebraica e quella greca, senza tentare di ridurre o di adattare l’una all’altra»; bisognerà leggersi il volume per intero).

Nel discorso pronunciato a Ratisbona il 12 settembre 2006, Benedetto XVI, parlando dell’“ellenizzazione” del cristianesimo, aveva detto a proposito della Settanta:

«Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria — la “Settanta” —, è piú di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro [= l’incontro tra la fede biblica e la “parte migliore” del pensiero greco] in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo».

Lo stesso Concilio Vaticano II aveva usato un’espressione molto forte a proposito della Settanta: 

«La Chiesa fin dagli inizi accolse come sua l’antichissima versione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta» (Dei Verbum, n. 22).

Dopo tali premesse, non capisco come, quando si tratta di tradurre l’Antico Testamento, ci si senta in dovere di ricorrere al testo masoretico, quasi che questo costituisca il “testo originale”, mentre in realtà si tratta solo di una testimonianza, di una tradizione, alla quale però i primi cristiani hanno preferito un’altra tradizione e l’hanno fatta propria.

I risultati di questa tendenza possono dare risultati in qualche caso aberranti. Faccio un esempio. Parlavo nel post del 29 settembre della parola ’elohim, tradotta in alcuni casi dai LXX con “angeli” (anziché col letterale “Dio/dèi”). Ebbene, uno di questi casi è il Salmo 8. Finora la traduzione della CEI, con la LXX, aveva tradotto: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (vv. 5-6). La nuova traduzione, invece, seguendo il testo ebraico, suona: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato».

Direte voi: beh, questa nuova traduzione non è poi cosí male (fra l’altro ha anche una certa musicalità); dire che l’uomo è poco meno di un dio, tutto sommato, è giusto. Certo, se noi “contestualizziamo” il salmo nell’ambiente in cui è stato scritto (che forse non era ancora giunto al pieno monoteismo, ma si trovava ancora in una fase “enoteistica”), possiamo dire che l’uomo è poco meno di un dio. Ma dirlo oggi (e, fino a prova contraria, i salmi non sono letti nella Chiesa come testimonianze letterarie del passato, ma come preghiera dei cristiani di oggi) mi suona un po’ male, quasi che noi credessimo nell’esistenza di piú divinità.

Ma l’inconveniente maggiore è che, dei salmi, un cristiano dovrebbe dare una lettura cristologica: quell’uomo, di cui parla il Salmo 8, è innanzi tutto l’Uomo per eccellenza, Gesú Cristo. Ma la nuova traduzione mi impedisce di dare tale lettura, perché, se dico che Cristo è poco meno di un dio, dico semplicemente un’eresia (perché lui è Dio); mentre dire che è stato fatto “poco meno degli angeli”, lo posso fare tranquillamente, perché è evidente che mi sto riferendo alla sua umanità. Ed è esattamente ciò che ha fatto la lettera agli Ebrei, che, citando la Settanta, ha applicato a Cristo il passo di quel salmo (2:6-8).

Se il Nuovo Testamento, per citare l’Antico, si serviva della Settanta, perché mai noi dobbiamo ricorrere al testo masoretico?