Come al solito, riporto l’articolo da me pubblicato sul n. 3 dell’Eco dei Barnabiti (luglio-settembre 2010), pp. 12-16, per la rubrica “Osservatorio ecclesiale”.
Potrebbe apparire una indebita invasione di campo quella che compie l’“Osservatorio ecclesiale” in una rivista che ormai da anni dedica una rubrica fissa all’ecumenismo, letta e apprezzata anche fuori Congregazione. Ma verremmo meno al nostro proposito di “osservatori” se ci astenessimo dall’esaminare che cosa è avvenuto negli ultimi cinque anni (da quando cioè è diventato papa Benedetto XVI) in questo specifico settore di attività della Chiesa.
Uno degli stereotipi più ricorrente sull’attuale pontefice (del resto già diffuso all’epoca in cui era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede) è quello che egli sia un conservatore reazionario, affossatore del Concilio e nemico di qualsiasi rinnovamento ecclesiale. È ovvio che, a chi considera Papa Ratzinger sotto tale luce, egli non possa che apparire anche un fiero oppositore dell’ecumenismo, che fu una delle preoccupazioni principali del Concilio Vaticano II.
In realtà, se andiamo a leggere il primo intervento di Benedetto XVI dopo l’elezione (il discorso pronunciato al termine della concelebrazione eucaristica con i cardinali elettori nella Cappella Sistina, il 20 aprile 2005), vi troveremo scritto:
«Nell’accingermi al servizio che è proprio del Successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei Predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa. Ricorrerà proprio quest’anno il 40.mo anniversario della conclusione dell’Assise conciliare (8 dicembre 1965). Col passare degli anni, i documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata».
Questo per chiarire la posizione del nuovo pontefice nei confronti di quel Concilio a cui egli aveva partecipato come perito e al quale aveva dato un significativo contributo. Dunque, nessun ripensamento e, tanto meno, nessuna abiura del Vaticano II. Semmai, una quanto mai opportuna precisazione (che sarebbe stata successivamente illustrata nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005) sul modo di attuare il Concilio: «sulla scia dei miei Predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa». Una indicazione preziosa, su cui torneremo. A proposito dell’ecumenismo, in quella stessa occasione, Papa Ratzinger ebbe a dire:
«Con piena consapevolezza … all’inizio del suo ministero nella Chiesa di Roma che Pietro ha irrorato col suo sangue, l’attuale suo Successore si assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere. Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo.
«Il dialogo teologico è necessario, l’approfondimento delle motivazioni storiche di scelte avvenute nel passato è pure indispensabile. Ma ciò che urge maggiormente è quella “purificazione della memoria”, tante volte evocata da Giovanni Paolo II, che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo. È davanti a Lui, supremo Giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a Lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli.
«L’attuale Successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo. Sulla scia dei suoi Predecessori, egli è pienamente determinato a coltivare ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l’intesa con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali. Ad essi, anzi, invia anche in questa occasione il più cordiale saluto in Cristo, unico Signore di tutti».
Si tratta, come è normale in queste circostanze, di una “dichiarazione d’intenti”, di un impegno programmatico preso nel momento in cui si intraprende un mandato. Ora che sono passati cinque anni da quella data, possiamo chiederci: che ne è stato di quell’impegno? È stato fedele Benedetto XVI al suo proposito ecumenico? E, se sì, adottando quali mezzi e quale stile?
Se guardiamo al quinquennio trascorso, ci accorgeremo che l’impegno ecumenico di Benedetto XVI si è rivolto soprattutto in tre direzioni: verso l’ortodossia, verso gli anglicani, e verso il movimento lefebvriano. Si noterà che mancano in questo elenco le comunità nate dalla Riforma: potrà sembrare strano che un uomo, proveniente da un paese in cui la maggioranza relativa della popolazione è di fede evangelica, non si sia distinto nel dialogo con i luterani. Va detto che i rapporti con i protestanti sono stati sempre buoni (basti pensare alla visita alla chiesa evangelica luterana di Roma, svoltasi il 14 marzo scorso); ma va anche serenamente riconosciuto che l’ecumenismo con i figli della Riforma è quello più difficile, per evidenti motivi storici e dottrinali.
1. Ortodossi
Il dialogo con gli ortodossi ha invece conosciuto negli ultimi tempi un’accelerazione, che sarebbe stata semplicemente impensabile fino a qualche anno fa. Bisogna dire che i rapporti con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli (importante da un punto di vista storico e di prestigio, ma numericamente del tutto inconsistente) sono sempre stati cordiali (a cominciare dallo storico abbraccio del 5 gennaio 1964 fra il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, con la conseguente reciproca abolizione delle scomuniche del 7 dicembre 1965). Ciò che invece faceva problema era soprattutto il rapporto con la Chiesa Ortodossa Russa (quella numericamente più importante fra le Chiese ortodosse). Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che pure aveva fatto non poco per l’ecumenismo, i rapporti con gli ortodossi russi erano stati estremamente tesi, un po’ forse per motivi etnici (la storica rivalità fra russi e polacchi); un po’ per l’arrivo di missionari cattolici in Russia a seguito del crollo del comunismo (arrivo che fu visto dagli ortodossi come una sorta di “invasione” e di “conquista”, e provocò ricorrenti accuse di “proselitismo”); un po’ anche — va tranquillamente riconosciuto — per alcune scelte forse poco ponderate (come la costituzione, nel 2002, di quattro diocesi cattoliche nel territorio canonico di quella Chiesa o, nel 2003, la ventilata istituzione, poi necessariamente rientrata, del patriarcato greco-cattolico di Kiev). Non sarebbe giusto però passare sotto silenzio un gesto lì per lì apparentemente insignificante, ma gravido di conseguenze positive per il futuro, avvenuto pochi mesi prima della morte di Papa Wojtyła: la restituzione, nel 2004, dell’icona della Madonna di Kazan alla Chiesa Ortodossa Russa.
Con l’elezione di Papa Ratzinger tutto è improvvisamente mutato. Anche in questo caso avrà giocato un po’ il fattore etnico; un po’ la stima che il teologo Ratzinger ha sempre goduto nel mondo ortodosso; sta di fatto che abbiamo assistito a un inatteso e immediato disgelo. A ciò si aggiunga, nel 2008, la scomparsa del vecchio Patriarca Alessio e l’elezione del Metropolita Cirillo, che era stato per diversi anni “ministro degli esteri” del Patriarcato di Mosca e aveva perciò avuto la possibilità di conoscere a fondo la Chiesa cattolica e, in particolare, di apprezzare le posizioni teologiche del Card. Ratzinger. Cirillo, quando era ancora metropolita, aveva avuto modo di incontrare Papa Ratzinger due volte. Ovviamente, dopo l’elevazione di Cirillo al patriarcato, non c’è stato più alcun incontro; ma oggi un incontro fra il papa e il patriarca di Mosca non appare più una cosa impossibile.
Nel frattempo ci sono stati innumerevoli segnali di distensione. Ha iniziato Benedetto XVI nel 2007, sostituendo l’arcivescovo di Mosca Mons. Tadeusz Kondrusiewicz (di origine polacca) con l’italiano Paolo Pezzi.
Si è inoltre creata una perfetta sintonia fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti del mondo secolarizzato odierno. Sul piano dei principi morali c’è una totale identità di vedute fra le due Chiese. Qualcuno ha parlato addirittura di “santa alleanza” fra cattolici e ortodossi in vista della “nuova evangelizzazione”.
Non vanno trascurati poi i tanti piccoli gesti di reciproca attenzione e buon vicinato, che si sono susseguiti negli ultimi mesi, e che stanno a dimostrare come il clima fra le due Chiese sia profondamente mutato. Lo scorso dicembre il Patriarcato di Mosca ha pubblicato un’antologia di testi di Benedetto XVI sull’Europa. La Santa Sede ha ricambiato la cortesia pubblicando a sua volta una raccolta di interventi del Patriarca Cirillo sulla dignità e i diritti dell’uomo. Nel maggio scorso si sono svolte a Roma le “Giornate della cultura e della spiritualità russa”, durante le quali, fra l’altro, il Patriarcato di Mosca ha offerto un concerto a Benedetto XVI, a cui ha presenziato il successore di Cirillo nella carica di responsabile dei rapporti esterni del Patriarcato, il Metropolita Hilarion.
Non vanno infine dimenticati i colloqui della Commissione mista per il dialogo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che negli ultimi anni si sono focalizzati su un tema di estrema importanza per i rapporti fra le due Chiese: “conciliarità e autorità” (nel cui contesto va affrontata la delicata questione del primato romano). Sedi degli incontri sono state, successivamente, Belgrado, Ravenna, Creta, Cipro e Antelias (Libano). Di particolare importanza il documento sottoscritto a Ravenna nel 2007, nel quale si riconosce apertamente che «il vescovo di Roma è il protos tra i patriarchi» (restando le divergenze sulle prerogative del vescovo di Roma in quanto protos).
2. Anglicani
Non è un mistero che la Chiesa anglicana è stata agitata negli ultimi anni da non poche controversie, che ne hanno messo a rischio l’unità. In particolare, le polemiche si sono appuntate su tre questioni: l’ammissione delle donne al sacerdozio prima e poi all’episcopato; l’elezione di alcuni vescovi apertamente omosessuali; la benedizione di coppie dello stesso sesso. Già negli anni passati, alle prime avvisaglie di questi fenomeni, c’erano state persone, soprattutto membri del clero, che, in contrasto con le decisioni delle rispettive comunità, avevano chiesto di essere ammesse nella Chiesa cattolica. Ma si trattava di casi individuali, che vennero affrontati con una normativa espressamente predisposta nel 1982. Nel frattempo intere comunità si erano progressivamente separate dalla Comunione anglicana, dando vita a strutture parallele (come, per esempio, la Traditional Anglican Communion). Alcune di queste comunità si erano rivolte negli anni scorsi alla Santa Sede per sondare la possibilità di una eventuale adesione “corporativa” alla Chiesa cattolica, conservando le tradizioni — spirituali, liturgiche e disciplinari — proprie della Chiesa anglicana. Alcuni vescovi anglicani avevano già sottoscritto il Catechismo della Chiesa cattolica. Si trattava ora di trovare le forme canoniche per rendere possibile una tale adesione.
È la questione a cui ha dato risposta Benedetto XVI con la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus del 4 novembre 2009, con la quale vengono istituiti ordinariati personali per gli anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa cattolica.
Alcuni hanno voluto vedere nella Costituzione apostolica una battuta d’arresto nel cammino ecumenico. Qualcuno è giunto al punto di parlare di “pirateria” romana in acque anglicane, rimpiangendo i “documenti realmente ecumenici” dell’ARCIC (la commissione internazionale anglicano-cattolica), che saranno stati anche belli sulla carta, ma non hanno avvicinato di un centimetro le posizioni di anglicani e cattolici; hanno anzi permesso che gli anglicani (dimostrando così una totale insensibilità ecumenica) introducessero nelle loro Chiese novità assolutamente inaccettabili per cattolici e ortodossi.
Sensibilità ecumenica che invece si manifesta nella decisione di istituire ordinariati personali. Se avesse voluto, Benedetto XVI avrebbe potuto istituire una sorta di Chiesa “uniate” anglicana, simile alle Chiese orientali cattoliche; non lo ha fatto proprio per rispetto alla Comunione anglicana, limitandosi a creare una struttura giuridica agile, che permettesse agli anglicani di entrare nella Chiesa cattolica conservando le loro tradizioni.
3. Lefebvriani
Qualcuno dirà: E che c’entrano i lefebvriani con l’ecumenismo? Solitamente, quando pensiamo all’ecumenismo, pensiamo al dialogo con le Chiese e le Comunità ecclesiali che si sono separate da Roma nei secoli passati: fondamentalmente, gli ortodossi e i protestanti. Ma a nessuno viene in mente che ci possono essere gruppi che sono usciti solo recentemente dalla comunione con la Chiesa cattolica, magari in nome della tradizione cattolica che, a loro dire, sarebbe stata tradita da Roma.
Ed è proprio in tale prospettiva ecumenica che Benedetto XVI ha affrontato la delicata questione della riconciliazione con il movimento fondato da Mons. Marcel Lefebvre. Lo dice lui stesso espressamente nella lettera ai vescovi riguardante la remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre (10 marzo 2009):
«Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani — per l’ecumenismo — è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce — è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore … Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie».
Forse non avrà fatto molto piacere ai lefebvriani sentirsi oggetto di quell’ecumenismo da loro tanto criticato come una delle “novità” del Vaticano II; ma per un uomo profondamente conciliare come Benedetto XVI non può essere che questo l’atteggiamento da tenere anche nei loro confronti. Probabilmente in questa attenzione, da alcuni giudicata eccessiva, verso il movimento lefebvriano gioca anche un fattore personale: che lo “scisma” si sia consumato sotto i suoi occhi, quando egli era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Era lui che dovette gestire, per conto di Giovanni Paolo II, le trattative con Mons. Lefebvre; ma, come sappiamo, le cose andarono a rotoli. Penso che lo consideri come un punto di onore riuscire a ricucire quello scisma prima di morire. Pur di raggiungere tale obiettivo, è stato disposto a fare tutte le concessioni possibili e immaginabili, dalla remissione della scomunica ai quattro vescovi ordinati da Mons. Lefebvre, alla liberalizzazione della Messa tridentina, all’apertura di colloqui ufficiali fra le due parti. Tali provvedimenti hanno attirato sul papa non poche critiche e incomprensioni; ma evidentemente si tratta di un prezzo da pagare, che Benedetto XVI aveva già previsto e serenamente accettato. Si tratterà ora di vedere se dall’altra parte ci sarà altrettanta disponibilità e apertura.
Conclusione
Quali considerazioni possiamo fare dopo aver “osservato” ciò che è avvenuto in questi cinque anni di pontificato in campo ecumenico? È vera l’impressione di alcuni, secondo cui l’ecumenismo ha segnato una battuta d’arresto? che le attese e le speranze suscitate dal Concilio sono state tradite?
Non possiamo certo dire che tutto procede come prima, che nulla è cambiato. Va riconosciuto che c’è stata una “svolta”; ma questo non perché Benedetto XVI non sia un papa ecumenico, bensì perché ha capito che un certo ecumenismo praticato negli anni passati non portava da nessuna parte. Oltre i sorrisi, le strette di mano, le preghiere comuni, i colloqui spesso inconcludenti, non si andava. Anzi, si ha l’impressione che quell’ecumenismo di facciata coprisse una realtà ben diversa: un progressivo, ulteriore allontanamento fra le diverse confessioni. Basti vedere che cosa è avvenuto, in questi anni di “ecumenismo”, all’interno della Comunione anglicana.
E non è un caso che ciò sia avvenuto. È la conseguenza inevitabile dei presupposti sbagliati da cui muoveva quell’ecumenismo: si pensava che per superare le divisioni, si dovesse cercare un minimo comun denominatore su cui tutti potessero trovarsi d’accordo; che si dovesse tacere delle diversità che ci separano; che, per trovare un’intesa, si dovesse adottare un certo “relativismo”… E invece ci siamo accorti che, battendo questa strada, ci si allontanava ancora di più.
Ecco allora l’intuizione di Benedetto XVI: il dialogo ecumenico va condotto nella verità, senza nascondere nulla di ciò che ci caratterizza (e spesso ci divide). Se proprio va cercato un terreno comune su cui condurre il dialogo, questo non può essere il relativismo oggi in voga, ma il ritorno alle fonti della rivelazione e della vita cristiana: la Scrittura (e su questo sono tutti d’accordo) e — ecco la novità, a cui nessuno aveva finora pensato — la tradizione (considerata anzi finora come un ostacolo e quindi come uno di quegli elementi da mettere tra parentesi nel dialogo ecumenico). Non può esistere una Chiesa che tagli le proprie radici, che interrompa il nesso con il suo passato. E, a quanto pare, muovendosi su questo terreno, l’ecumenismo, nonché arrestarsi, incomincia a dare i suoi frutti: sono molto più di quanto non si pensi i cristiani disposti a confrontarsi, oltre che sulla Scrittura, anche sul terreno della tradizione. Solo recuperando le proprie radici comuni, i cristiani realizzeranno di essere rami della medesima pianta, di appartenere alla stessa famiglia; scopriranno di essere non solo figli dello stesso Padre, ma anche della medesima Madre.