sabato 16 ottobre 2010

In margine ai lavori sinodali

1. Confesso di non seguire attentamente i lavori del Sinodo per il Medio Oriente. Mi limito a leggere i resoconti che appaiono sui media, i quali hanno i loro criteri per la selezione delle notizie. E tali criteri — lo sappiamo — non sono sempre quelli dell’obiettività. Se si vuole un esempio di perfetta disinformazione (dove tutto, anche il Sinodo, fa brodo), si può andare a leggere l’articolo apparso ieri sul Foglio, “Islam pigliatutto. Il medio oriente si avvia allo svuotamento dei cristiani”. Non che non sia vero che le tradizionali comunità cristiane in Medio Oriente stiano subendo un progressivo assottigliamento, con rischio di vera e propria estinzione. Quel che dà noia è il modo fazioso in cui viene presentato un dato oggettivo; si tende a portare il lettore a un’unica possibile conclusione: “Islam pigliatutto”. Come se l’Islam fosse un fenomeno nuovo in quelle regioni; come se musulmani e cristiani non avessero vissuto insieme per secoli sulle stesse terre. Allora, come mai solo oggi l’Islam sta diventando “pigliatutto”? Non sarà intervenuto nel frattempo qualche altro fattore a determinare l’esodo dei cristiani da quelle regioni? Domande che, naturalmente, nessuno si pone; perché c’è una soluzione semplicissima a portata di mano, la pretesa incompatibilità fra musulmani e cristiani. Ma nessuno pensa che a far scomparire i cristiani dalla Turchia (dove — ci informa Il Foglio — ce n’erano due milioni) è stata la rivoluzione “laica” di Atatürk. Lo spopolamento di cristiani dalla Palestina non può essere certo attribuito all’Autorità nazionale palestinese o ad Hamas, ma piuttosto al conflitto che in quella terra si è innescato in seguito alla costituzione dello Stato d’Israele. La fuga dei cristiani dall’Iraq (dove essi vivevano tranquillamente anche sotto il “dittatore” Saddam, tanto che il Vicepresidente era appunto un cristiano) è iniziata proprio quando l’America ha occupato quel paese per portarvi la democrazia. Dunque la situazione è un tantino piú complessa di come Il Foglio vorrebbe farci credere. E, a pensarci bene, si potrebbe giungere a una conclusione diversa da quella proposta dal quotidiano di Ferrara.

In ogni caso, a parte le divergenze sull’interpretazione da dare al fenomeno, il fenomeno in sé non può essere in alcun modo negato. È giusto esserne preoccupati. E bene fanno i Vescovi del Medio Oriente a riflettervi sopra per trovare eventuali strategie pastorali per farvi fronte. Ma c’è un altro aspetto che si sta verificando sotto i nostri occhi, del quale però non si tiene alcun conto. Mentre ci lamentiamo che i cristiani fuggono dal Medio Oriente, non ci accorgiamo che frotte di cristiani si stanno riversando in quelle stesse regioni, anzi anche in alcuni paesi dove, di cristiani, non ce n’è mai stati punti. Si tratta di milioni (sottolineo “milioni”, non solo qualche migliaio) di lavoratori, soprattutto filippini e indiani, che si recano a lavorare nei paesi arabi. Per il momento tali comunità non sono molto visibili, sia perché non sono in alcun modo organizzate, sia perché in alcuni casi (p. es. in Arabia Saudita) è proibita qualsiasi manifestazione religiosa esteriore. Ma ciò non toglie che si stiano ponendo le premesse per una vera e propria “rivoluzione”. In alcuni emirati del Golfo i cristiani già costituiscono la maggioranza della popolazione (ovviamente senza alcun diritto). Ciò non può, alla lunga, rimanere senza conseguenze. I “nostri” lavoratori filippini e indiani — spesso sfruttati e disprezzati, forse talvolta moralmente non del tutto irreprensibili, ma certamente animati da grande fede — costituiscono una oggettiva presenza della Chiesa in regioni dove, fino a qualche tempo fa, era inconcepibile anche solo immaginare una qualche presenza cristiana. «Le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55:8): Dio ha i suoi piani, per noi spesso indecifrabili. Mentre noi ci preoccupiamo per l’esodo dei cristiani dal Medio Oriente, Dio sta rimpiazzando quelle perdite con l’arrivo di altri, forse piú numerosi, cristiani.

2. Un altro punto che ha attirato la mia attenzione è stata la richiesta, da parte dell’Esarca armeno in Argentina, Mons. Vartan Waldir Boghossian, di far partecipare i Patriarchi orientali all’elezione del Papa. Ne parla Paolo Rodari nel suo blog Palazzo Apostolico. A parte l’incoerenza dell’articolo (prima si dice che i Patriarchi non dovrebbero ricevere il titolo latino di “Cardinali”; poi si afferma che i Patriarchi chiedono di “entrare di diritto nel collegio piú esclusivo della cattolicità, il collegio cardinalizio”), la cosa non è cosí semplice come potrebbe apparire. Di fatto, un tentativo in tal senso era già avvenuto in passato: Giovanni XXIII aveva ammesso i Patriarchi delle Chiese orientali nel Collegio cardinalizio; ma ciò non era stato molto gradito dagli stessi cristiani orientali, i quali vedevano in tale gesto non tanto un riconoscimento del loro ruolo nella Chiesa cattolica, quanto piuttosto un tentativo di assimilazione alla Chiesa Romana. E non avevano tutti i torti. Attualmente fanno parte del Collegio dei Cardinali il Patriarca dei Maroniti (Sfeir), quello dei Caldei (Delly) e quello emerito dei Siri (Daoud), oltre ad alcuni Arcivescovi Maggiori.

Dove sta il problema? Il problema sta nella concezione di Chiesa che abbiamo in mente. Talvolta siamo portati a pensare che la Chiesa cattolica sia una grande organizzazione internazionale, a cui capo c’è il Papa, con tante filiali locali, a cui capo ci sono i Vescovi. Se cosí fosse, sarebbe giusto che tutti i Vescovi della Chiesa contribuissero all’elezione del loro “presidente”. Ma in realtà non è cosí: la Chiesa è una realtà un po’ piú complessa, fondamentalmente costituita da un insieme di Chiese locali in comunione fra loro. Fra queste Chiese, poi, ce n’è una — quella romana — che esercita un primato sulle altre Chiese e il cui Vescovo esercita un primato sugli altri Vescovi. Cosí come le Chiese orientali hanno le loro legittime procedure interne per l’elezione del loro Patriarca; cosí la Chiesa Romana ha adottato una sua procedura: ha affidato al Collegio dei Cardinali l’incarico di eleggere il proprio Vescovo. I Cardinali sono parte, a vario titolo (come vescovi, preti o diaconi), della Chiesa di Roma; e solo a tale titolo eleggono il Papa. Si obietterà che la stragrande maggioranza dei Cardinali oggi sono anche pastori di altre Chiese particolari. È vero; ma, a parte le poche eccezioni su riportate, tali Chiese particolari fanno tutte parte della Chiesa latina. Che cosa significa? Significa che, come in Oriente esistono varie Chiese patriarcali, anche in Occidente esiste una Chiesa “patriarcale”, che è appunto la Chiesa latina, il cui Patriarca è il Papa (titolo a cui Benedetto XVI ha incomprensibilmente rinunciato). È quindi giusto che anche alcuni Vescovi della Chiesa latina partecipino all’elezione del loro Patriarca, esattamente come avviene nelle Chiese orientali. Non avrebbe invece alcun senso che vi partecipassero i Patriarchi delle Chiese orientali.

Anche sul piano ecumenico, non credo che i nostri fratelli orientali acattolici vedrebbero di buon occhio una novità del genere, che manifesta l’idea di una “Super Chiesa”, che non rientra in alcun modo nella loro (e nostra) ecclesiologia. L’unità dei cristiani non può essere intesa come un annullamento delle autonomie e un accentramento di ogni potere nelle mani del Papa; essa piuttosto deve significare una valorizzazione delle diversità e un riconoscimento della legittima autonomia delle singole Chiese sui juris. Non si vuol negare che il Papa abbia un primato (non solo onorifico, ma anche giurisdizionale) su tutta la Chiesa, ma tale primato può essere esercitato in tanti modi diversi. Certamente non si può pretendere che il Papa eserciti il primato nei confronti delle Chiese orientali nello stesso modo in cui lo esercita all’interno della propria Chiesa patriarcale, la Chiesa latina.