Il Signor Peter Moscatelli, dopo aver letto il post del 27 settembre “Vetus et Novus Ordo”, mi ha inviato alcune riflessioni personali:
«Premetto che ho conosciuto il Rito Romano Antico da adulto e che piú lo conosco, piú mi affascina, direi addirittura che piú mi innamora. Già da piccolo mi disturbava il fatto che, benché la mamma mi avesse spiegato che la S. Messa è un sacrificio, io questo sacrificio non riuscivo proprio a vederlo; inutile dire che assistendo alla S. Messa secondo l’uso antico non mi cruccio piú: gli occhi vedono ciò che il cuore e la mente professano.
Nel predetto post, lei indica che “Sono d’accordo che la continuità, in un determinato rito, oltre che nella sostanza, debba anche manifestarsi nelle forme esteriori; ma personalmente ritengo che anche questa seconda continuità sia stata sostanzialmente salvaguardata con la riforma liturgica. I cambiamenti che sono stati introdotti sono solo un “adattamento alle nuove condizioni”, per altro richiesto espressamente dal Concilio Vaticano II (si leggano, per cogliere la mens di tale adattamento, i nn. 10-15 del proemio della Institutio generalis”. Bene, se i cambiamenti — meri “adattamenti alle nuove condizioni” — sono legittimi, ciò non vuol dire che siano anche stati opportuni, mi permetta tre brevi esempi:
Primo: Nella vita quotidiana si trova piacere a far durare le cose gradevoli e a dare maggior risalto alle cose importanti sottolineandole con vari accorgimenti; cosí negli studi si dice che repetita juvant (anche nella educazione dei figli!); persone che si vogliono bene chiacchierano del piú e del meno, “fanno conversazione”, semplicemente per il piacere di stare insieme (anche senza avere niente di speciale — e a volte niente affatto! — da dirsi), e prima del pranzo domenicale ci vuole l’aperitivo. Invece nel nuovo rito sono state tolte le preghiere ai piedi dell’altare, ridotto il Kyrie e il Domine non sum dignus, abolito l’offertorio tradizionale, tolti segni di croce e genuflessioni ecc. E pensare che anche un laico che tra amici proponesse di saltare l’aperitivo per dare maggior risalto al piatto di resistenza verrebbe considerato perlomeno strano...
Secondo: Nella vita laicamente ordinaria, ci troviamo ormai costretti a vedere di tutto e di piú, anche quando non vorremmo. La vita privata viene sbandierata su Facebook o blog di tutti i tipi o nei media, il “lei” sparisce per lasciare spazio ai falsi confidenzialismi di un “tu” invadente, la nudità è ovunque. Una volta invece, “osceno” denotava atti che non andavano mostrati in pubblico, mentre il senso del pudore denotava la giusta voglia di proteggere la propria intimità, fisica o affettiva. Sulla scia della “cultura dello sbandieramento”, anche la Messa riformata deve mettere tutto in bella mostra: altari girati, via il velo dai calici (e non solo, anche dalle donne, dal tabernacolo, dalle statue), via il latino, via il sacro silenzio! E pensare che ho sentito donne di una certa età dire: ragazzine dalle gambe brutte non dovrebbero portare la minigonna, sottolineando come mostrando di meno si possa apparire di piú.
Terzo: Non è difficile riconoscere la bellezza come strettamente collegata all’armonia delle parti di un insieme; cosí le proporzioni dell’uomo vitruviano, la successione di gusti tra le portate componenti un pasto un pochino ricercato, il concorso di voci diverse in un coro. La Messa riformata invece ci presenta la parte piú importante, la parte sacrificale, spessamente e frettolosamente semi-nascosta con la prece eucaristica II dopo letture lunghe e volentieri anche nebulose (la lettura dell’antico testamento sarà anche molto utile per l’erudizione e l’edificazione di insigni biblisti, un po’ meno per fedeli come me, e perfino il primo papa si lasciò scappare un commento sull’astrusità di alcuni passi di teologia sopraffina del contemporaneo S. Paolo…) e prediche (sí, al plurale, le rubriche lo permettono!) interminabili. Un po’ come servire una delicata sogliola con contorno di pizzoccheri. Mentre la Messa antica… un percorso lineare dai piedi dell’altare alla sommità del Calvario, passo per passo.
Chiedo scusa se mi sono dilungato, confusamente, senza arrivare ad un qualsiasi dunque; ciò che forse volevo dire è che già le piú ordinarie esperienze della quotidianità ci mostrano come i criteri usati nella riforma per i cambiamenti contingenti e legittimi forse non siano stati i piú adatti. O che forse potevano sembrare di esserlo in illo tempore, negli anni 1960-70; mi chiedo spesso se sia la Messa nuova ad avere cambiato la società o se sia stata la società nuova ad aver imposto i cambiamenti alla Messa — non saprei rispondere, non c’ero all’epoca. Fatto sta che la Messa nuova mi sembra sempre piú squisitamente retrò, ancorata in un’estetica che forse non esiste già piú, e che rivestirla di pianete e manipoli o magari celebrarla ad orientem non cambierebbe assolutamente niente: questo sí che sarebbe vano estetismo. I problemi della forma ordinaria non stanno nell’ars celebrandi o nell’assenza di pizzi e merletti, ma nei criteri stessi sottostanti la riforma. Proprio per questo la forma ordinaria avrà sempre piú bisogno di cambiamenti per risultare “rilevante”, per “parlare ai giovani/ai non credenti/all’uomo d’oggi” o per far maggiormente risaltare quella sacralità che potrebbe renderla piú amabile da chi è di indole piú tradizionalista. Quadratura del cerchio difficile da ottenere, visto che le chitarre non piacciono ai tradizionalisti, mentre la volgata attuale le vorrebbe amate dai giovani, per fare un solo esempio.
Per conto mio sarò felice di lasciare il rito riformato al suo destino, nelle mani dell’autorità competente; e di inginocchiarmi invece davanti a Gesú in quella Messa che me lo lascia contemplare senza innumerevoli distrazioni».
Rispetto la scelta del Signor Moscatelli di voler «lasciare il rito riformato al suo destino» e di optare per la Messa tradizionale, che gli «lascia contemplare [Gesú] senza innumerevoli distrazioni». Condivido con lui questa esigenza, che però — sono convinto — potrebbe ugualmente essere soddisfatta dal rito rinnovato, se solo gli si desse la possibilità di essere celebrato come si dovrebbe, senza, appunto, inutili distrazioni.
Sono d’accordo con lui anche sul fatto che il problema non è «l’assenza di pizzi e merletti»: convengo che rivestire la nuova Messa «di pianete e manipoli o magari celebrarla ad orientem non cambierebbe assolutamente niente: questo sí che sarebbe vano estetismo». Non sono invece d’accordo sul fatto che il problema non stia nell’ars celebrandi, «ma nei criteri stessi sottostanti la riforma». Non sono affatto convinto che il Novus Ordo «avrà sempre piú bisogno di cambiamenti per risultare “rilevante”».
Non voglio entrare nel problema dei “criteri sottostanti la riforma”: sarebbe una questione troppo grossa, e rischieremmo di perderci. Vorrei invece soffermarmi su quella che oggi, forse con un pizzico di civetteria, viene chiamata “ars celebrandi”; perché, secondo me, il problema sta proprio lí, nel modo di celebrare la Messa. Anche se oggi sta diventando di moda, fra i tradizionalisti, affermare che il Novus Ordo non può essere celebrato bene, perché esso sarebbe intrinsecamente carente (e non si rendono conto di offendere in tal modo tutti i sacerdoti, a cominciare dal Santo Padre, che si sforzano di «celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni»), in realtà ciò che manca a molte celebrazioni nella forma ordinaria è proprio la “qualità”.
Sulle tre considerazioni del Signor Moscatelli, in linea di principio, posso trovarmi anche d’accordo. Ciò che non condivido è la loro applicazione al Messale di Paolo VI. Per esempio, non è vero che il Novus Ordo abbia abolito il velo dal calice (cf Institutio generalis, 3ª ed., n. 18), il latino (il Messale di Paolo VI è in latino, e la Messa può essere sempre celebrata in questa lingua, cf can. 928), il sacro silenzio (che anzi viene caldamente raccomandato, cf Institutio generalis, nn. 45, 56, ecc.).
Capisco che talvolta l’ascolto di alcuni passi dell’Antico Testamento possa risultare un tantino difficoltoso (lo stesso vale, come rileva il Signor Moscatelli, per alcuni passi di San Paolo e — aggiungo io — del Vangelo stesso); ma non per questo dobbiamo rinunciare alla lettura della parola di Dio. Essa non viene proclamata «per l’erudizione e l’edificazione di insigni biblisti», ma per tutti i fedeli, anche se (o, forse, proprio perché) talvolta impreparati. Su questo punto il Concilio Vaticano II è stato molto chiaro:
«Affinché sia imbandita ai fedeli una mensa piú abbondante della parola di Dio, vengano aperti piú largamente i tesori biblici, in modo che entro un determinato numero di anni si legga al popolo la parte essenziale delle Sacre Scritture» (Sacrosanctum Concilium, n. 51).
D’altronde, mi sembra alquanto difficile contestare l’adagio di San Girolamo: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est».
Non è vero che le rubriche permettono «prediche interminabili». Nella Messa è prevista un’unica omelia, dopo la lettura del Vangelo. Quelle che poi talvolta si trasformano in “interminabili prediche”, secondo le rubriche dovrebbero essere solo brevissime “monizioni”. L’Ordo Missae ne prevede una all’inizio (dopo il saluto iniziale e prima dell’atto penitenziale, per introdurre la liturgia del giorno) e una alla fine (prima del congedo, per dare eventuali avvisi). Ovviamente dipende dal buon senso del sacerdote non trasformare una “monizione” in una ulteriore, interminabile e insopportabile “predica”.
E qui veniamo al vero problema del Novus Ordo: esso non consiste nelle sue rubriche (che permetterebbero tutto e il contrario di tutto), ma nel buon senso di chi quelle rubriche deve innanzi tutto conoscere (non diamolo per scontato) e poi osservare. Il segreto perché una celebrazione liturgica — secondo la forma ordinaria o straordinaria, poco importa — risulti ben fatta sta in quella frasetta diffusa nel mondo anglosassone: «Read the black; do the red», leggi ciò che è scritto in nero (= i testi liturgici), senza indebita “creatività”; fa’ ciò che è scritto in rosso (= le rubriche).
A ciò va aggiunto, come dicevamo, il buon senso (anche questo non può essere dato per scontato), la cui regola aurea troviamo nell’Imitazione di Cristo (dunque non si tratta di un problema nuovo…):
«Nel celebrare non essere né troppo lungo (prolixus) né troppo veloce (festinus), ma segui lo stile (modum) comune nell’ambiente in cui vivi. Non devi suscitare negli altri molestia e noia, ma tenere il modo di procedere (viam) comune, secondo la regola degli antichi (secondum Maiorum institutionem). Devi renderti utile agli altri (aliorum servire utilitati), piú che alla tua devozione o al tuo sentimento» (IV, 10, 7).
All’osservanza delle rubriche e al buon senso va infine aggiunto il fervore spirituale, cosí bene espresso in quella raccomandazione che fortunatamente troviamo scritta in tante sagrestie: «Celebra hanc Missam ut primam, ut unicam, ut ultimam».