Vorrei tornare su un argomento da me toccato alcuni giorni fa nel post su “La nuova traduzione della CEI” (29 settembre 2010). In quel post lamentavo la preferenza data in tale versione (come del resto in tutte le traduzioni moderne della Bibbia) al testo masoretico rispetto alla versione greca dei Settanta.
Proprio ieri Avvenire (si veda, nell’archivio storico, a p. 25 del numero del 9 ottobre, l’articolo “Settanta radici ebraiche del cristianesimo”) ha pubblicato una recensione del volume di Natalio Fernández Marcos, Septuaginta. La Bibbia di ebrei e cristiani, Morcelliana. Vi consiglio di leggere questa recensione, perché riassume brevemente la storia delle due tradizioni parallele (quella del testo masoretico e quella dei Settanta), mettendo in chiaro che «le due religioni, l’ebraica e la cristiana, fin dall’inizio si riferirono a due corpi scritturali non identici, diversi nella lingua e parzialmente nella composizione dei testi. La Septuaginta era certamente una Bibbia tradotta da ebrei per gli ebrei di Alessandria che non parlavano piú ebraico bensí greco (tradotta precisamente da chi, è ancora tema di discussione tra gli studiosi), ma con il declinare di quella comunità venne abbandonata proprio mentre, a poco a poco, diventava la Bibbia adottata dalla nuova religione, quella cristiana, e mentre il giudaismo rabbinico fissava il suo canone e la sua versione in ebraico tradizionale, ossia masoretico» (dopo tali premesse, faccio fatica a capire la conclusione dell’autore: «Si devono rispettare ambedue le tradizioni, quella ebraica e quella greca, senza tentare di ridurre o di adattare l’una all’altra»; bisognerà leggersi il volume per intero).
Nel discorso pronunciato a Ratisbona il 12 settembre 2006, Benedetto XVI, parlando dell’“ellenizzazione” del cristianesimo, aveva detto a proposito della Settanta:
«Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria — la “Settanta” —, è piú di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro [= l’incontro tra la fede biblica e la “parte migliore” del pensiero greco] in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo».
Lo stesso Concilio Vaticano II aveva usato un’espressione molto forte a proposito della Settanta:
«La Chiesa fin dagli inizi accolse come sua l’antichissima versione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta» (Dei Verbum, n. 22).
Dopo tali premesse, non capisco come, quando si tratta di tradurre l’Antico Testamento, ci si senta in dovere di ricorrere al testo masoretico, quasi che questo costituisca il “testo originale”, mentre in realtà si tratta solo di una testimonianza, di una tradizione, alla quale però i primi cristiani hanno preferito un’altra tradizione e l’hanno fatta propria.
I risultati di questa tendenza possono dare risultati in qualche caso aberranti. Faccio un esempio. Parlavo nel post del 29 settembre della parola ’elohim, tradotta in alcuni casi dai LXX con “angeli” (anziché col letterale “Dio/dèi”). Ebbene, uno di questi casi è il Salmo 8. Finora la traduzione della CEI, con la LXX, aveva tradotto: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (vv. 5-6). La nuova traduzione, invece, seguendo il testo ebraico, suona: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato».
Direte voi: beh, questa nuova traduzione non è poi cosí male (fra l’altro ha anche una certa musicalità); dire che l’uomo è poco meno di un dio, tutto sommato, è giusto. Certo, se noi “contestualizziamo” il salmo nell’ambiente in cui è stato scritto (che forse non era ancora giunto al pieno monoteismo, ma si trovava ancora in una fase “enoteistica”), possiamo dire che l’uomo è poco meno di un dio. Ma dirlo oggi (e, fino a prova contraria, i salmi non sono letti nella Chiesa come testimonianze letterarie del passato, ma come preghiera dei cristiani di oggi) mi suona un po’ male, quasi che noi credessimo nell’esistenza di piú divinità.
Ma l’inconveniente maggiore è che, dei salmi, un cristiano dovrebbe dare una lettura cristologica: quell’uomo, di cui parla il Salmo 8, è innanzi tutto l’Uomo per eccellenza, Gesú Cristo. Ma la nuova traduzione mi impedisce di dare tale lettura, perché, se dico che Cristo è poco meno di un dio, dico semplicemente un’eresia (perché lui è Dio); mentre dire che è stato fatto “poco meno degli angeli”, lo posso fare tranquillamente, perché è evidente che mi sto riferendo alla sua umanità. Ed è esattamente ciò che ha fatto la lettera agli Ebrei, che, citando la Settanta, ha applicato a Cristo il passo di quel salmo (2:6-8).
Se il Nuovo Testamento, per citare l’Antico, si serviva della Settanta, perché mai noi dobbiamo ricorrere al testo masoretico?