Questa mattina ho letto un bellissimo articolo di Antonio Socci dal titolo “Gesú, i peccatori e il caso Berlusconi”. È stato pubblicato su Libero del 24 luglio; potete trovarlo sul blog dell’Autore lo Straniero.
Sempre questa mattina ho letto su ZENIT la notizia, che già conoscevo, della “ferma intenzione” del sacerdote Eddie Panlilio di presentarsi come candidato nelle elezioni presidenziali nelle Filippine, previste per il prossimo anno.
C’è una certa connessione fra i due articoli, perché la situazione in cui attualmente si trovano il Presidente del Consiglio italiano (Silvio Berlusconi) e la Presidente delle Filippine (Gloria Macapagal-Arroyo) è molto simile. Sia in Italia che nelle Filippine sono in corso dure campagne contro i rispettivi presidenti, ambedue accusati di corruzione.
Personalmente ritengo che all’origine di tali campagne ci siano, in entrambi i casi, alcuni “passi falsi” commessi dagli interessati. Abbiamo già parlato del caso Berlusconi, per cui non c’è bisogno di tornarci sopra; ma può essere interessante sapere che cosa è avvenuto alla Signora Arroyo. Divenne Presidente la prima volta nel 2001, in seguito alla seconda rivoluzione popolare filippina (“People Power Revolution” o “EDSA Revoluition”) contro il corrotto Presidente Estrada (la prima rivoluzione era stata quella contro Marcos nel 1986, la cosiddetta “Yellow Revolution”, la prima delle tante “rivoluzioni colorate”). La Arroyo, essendo Vicepresidente, divenne automaticamente Presidente e vi rimase fino allo scadere del precedente mandato, nel 2004, quando si presentò alle elezioni e fu confermata Presidente. Tutto sembrava andare liscio. Ma ben presto alcuni soldati filippini furono rapiti in Iraq. La richiesta per il rilascio era che il contingente filippino lasciasse l’Iraq. La Arroyo cedette al ricatto, ritirò le sue truppe e i soldati furono rilasciati. Io dissi immediatamente fra me: “Ha commesso un errore. Prima o poi glielo faranno pagare”. E infatti, ben presto, nel 2005, incominciarono a fioccare sul suo capo accuse di corruzione (a cominciare dall’accusa di brogli nelle elezioni dell’anno precedente). Accuse che saranno — sia bene inteso — anche vere (devo ancora incontrare il politico incorrotto a cui non possano essere mosse accuse di sorta); ma come mai solo in quel momento venivano fuori?
La Chiesa filippina, che è stata e continua a essere molto politicizzata (forse a causa del Card. Sin, che guidò in prima persona le rivolte popolari contro Marcos ed Estrada), si è prestata pienamente al gioco, mettendosi alla guida dell’opposizione contro la Arroyo, forse sperando in un terzo “People Power”. Finora non è successo nulla, perché l’episcopato è diviso; lo era anche in passato, ma allora c’era Sin, che col suo carisma imponeva la propria linea; ora Sin non c’è piú, e nessuno riesce a creare unanimità, per cui le iniziative che si prendono contro la Presidente rimangono iniziative personali di singoli Vescovi, singoli sacerdoti o gruppi di religiosi (le suore appaiono le piú arrabbiate…). Quelli che sembrano piú tranquilli sono proprio i laici.
In questo agitarsi ecclesiastico contro la Arroyo si situa la figura di Padre Eddie Panlilio (non è religioso, ma nelle Filippine chiamano “Father” anche i sacerdoti diocesani). Nel 2007 decise di darsi alla politica e si presentò alle elezioni provinciali della provincia di Pampanga (la provincia di origine della Arroyo). Vinse e diventò Governatore. Naturalmente, essendo tale carica incompatibile con il ministero sacerdotale, fu sospeso a divinis. Ma questo non va considerato come una punizione, ché anzi non pochi Vescovi, sacerdoti, seminaristi (significativo che fra i suoi sostenitori ci sia una sorprendente “Alleanza degli ex-seminaristi delle Filippine”) e religiose non solo lo sostengono, ma lo considerano una specie di eroe.
Ora (ma non è una novità, perché se ne parlava da tempo) Padre Panlilio ha annunciato la sua “ferma intenzione” di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno (un caso simile a quello del Vescovo Fernando Lugo divenuto lo scorso anno Presidente del Paraguay). Molti lo accusano di sfruttare il suo ruolo ecclesiale per attirare voti e lo invitano a chiedere la riduzione allo stato laicale prima di presentarsi alle elezioni; lui sembra invece preferire attendere il risultato delle elezioni, perché, in caso di sconfitta, non gli dispiacerebbe riprendere l’esercizio del ministero, che — a suo dire — ama tanto, e a cui è disposto a rinunciare solo per un amore piú grande, quello per il proprio paese. A noi certe cose appaiono incredibili, ma nelle Filippine, che sono un paese cattolico vecchio stile, non destano meraviglia.
Che dire? Ho vissuto nelle Filippine per cinque anni, per cui penso di conoscere abbastanza la situazione di quel paese (e della sua Chiesa). Fino a qualche mese fa non avrei osato pronunciarmi; ma ora che non vivo piú lí, penso di potermi permettere qualche riflessione… senza peli sulla lingua.
Innanzi tutto direi che la Chiesa filippina deve fare ancora un notevole cammino di maturazione. Essa conserva ancora un grande potere, non solo morale, ma anche politico (basta che i Vescovi facciano una dichiarazione, riescono a bloccare persino una legge in discussione in parlamento). La situazione, naturalmente sta cambiando anche nelle Filippine; ma la Chiesa continua a essere molto influente. E fin qui niente di male: finché si tratta di difendere i valori morali (nelle Filippine non sono ammessi né divorzio né aborto), ben venga anche l’autorevolezza (o il “potere”, chiamatelo come vi pare) della Chiesa.
Il problema nasce quando dai valori morali si passa alla politica spicciola. Non mi sembra che sia compito della Chiesa interferire in questo campo, che non le compete. O meglio, è il campo dove i cattolici possono (e devono), a titolo personale o raggruppati nelle loro associazioni, intervenire. Ma non è questo un ruolo che spetta alla gerarchia (Vescovi e sacerdoti). Il loro compito, semmai, è quello di formare il laicato, di educare la coscienza cristiana dei fedeli, perché possano poi svolgere un ruolo politico. E invece è un continuo interferire in questioni strettamente politiche: Vescovi che chiedono alla Presidente di dimettersi, preti che manifestano contro il governo, suore che si fanno sostenitrici e protettrici di leader dell’opposizione, ecc.
È ovvio che il piú delle volte tali interventi strettamente politici vengono ammantati di motivazioni morali. Ed ecco che si cade nel moralismo, di cui ci siamo già occupati e che ora viene cosí bene descritto da Socci nel suo articolo. Anche nel caso delle Filippine, come in Italia, gli uomini e le donne di Chiesa non si accorgono di essere strumentalizzati; non si accorgono che le varie “questioni morali” sono delle armi di cui altri si servono per sbarazzarsi dei loro nemici politici. Preti e monache, nella loro ingenuità, non se ne accorgono, e si prestano al gioco. Talvolta viene da pensare che farebbero meglio, anziché criticare i politici, a guardarsi in casa, dove non sempre le cose vanno come dovrebbero…
Ma l’aspetto che mi fa piú riflettere della candidatura di Padre Panlilio è che essa rappresenta una sconfitta per la Chiesa e la società di quel paese. Se ci si deve mettere nella mani di un prete per risollevare le sorti di una nazione, significa che la società è messa proprio male, non essendo in grado di esprimere un candidato decente. Ma è anche un fallimento per la Chiesa, che, venendo meno al suo compito specifico, non è stata capace di educare nessun laico ad assumere responsabilità politiche. Significa che è una Chiesa ancora clericale.
Infine sarà una sconfitta per Padre Panlilio stesso: non perché perderà le elezioni (se si presenta, do per scontata la sua elezione), ma perché inevitabilmente diventerà (lo è già nella sua provincia) un uomo di parte, quando il compito di un sacerdote dovrebbe essere quello di stare al di sopra delle parti, segno e strumento di unità.
Sempre questa mattina ho letto su ZENIT la notizia, che già conoscevo, della “ferma intenzione” del sacerdote Eddie Panlilio di presentarsi come candidato nelle elezioni presidenziali nelle Filippine, previste per il prossimo anno.
C’è una certa connessione fra i due articoli, perché la situazione in cui attualmente si trovano il Presidente del Consiglio italiano (Silvio Berlusconi) e la Presidente delle Filippine (Gloria Macapagal-Arroyo) è molto simile. Sia in Italia che nelle Filippine sono in corso dure campagne contro i rispettivi presidenti, ambedue accusati di corruzione.
Personalmente ritengo che all’origine di tali campagne ci siano, in entrambi i casi, alcuni “passi falsi” commessi dagli interessati. Abbiamo già parlato del caso Berlusconi, per cui non c’è bisogno di tornarci sopra; ma può essere interessante sapere che cosa è avvenuto alla Signora Arroyo. Divenne Presidente la prima volta nel 2001, in seguito alla seconda rivoluzione popolare filippina (“People Power Revolution” o “EDSA Revoluition”) contro il corrotto Presidente Estrada (la prima rivoluzione era stata quella contro Marcos nel 1986, la cosiddetta “Yellow Revolution”, la prima delle tante “rivoluzioni colorate”). La Arroyo, essendo Vicepresidente, divenne automaticamente Presidente e vi rimase fino allo scadere del precedente mandato, nel 2004, quando si presentò alle elezioni e fu confermata Presidente. Tutto sembrava andare liscio. Ma ben presto alcuni soldati filippini furono rapiti in Iraq. La richiesta per il rilascio era che il contingente filippino lasciasse l’Iraq. La Arroyo cedette al ricatto, ritirò le sue truppe e i soldati furono rilasciati. Io dissi immediatamente fra me: “Ha commesso un errore. Prima o poi glielo faranno pagare”. E infatti, ben presto, nel 2005, incominciarono a fioccare sul suo capo accuse di corruzione (a cominciare dall’accusa di brogli nelle elezioni dell’anno precedente). Accuse che saranno — sia bene inteso — anche vere (devo ancora incontrare il politico incorrotto a cui non possano essere mosse accuse di sorta); ma come mai solo in quel momento venivano fuori?
La Chiesa filippina, che è stata e continua a essere molto politicizzata (forse a causa del Card. Sin, che guidò in prima persona le rivolte popolari contro Marcos ed Estrada), si è prestata pienamente al gioco, mettendosi alla guida dell’opposizione contro la Arroyo, forse sperando in un terzo “People Power”. Finora non è successo nulla, perché l’episcopato è diviso; lo era anche in passato, ma allora c’era Sin, che col suo carisma imponeva la propria linea; ora Sin non c’è piú, e nessuno riesce a creare unanimità, per cui le iniziative che si prendono contro la Presidente rimangono iniziative personali di singoli Vescovi, singoli sacerdoti o gruppi di religiosi (le suore appaiono le piú arrabbiate…). Quelli che sembrano piú tranquilli sono proprio i laici.
In questo agitarsi ecclesiastico contro la Arroyo si situa la figura di Padre Eddie Panlilio (non è religioso, ma nelle Filippine chiamano “Father” anche i sacerdoti diocesani). Nel 2007 decise di darsi alla politica e si presentò alle elezioni provinciali della provincia di Pampanga (la provincia di origine della Arroyo). Vinse e diventò Governatore. Naturalmente, essendo tale carica incompatibile con il ministero sacerdotale, fu sospeso a divinis. Ma questo non va considerato come una punizione, ché anzi non pochi Vescovi, sacerdoti, seminaristi (significativo che fra i suoi sostenitori ci sia una sorprendente “Alleanza degli ex-seminaristi delle Filippine”) e religiose non solo lo sostengono, ma lo considerano una specie di eroe.
Ora (ma non è una novità, perché se ne parlava da tempo) Padre Panlilio ha annunciato la sua “ferma intenzione” di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno (un caso simile a quello del Vescovo Fernando Lugo divenuto lo scorso anno Presidente del Paraguay). Molti lo accusano di sfruttare il suo ruolo ecclesiale per attirare voti e lo invitano a chiedere la riduzione allo stato laicale prima di presentarsi alle elezioni; lui sembra invece preferire attendere il risultato delle elezioni, perché, in caso di sconfitta, non gli dispiacerebbe riprendere l’esercizio del ministero, che — a suo dire — ama tanto, e a cui è disposto a rinunciare solo per un amore piú grande, quello per il proprio paese. A noi certe cose appaiono incredibili, ma nelle Filippine, che sono un paese cattolico vecchio stile, non destano meraviglia.
Che dire? Ho vissuto nelle Filippine per cinque anni, per cui penso di conoscere abbastanza la situazione di quel paese (e della sua Chiesa). Fino a qualche mese fa non avrei osato pronunciarmi; ma ora che non vivo piú lí, penso di potermi permettere qualche riflessione… senza peli sulla lingua.
Innanzi tutto direi che la Chiesa filippina deve fare ancora un notevole cammino di maturazione. Essa conserva ancora un grande potere, non solo morale, ma anche politico (basta che i Vescovi facciano una dichiarazione, riescono a bloccare persino una legge in discussione in parlamento). La situazione, naturalmente sta cambiando anche nelle Filippine; ma la Chiesa continua a essere molto influente. E fin qui niente di male: finché si tratta di difendere i valori morali (nelle Filippine non sono ammessi né divorzio né aborto), ben venga anche l’autorevolezza (o il “potere”, chiamatelo come vi pare) della Chiesa.
Il problema nasce quando dai valori morali si passa alla politica spicciola. Non mi sembra che sia compito della Chiesa interferire in questo campo, che non le compete. O meglio, è il campo dove i cattolici possono (e devono), a titolo personale o raggruppati nelle loro associazioni, intervenire. Ma non è questo un ruolo che spetta alla gerarchia (Vescovi e sacerdoti). Il loro compito, semmai, è quello di formare il laicato, di educare la coscienza cristiana dei fedeli, perché possano poi svolgere un ruolo politico. E invece è un continuo interferire in questioni strettamente politiche: Vescovi che chiedono alla Presidente di dimettersi, preti che manifestano contro il governo, suore che si fanno sostenitrici e protettrici di leader dell’opposizione, ecc.
È ovvio che il piú delle volte tali interventi strettamente politici vengono ammantati di motivazioni morali. Ed ecco che si cade nel moralismo, di cui ci siamo già occupati e che ora viene cosí bene descritto da Socci nel suo articolo. Anche nel caso delle Filippine, come in Italia, gli uomini e le donne di Chiesa non si accorgono di essere strumentalizzati; non si accorgono che le varie “questioni morali” sono delle armi di cui altri si servono per sbarazzarsi dei loro nemici politici. Preti e monache, nella loro ingenuità, non se ne accorgono, e si prestano al gioco. Talvolta viene da pensare che farebbero meglio, anziché criticare i politici, a guardarsi in casa, dove non sempre le cose vanno come dovrebbero…
Ma l’aspetto che mi fa piú riflettere della candidatura di Padre Panlilio è che essa rappresenta una sconfitta per la Chiesa e la società di quel paese. Se ci si deve mettere nella mani di un prete per risollevare le sorti di una nazione, significa che la società è messa proprio male, non essendo in grado di esprimere un candidato decente. Ma è anche un fallimento per la Chiesa, che, venendo meno al suo compito specifico, non è stata capace di educare nessun laico ad assumere responsabilità politiche. Significa che è una Chiesa ancora clericale.
Infine sarà una sconfitta per Padre Panlilio stesso: non perché perderà le elezioni (se si presenta, do per scontata la sua elezione), ma perché inevitabilmente diventerà (lo è già nella sua provincia) un uomo di parte, quando il compito di un sacerdote dovrebbe essere quello di stare al di sopra delle parti, segno e strumento di unità.