Un lettore, Andrea (che ringrazio per l'attenzione), mi ha inviato un testo del Card. John Henry Newman, riguardante il tema che stiamo trattando in questi giorni:
Strettamente parlando la Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito. Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve avere le caratteristiche di un partito che ha la priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano, e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza di influenza fino alla fine dei tempi... I cristiani non osservano il proprio dovere, e divengono politici in senso offensivo..., non quando si comportano come partito, ma quando si dividono in molti partiti. I credenti della Chiesa primitiva non interferirono negli atti di governo civile semplicemente perché, privi di diritti civili, non potevano agire legalmente. Ma il caso è diverso quando essi godono di diritti. Allora si può parlare di spirito secolare, non nel caso in cui essi usano tali diritti, ma qualora se ne servano per fini diversi da quelli per cui furono loro concessi...
Dal momento che è diffusa l’errata opinione che i cristiani, e specialmente il clero in quanto tale, non abbiano nessuna relazione con gli affari temporali, è opportuno cogliere ogni occasione per negare formalmente tale posizione e per domandarne le prove. È vero invece che la Chiesa è strutturata al fine specifico di occuparsi o (come direbbero i non credenti) di immischiarsi del mondo, i membri di essa non fanno che il loro dovere quando si associano fra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, alle corti dei re o tra le varie moltitudini. E se essi non possono ottenere di più, possono almeno soffrire per la verità e tenere desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di perseguitarli.
(Gli Ariani del IV secolo, Jaca Book-Morcelliana, Milano-Brescia 1981, pp. 188 ss)
Mi sembra un testo molto interessante, che forse, lí per lí, ci lascia un tantino perplessi, dal momento che in questi anni, specialmente dopo il Concilio (vi ricordate la "scelta religiosa" dell'Azione Cattolica?), abbiamo sentito discorsi diametralmente opposti. Non dico che Newman abbia assolutamente ragione; può darsi che la Chiesa, nelle sue successive riflessioni, abbia colto qualche aspetto che era sfuggito al grande Cardinale inglese. Dico solo che non possiamo chiuderci nelle nostre certezze, senza lasciarci almeno mettere in discussione da cosí grandi pensatori.
Riflettendo su questo testo, mi è tornato in mente un intervento che avevo fatto una decina d'anni fa, quando ero rettore del Collegio alla Querce. Un nostro professore, Franco Banchi (attualmente coordinatore toscano dei Popolari Liberali) aveva pubblicato un libro ("Breviario del buon governo", Firenze 1998); il 19 giugno 1998, nella Sala dei Principi del Collegio ci fu la presentazione del libro, che io introdussi col seguente intervento:
Un punto di riferimento essenziale
Spesso si ripete, a ragione, che la politica può essere — deve essere — per il cristiano, una forma di carità. Essa è certamente un servizio, e il servizio è una delle espressioni più alte della carità. Ma non si dice mai che l’impegno politico per un cristiano è, innanzi tutto, una forma di apostolato. Di solito si dà a questa espressione un significato restrittivo, come se stesse a indicare esclusivamente l’annunzio del vangelo, un compito per altro solitamente demandato al clero.
Afferma il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’apostolato dei laici: «La missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e di perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico» (Apostolicam actuositatem, n. 5). Dunque un’unica missione, che però si realizza in due direzioni: l’evangelizzazione e la “sacramentalizzazione” da una parte, l’animazione cristiana delle realtà terrene dall’altra. L’apostolato consiste nell’attività della Chiesa ordinata alla realizzazione di questa missione (cf ibidem, n. 2). La Chiesa esercita l’apostolato mediante tutti i suoi membri, sia chierici sia laici, anche se, in genere, ai primi è riservata preferibilmente la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti, ai secondi l’animazione cristiana della società. Si tratta comunque pur sempre del medesimo apostolato, svolto in due ordini diversi, quello spirituale e quello temporale. A proposito di tali ordini, il Concilio aggiunge: «Questi ordini, sebbene siano distinti, nell’unico disegno di Dio sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creazione, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno» (ibidem, n. 5). Ne deriva il seguente corollario: «In ambedue gli ordini il laico, che è a un tempo fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sola coscienza cristiana (“una conscientia christiana continenter duci debet”)» (ibidem).
Dunque, due sono gli ordini, ma una sola è — deve essere — la coscienza: il cristiano deve essere guidato nel suo impegno temporale esclusivamente dalla coscienza cristiana. Bando perciò a tutte le dicotomie — vere e proprie schizofrenie! — che hanno segnato e, purtroppo, spesso continuano a segnare la presenza dei cattolici in politica. Talvolta si pensa che il cristiano abbia due coscienze: una, quella cristiana, a cui far riferimento nella propria vita personale, e un’altra, quella civile, necessariamente “laica”, a cui far riferimento nel proprio impegno nel mondo. Tale atteggiamento è assolutamente inaccettabile per un credente. Più volte, nei giorni scorsi, L’Osservatore romano ci ha riproposto l’esempio di re Baldovino, che preferì dimettersi — ed era disposto a rinunciare al trono — pur di non firmare una legge contraria alla sua coscienza cristiana.
Ma non corriamo, in tal modo, il pericolo di ricadere in una nuova forma di integralismo?
Per evitare l’integralismo
La riflessione della Chiesa negli ultimi anni ha portato a una nuova importante acquisizione, che, se osservata, impedirà di cadere nel pericolo, sempre incombente, dell’integralismo.
La nuova acquisizione consiste nel distinguere vari momenti nell’impegno cristiano, una specie di rifrazione, attraverso la quale, si scoprono, prima dell’impegno propriamente politico, una serie di momenti pre-politici, che non possono in alcun modo essere trascurati, se si vuole svolgere una corretta azione politica.
Innanzi tutto il momento spirituale: il momento della fede, della preghiera, del silenzio, dell’ascolto della parola di Dio, della formazione biblica, teologica e spirituale. È il punto di partenza, che non si può mai tralasciare: è il momento necessario per “abbeverarsi” alla fonte.
Quindi il momento culturale, il momento dell’inculturazione del vangelo, dell’incarnazione del messaggio nelle categorie proprie di una determinata cultura. A questo proposito, meraviglia come oggi si parli tanto di inculturazione con riferimento ai popoli del terzo mondo, e poi a casa nostra si esiga un cristianesimo “tutto spirituale”, purificato da qualsiasi incrostazione culturale. Per capire l’importanza della mediazione culturale, non è necessario ricorrere a Gramsci, con la sua “teoria dell’egemonia”, dal momento che i cristiani hanno sempre fatto ciò che poi Gramsci ha teorizzato: si pensi alla prima diffusione del vangelo o anche, più vicino a noi, a ciò che avvenne nell’Italia postunitaria, mentre vigeva il Non expedit. Constatiamo con piacere che la Chiesa italiana si è messa su questa strada, con la decisione, presa al Convegno di Palermo, di procedere all’elaborazione di un nuovo “progetto culturale”.
In terzo luogo, il momento sociale, che consiste nell’animazione della società civile. Si pensi ai vari campi in cui è solitamente impegnato il volontariato: i giovani, i tossicodipendenti, gli handicappati, gli anziani, i lavoratori, i disoccupati, gli extracomunitari, gli emarginati in genere. Si pensi ancora alla difesa della vita e dell’ambiente. In questo vasto campo il punto di riferimento rimane la dottrina sociale della Chiesa, che durante quest’ultimo secolo ha allargato i suoi orizzonti dalla questione operaia a tutti i problemi della società odierna.
Infine il momento specificamente politico, che consiste nella presenza del cristiano nelle istituzioni (quartiere, comune, provincia, regione, Stato) e che può comportare anche l’assunzione di determinate responsabilità, ma che non può in alcun modo trasformarsi in pura e semplice “occupazione del potere”. L’autenticità di quest’ultimo momento dipende tutta dai momenti precedenti: solo chi è disposto a percorrere le tappe pre-politiche, sarà anche un buon politico cattolico.
Un errore da evitare
Occorre assolutamente evitare l’errore di pensare che l’unico problema sia da che parte stare, se a destra o a sinistra, o se non sia piuttosto necessario ricostituire un “grande centro”, in cui far confluire tutti i cattolici.
Il problema, in realtà, è molto più profondo. Attualmente noi ci troviamo di fronte non solo a una sinistra, ma anche a una destra e, ahimè, anche a un centro completamente secolarizzati. Allora il vero problema è quello di rievangelizzare la politica. Occorre ricominciare da capo, come duemila anni fa: il cristiano, ovunque schierato, è chiamato a “permeare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico”. Su questo piano, sul piano della fede e dei valori morali, tutti i cattolici sono — devono essere — uniti, al di là degli schieramenti. Devono essere non cattolici di destra, di sinistra o di centro, non “cattolici liberali” o “cattolici democratici”, “cattocomunisti” o “clericofascisti”, ma semplicemente cattolici — come ci ricordava giorni fa L’Osservatore romano (15-16 giugno 1998) — “cattolici senza aggettivi”.
A parte alcuni riferimenti datati, mi sembra che tale riflessione conservi la sua attualità. Ecco, rispetto a quanto sosteneva il Card. Newman, in sé giustissimo, mi pare che la Chiesa abbia preso coscienza che forse è opportuna una distinzione di ruoli (clero e laicato) e una distinzione di momenti nell'impegno del cristiano (spirituale, culturale, sociale e politico). Per il resto, pienamente d'accordo.
Strettamente parlando la Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito. Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve avere le caratteristiche di un partito che ha la priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano, e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza di influenza fino alla fine dei tempi... I cristiani non osservano il proprio dovere, e divengono politici in senso offensivo..., non quando si comportano come partito, ma quando si dividono in molti partiti. I credenti della Chiesa primitiva non interferirono negli atti di governo civile semplicemente perché, privi di diritti civili, non potevano agire legalmente. Ma il caso è diverso quando essi godono di diritti. Allora si può parlare di spirito secolare, non nel caso in cui essi usano tali diritti, ma qualora se ne servano per fini diversi da quelli per cui furono loro concessi...
Dal momento che è diffusa l’errata opinione che i cristiani, e specialmente il clero in quanto tale, non abbiano nessuna relazione con gli affari temporali, è opportuno cogliere ogni occasione per negare formalmente tale posizione e per domandarne le prove. È vero invece che la Chiesa è strutturata al fine specifico di occuparsi o (come direbbero i non credenti) di immischiarsi del mondo, i membri di essa non fanno che il loro dovere quando si associano fra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, alle corti dei re o tra le varie moltitudini. E se essi non possono ottenere di più, possono almeno soffrire per la verità e tenere desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di perseguitarli.
(Gli Ariani del IV secolo, Jaca Book-Morcelliana, Milano-Brescia 1981, pp. 188 ss)
Mi sembra un testo molto interessante, che forse, lí per lí, ci lascia un tantino perplessi, dal momento che in questi anni, specialmente dopo il Concilio (vi ricordate la "scelta religiosa" dell'Azione Cattolica?), abbiamo sentito discorsi diametralmente opposti. Non dico che Newman abbia assolutamente ragione; può darsi che la Chiesa, nelle sue successive riflessioni, abbia colto qualche aspetto che era sfuggito al grande Cardinale inglese. Dico solo che non possiamo chiuderci nelle nostre certezze, senza lasciarci almeno mettere in discussione da cosí grandi pensatori.
Riflettendo su questo testo, mi è tornato in mente un intervento che avevo fatto una decina d'anni fa, quando ero rettore del Collegio alla Querce. Un nostro professore, Franco Banchi (attualmente coordinatore toscano dei Popolari Liberali) aveva pubblicato un libro ("Breviario del buon governo", Firenze 1998); il 19 giugno 1998, nella Sala dei Principi del Collegio ci fu la presentazione del libro, che io introdussi col seguente intervento:
Un punto di riferimento essenziale
Spesso si ripete, a ragione, che la politica può essere — deve essere — per il cristiano, una forma di carità. Essa è certamente un servizio, e il servizio è una delle espressioni più alte della carità. Ma non si dice mai che l’impegno politico per un cristiano è, innanzi tutto, una forma di apostolato. Di solito si dà a questa espressione un significato restrittivo, come se stesse a indicare esclusivamente l’annunzio del vangelo, un compito per altro solitamente demandato al clero.
Afferma il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’apostolato dei laici: «La missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e di perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico» (Apostolicam actuositatem, n. 5). Dunque un’unica missione, che però si realizza in due direzioni: l’evangelizzazione e la “sacramentalizzazione” da una parte, l’animazione cristiana delle realtà terrene dall’altra. L’apostolato consiste nell’attività della Chiesa ordinata alla realizzazione di questa missione (cf ibidem, n. 2). La Chiesa esercita l’apostolato mediante tutti i suoi membri, sia chierici sia laici, anche se, in genere, ai primi è riservata preferibilmente la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti, ai secondi l’animazione cristiana della società. Si tratta comunque pur sempre del medesimo apostolato, svolto in due ordini diversi, quello spirituale e quello temporale. A proposito di tali ordini, il Concilio aggiunge: «Questi ordini, sebbene siano distinti, nell’unico disegno di Dio sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creazione, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno» (ibidem, n. 5). Ne deriva il seguente corollario: «In ambedue gli ordini il laico, che è a un tempo fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sola coscienza cristiana (“una conscientia christiana continenter duci debet”)» (ibidem).
Dunque, due sono gli ordini, ma una sola è — deve essere — la coscienza: il cristiano deve essere guidato nel suo impegno temporale esclusivamente dalla coscienza cristiana. Bando perciò a tutte le dicotomie — vere e proprie schizofrenie! — che hanno segnato e, purtroppo, spesso continuano a segnare la presenza dei cattolici in politica. Talvolta si pensa che il cristiano abbia due coscienze: una, quella cristiana, a cui far riferimento nella propria vita personale, e un’altra, quella civile, necessariamente “laica”, a cui far riferimento nel proprio impegno nel mondo. Tale atteggiamento è assolutamente inaccettabile per un credente. Più volte, nei giorni scorsi, L’Osservatore romano ci ha riproposto l’esempio di re Baldovino, che preferì dimettersi — ed era disposto a rinunciare al trono — pur di non firmare una legge contraria alla sua coscienza cristiana.
Ma non corriamo, in tal modo, il pericolo di ricadere in una nuova forma di integralismo?
Per evitare l’integralismo
La riflessione della Chiesa negli ultimi anni ha portato a una nuova importante acquisizione, che, se osservata, impedirà di cadere nel pericolo, sempre incombente, dell’integralismo.
La nuova acquisizione consiste nel distinguere vari momenti nell’impegno cristiano, una specie di rifrazione, attraverso la quale, si scoprono, prima dell’impegno propriamente politico, una serie di momenti pre-politici, che non possono in alcun modo essere trascurati, se si vuole svolgere una corretta azione politica.
Innanzi tutto il momento spirituale: il momento della fede, della preghiera, del silenzio, dell’ascolto della parola di Dio, della formazione biblica, teologica e spirituale. È il punto di partenza, che non si può mai tralasciare: è il momento necessario per “abbeverarsi” alla fonte.
Quindi il momento culturale, il momento dell’inculturazione del vangelo, dell’incarnazione del messaggio nelle categorie proprie di una determinata cultura. A questo proposito, meraviglia come oggi si parli tanto di inculturazione con riferimento ai popoli del terzo mondo, e poi a casa nostra si esiga un cristianesimo “tutto spirituale”, purificato da qualsiasi incrostazione culturale. Per capire l’importanza della mediazione culturale, non è necessario ricorrere a Gramsci, con la sua “teoria dell’egemonia”, dal momento che i cristiani hanno sempre fatto ciò che poi Gramsci ha teorizzato: si pensi alla prima diffusione del vangelo o anche, più vicino a noi, a ciò che avvenne nell’Italia postunitaria, mentre vigeva il Non expedit. Constatiamo con piacere che la Chiesa italiana si è messa su questa strada, con la decisione, presa al Convegno di Palermo, di procedere all’elaborazione di un nuovo “progetto culturale”.
In terzo luogo, il momento sociale, che consiste nell’animazione della società civile. Si pensi ai vari campi in cui è solitamente impegnato il volontariato: i giovani, i tossicodipendenti, gli handicappati, gli anziani, i lavoratori, i disoccupati, gli extracomunitari, gli emarginati in genere. Si pensi ancora alla difesa della vita e dell’ambiente. In questo vasto campo il punto di riferimento rimane la dottrina sociale della Chiesa, che durante quest’ultimo secolo ha allargato i suoi orizzonti dalla questione operaia a tutti i problemi della società odierna.
Infine il momento specificamente politico, che consiste nella presenza del cristiano nelle istituzioni (quartiere, comune, provincia, regione, Stato) e che può comportare anche l’assunzione di determinate responsabilità, ma che non può in alcun modo trasformarsi in pura e semplice “occupazione del potere”. L’autenticità di quest’ultimo momento dipende tutta dai momenti precedenti: solo chi è disposto a percorrere le tappe pre-politiche, sarà anche un buon politico cattolico.
Un errore da evitare
Occorre assolutamente evitare l’errore di pensare che l’unico problema sia da che parte stare, se a destra o a sinistra, o se non sia piuttosto necessario ricostituire un “grande centro”, in cui far confluire tutti i cattolici.
Il problema, in realtà, è molto più profondo. Attualmente noi ci troviamo di fronte non solo a una sinistra, ma anche a una destra e, ahimè, anche a un centro completamente secolarizzati. Allora il vero problema è quello di rievangelizzare la politica. Occorre ricominciare da capo, come duemila anni fa: il cristiano, ovunque schierato, è chiamato a “permeare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico”. Su questo piano, sul piano della fede e dei valori morali, tutti i cattolici sono — devono essere — uniti, al di là degli schieramenti. Devono essere non cattolici di destra, di sinistra o di centro, non “cattolici liberali” o “cattolici democratici”, “cattocomunisti” o “clericofascisti”, ma semplicemente cattolici — come ci ricordava giorni fa L’Osservatore romano (15-16 giugno 1998) — “cattolici senza aggettivi”.
A parte alcuni riferimenti datati, mi sembra che tale riflessione conservi la sua attualità. Ecco, rispetto a quanto sosteneva il Card. Newman, in sé giustissimo, mi pare che la Chiesa abbia preso coscienza che forse è opportuna una distinzione di ruoli (clero e laicato) e una distinzione di momenti nell'impegno del cristiano (spirituale, culturale, sociale e politico). Per il resto, pienamente d'accordo.