venerdì 31 luglio 2009

Che cosa è andato storto?

Giorni fa ZENIT ha pubblicato una recensione del libro di Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto? (Fede & Cultura, Verona 2009), successivamente ripresa da altri siti. Siccome questo blog si è sempre interessato delle problematiche concernenti il Concilio Vaticano II, non posso ignorare tale pubblicazione. Premetto che non possiedo il volume, e perciò devo basarmi esclusivamente su quanto riportato nella suddetta recensione.

A quanto pare, la tesi dell’Autore, è che il problema non sta nel Concilio in quanto tale, ma nella sua interpretazione. E fin qui ci troviamo perfettamente d’accordo: penso che ormai tale distinzione possa considerarsi appurata. Secondo lui, il problema è nato nel 1968, anno in cui la contestazione non entrò solo nelle università, ma anche nella Chiesa, specialmente in concomitanza con la pubblicazione dell’Humanae vitae. Il rifiuto di tale enciclica, afferma McInerny, va al di là delle questioni di morale sessuale e si pone come contestazione globale dell’autorità del Papa e del Magistero. “Per McInerny, è questa confusione ed aperta ribellione culminata con l’opposizione alla Enciclica Humanae vitae che ha indebolito la Chiesa e generato la crisi di vocazioni e di perdita di fede”.

Molto probabilmente la domanda (non so se posta da McInerny o dall’autore della recensione, Antonio Gaspari) se l’attuale crisi della Chiesa vada ricondotta a cause esterne alla Chiesa stessa o sia una diretta conseguenza del Concilio non avrà mai una risposta. La storia non si fa con i “se”: non sapremo mai che cosa sarebbe avvenuto alla Chiesa se non ci fosse stato il Vaticano II. Quel che sappiamo è che il Concilio c’è stato; che in esso non si possono rinvenire veri e propri errori; al massimo, possiamo addebitargli qualche eccessiva illusione circa le “magnifiche sorti e progressive” del mondo moderno e qualche ambiguità nei suoi documenti. Ma sappiamo pure che, durante e soprattutto dopo il Concilio, si è diffuso nella Chiesa un forte dissenso, che ha provocato confusione e disorientamento nei fedeli. Non sarà dunque proprio questo dissenso la causa dell’attuale crisi della Chiesa? Non saprei dare una risposta definitiva. Mi sembra però che si tratti di una tesi degna della massima attenzione.

Anche perché — aggiungo io — se cosí fosse, il problema della crisi della Chiesa non potrebbe essere piú ricondotto al Concilio stesso (che anzi andrebbe rivalutato) e neppure soltanto alla corrente progressista, che ha interpretato a suo modo il Vaticano II (mettendo lo “spirito del Concilio” al di sopra del Concilio stesso), ma anche a coloro che hanno rifiutato il Concilio e contestato l’autorità pontificia da posizioni tradizionaliste (anche costoro hanno dato, oggettivamente, al di là delle loro intenzioni, un contributo al dissenso ecclesiale).

Io, almeno per il momento, sospendo qualsiasi giudizio; ma voi capite bene che assumendo la tesi di McInerny e portandola alle sue logiche conseguenze, cambia tutto. In ogni caso, mi pare che McInerny, con la sua tesi, si faccia interprete di quella che era la posizione di Paolo VI. Papa Montini, che, nonostante lo si dipinga spesso come Papa “progressista”, era perfettamente consapevole e “geloso” del proprio ruolo primaziale, ha sempre considerato il rifiuto del Vaticano II e delle riforme ad esso seguite (come la riforma liturgica) come un rifiuto dell’autorità della Chiesa (che nel Concilio si era manifestata) e di quella pontificia (che approvava ed emanava quelle riforme). I tradizionalisti hanno sempre descritto il loro atteggiamento come una reazione alla demolizione della Chiesa operata dalle forze progressiste; essi hanno sempre invocato lo “stato di necessità” come giustificazione di un’aperta opposizione alla legittima autorità della Chiesa. Non sta a me dire se tale posizione sia giusta o sbagliata. Dico solo (pur sapendo che la storia non si fa con i “se”): ma se invece di opporsi a Roma, ci si fosse tutti stretti intorno al Papa, le cose non sarebbero andate in modo diverso?

mercoledì 29 luglio 2009

Moralismo senza frontiere

Questa mattina ho letto un bellissimo articolo di Antonio Socci dal titolo “Gesú, i peccatori e il caso Berlusconi”. È stato pubblicato su Libero del 24 luglio; potete trovarlo sul blog dell’Autore lo Straniero.

Sempre questa mattina ho letto su ZENIT la notizia, che già conoscevo, della “ferma intenzione” del sacerdote Eddie Panlilio di presentarsi come candidato nelle elezioni presidenziali nelle Filippine, previste per il prossimo anno.

C’è una certa connessione fra i due articoli, perché la situazione in cui attualmente si trovano il Presidente del Consiglio italiano (Silvio Berlusconi) e la Presidente delle Filippine (Gloria Macapagal-Arroyo) è molto simile. Sia in Italia che nelle Filippine sono in corso dure campagne contro i rispettivi presidenti, ambedue accusati di corruzione.

Personalmente ritengo che all’origine di tali campagne ci siano, in entrambi i casi, alcuni “passi falsi” commessi dagli interessati. Abbiamo già parlato del caso Berlusconi, per cui non c’è bisogno di tornarci sopra; ma può essere interessante sapere che cosa è avvenuto alla Signora Arroyo. Divenne Presidente la prima volta nel 2001, in seguito alla seconda rivoluzione popolare filippina (“People Power Revolution” o “EDSA Revoluition”) contro il corrotto Presidente Estrada (la prima rivoluzione era stata quella contro Marcos nel 1986, la cosiddetta “Yellow Revolution”, la prima delle tante “rivoluzioni colorate”). La Arroyo, essendo Vicepresidente, divenne automaticamente Presidente e vi rimase fino allo scadere del precedente mandato, nel 2004, quando si presentò alle elezioni e fu confermata Presidente. Tutto sembrava andare liscio. Ma ben presto alcuni soldati filippini furono rapiti in Iraq. La richiesta per il rilascio era che il contingente filippino lasciasse l’Iraq. La Arroyo cedette al ricatto, ritirò le sue truppe e i soldati furono rilasciati. Io dissi immediatamente fra me: “Ha commesso un errore. Prima o poi glielo faranno pagare”. E infatti, ben presto, nel 2005, incominciarono a fioccare sul suo capo accuse di corruzione (a cominciare dall’accusa di brogli nelle elezioni dell’anno precedente). Accuse che saranno — sia bene inteso — anche vere (devo ancora incontrare il politico incorrotto a cui non possano essere mosse accuse di sorta); ma come mai solo in quel momento venivano fuori?

La Chiesa filippina, che è stata e continua a essere molto politicizzata (forse a causa del Card. Sin, che guidò in prima persona le rivolte popolari contro Marcos ed Estrada), si è prestata pienamente al gioco, mettendosi alla guida dell’opposizione contro la Arroyo, forse sperando in un terzo “People Power”. Finora non è successo nulla, perché l’episcopato è diviso; lo era anche in passato, ma allora c’era Sin, che col suo carisma imponeva la propria linea; ora Sin non c’è piú, e nessuno riesce a creare unanimità, per cui le iniziative che si prendono contro la Presidente rimangono iniziative personali di singoli Vescovi, singoli sacerdoti o gruppi di religiosi (le suore appaiono le piú arrabbiate…). Quelli che sembrano piú tranquilli sono proprio i laici.

In questo agitarsi ecclesiastico contro la Arroyo si situa la figura di Padre Eddie Panlilio (non è religioso, ma nelle Filippine chiamano “Father” anche i sacerdoti diocesani). Nel 2007 decise di darsi alla politica e si presentò alle elezioni provinciali della provincia di Pampanga (la provincia di origine della Arroyo). Vinse e diventò Governatore. Naturalmente, essendo tale carica incompatibile con il ministero sacerdotale, fu sospeso a divinis. Ma questo non va considerato come una punizione, ché anzi non pochi Vescovi, sacerdoti, seminaristi (significativo che fra i suoi sostenitori ci sia una sorprendente “Alleanza degli ex-seminaristi delle Filippine”) e religiose non solo lo sostengono, ma lo considerano una specie di eroe.

Ora (ma non è una novità, perché se ne parlava da tempo) Padre Panlilio ha annunciato la sua “ferma intenzione” di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo anno (un caso simile a quello del Vescovo Fernando Lugo divenuto lo scorso anno Presidente del Paraguay). Molti lo accusano di sfruttare il suo ruolo ecclesiale per attirare voti e lo invitano a chiedere la riduzione allo stato laicale prima di presentarsi alle elezioni; lui sembra invece preferire attendere il risultato delle elezioni, perché, in caso di sconfitta, non gli dispiacerebbe riprendere l’esercizio del ministero, che — a suo dire — ama tanto, e a cui è disposto a rinunciare solo per un amore piú grande, quello per il proprio paese. A noi certe cose appaiono incredibili, ma nelle Filippine, che sono un paese cattolico vecchio stile, non destano meraviglia.

Che dire? Ho vissuto nelle Filippine per cinque anni, per cui penso di conoscere abbastanza la situazione di quel paese (e della sua Chiesa). Fino a qualche mese fa non avrei osato pronunciarmi; ma ora che non vivo piú lí, penso di potermi permettere qualche riflessione… senza peli sulla lingua.

Innanzi tutto direi che la Chiesa filippina deve fare ancora un notevole cammino di maturazione. Essa conserva ancora un grande potere, non solo morale, ma anche politico (basta che i Vescovi facciano una dichiarazione, riescono a bloccare persino una legge in discussione in parlamento). La situazione, naturalmente sta cambiando anche nelle Filippine; ma la Chiesa continua a essere molto influente. E fin qui niente di male: finché si tratta di difendere i valori morali (nelle Filippine non sono ammessi né divorzio né aborto), ben venga anche l’autorevolezza (o il “potere”, chiamatelo come vi pare) della Chiesa.

Il problema nasce quando dai valori morali si passa alla politica spicciola. Non mi sembra che sia compito della Chiesa interferire in questo campo, che non le compete. O meglio, è il campo dove i cattolici possono (e devono), a titolo personale o raggruppati nelle loro associazioni, intervenire. Ma non è questo un ruolo che spetta alla gerarchia (Vescovi e sacerdoti). Il loro compito, semmai, è quello di formare il laicato, di educare la coscienza cristiana dei fedeli, perché possano poi svolgere un ruolo politico. E invece è un continuo interferire in questioni strettamente politiche: Vescovi che chiedono alla Presidente di dimettersi, preti che manifestano contro il governo, suore che si fanno sostenitrici e protettrici di leader dell’opposizione, ecc.

È ovvio che il piú delle volte tali interventi strettamente politici vengono ammantati di motivazioni morali. Ed ecco che si cade nel moralismo, di cui ci siamo già occupati e che ora viene cosí bene descritto da Socci nel suo articolo. Anche nel caso delle Filippine, come in Italia, gli uomini e le donne di Chiesa non si accorgono di essere strumentalizzati; non si accorgono che le varie “questioni morali” sono delle armi di cui altri si servono per sbarazzarsi dei loro nemici politici. Preti e monache, nella loro ingenuità, non se ne accorgono, e si prestano al gioco. Talvolta viene da pensare che farebbero meglio, anziché criticare i politici, a guardarsi in casa, dove non sempre le cose vanno come dovrebbero…

Ma l’aspetto che mi fa piú riflettere della candidatura di Padre Panlilio è che essa rappresenta una sconfitta per la Chiesa e la società di quel paese. Se ci si deve mettere nella mani di un prete per risollevare le sorti di una nazione, significa che la società è messa proprio male, non essendo in grado di esprimere un candidato decente. Ma è anche un fallimento per la Chiesa, che, venendo meno al suo compito specifico, non è stata capace di educare nessun laico ad assumere responsabilità politiche. Significa che è una Chiesa ancora clericale.

Infine sarà una sconfitta per Padre Panlilio stesso: non perché perderà le elezioni (se si presenta, do per scontata la sua elezione), ma perché inevitabilmente diventerà (lo è già nella sua provincia) un uomo di parte, quando il compito di un sacerdote dovrebbe essere quello di stare al di sopra delle parti, segno e strumento di unità.

martedì 28 luglio 2009

Cristianesimo e Islam

Di tanto in tanto torna alla ribalta il problema del rapporto fra Cristianesimo e Islam; segno, questo, che si tratta di una questione molto viva e attuale.

Circa un mese fa AsiaNews pubblicava l’intervento di Padre Samir Khalil Samir all’annuale incontro del Comitato scientifico della rivista Oasis, fondata dal Card. Scola, incontro svoltosi a Venezia, sull’isola di San Giorgio, nei giorni 22-23 giugno scorsi.

Ieri Sandro Magister ha postato, sul sito www.chiesa, un articolo, in cui si riprende un editoriale di Padre Giovanni Sale per La Civiltà Cattolica (quaderno 3817 del 4 luglio 2009), insieme con i risultati di una ricerca condotta recentemente sui programmi trasmessi dalle reti tv dei paesi arabi (risultati pubblicati in Italia nel volume Media arabi e cultura nel Mediterraneo, a cura di Ornella Milella e Domenico Nunnari, Gangemi Editore, Roma, 2009).

In entrambi i casi si tratta di interventi interessanti, sui quali mi trovo sostanzialmente d’accordo, ma con qualche riserva.

1. Condivido l’attenzione che si rivolge verso il mondo islamico. Si tratta di una realtà importante del mondo contemporaneo, che non possiamo in alcun modo ignorare. Anche perché non è piú una realtà lontana da noi, ma ce la ritroviamo in casa e siamo costretti a fare i conti con essa. Un cristiano, inoltre, deve essere sempre molto attento a ciò che accade intorno a lui, per individuare eventuali spazi che gli si possono aprire per l’annuncio del Vangelo. Il cristianesimo non è una religione etnica, che si possa identificare con un determinato popolo; esso è, per sua natura, una religione universale, non solo aperta, ma destinata a tutti gli uomini.

2. Mi lascia invece un po’ perplesso l’atteggiamento che i cristiani hanno assunto recentemente verso l’Islam (e le altre religioni in genere). Con la scusa del rispetto e del dialogo, non sono piú preoccupati di convertire gli uomini a Cristo, ma semplicemente di convivere con loro, lasciando che ciascuno rimanga com’è. Ma quello che meraviglia ancora di piú è che i cristiani, mentre hanno rinunciato a farsi missionari del Vangelo, sembrano essersi trasformati in “missionari” dell’Occidente e dei suoi valori (tolleranza, libertà, democrazia, ecc.). Per carità, non è che un cristiano debba essere contro tali valori (che condivido pienamente), ma mi pare strano che debba essere proprio il cristiano a farsi portatore di tali valori presso i popoli. Non possiamo piú annunciare il Vangelo, ma dovremmo diffondere la democrazia nel mondo? C’è qualcosa che non mi torna. Padre Samir si chiede se noi cristiani, che abbiamo una piú lunga esperienza di confronto con la modernità, possiamo aiutare i musulmani a compiere lo stesso cammino che noi abbiamo compiuto. Padre Sale si chiede se le società islamiche possano trasformarsi in democrazie compiute di tipo occidentale. Ma perché tali preoccupazioni? Che importa a noi? Lasciamo che i musulmani facciano la loro strada: è un problema loro, non nostro. Oltretutto, non ci accorgiamo di avere ancora una mentalità totalmente eurocentrica, per cui solo ciò che facciamo noi è buono e tutto quello che fanno gli altri è sbagliato; la nostra esperienza è l’unica possibile e tutti gli altri sono destinati a percorrere il nostro stesso cammino; la nostra è una civiltà superiore e tutte le altre sono retrograde? A parte il fatto che è ancora tutto da dimostrare che noi siamo liberi e gli arabi non lo sono, che i nostri paesi sono democratici e quelli musulmani no, perché escludere che possano esistere dei modelli alternativi? In ogni caso, mi fa piacere sapere che fra gli Stati islamici ce ne siano almeno due democratici (Libano e Turchia); finora ci era sempre stato detto che Israele era l’unica democrazia del Medio Oriente…

3. Sono d’accordo che buona parte dei musulmani sia contro l’Occidente, perché vedono in esso un pericolo per la sopravvivenza della loro religione, della loro cultura, della loro civiltà. Essi sono contro l’Occidente non perché esso sia sinonimo di Cristianesimo, ma perché, al contrario, esso è diventato sinonimo di secolarizzazione; e non hanno tutti i torti. Personalmente, ho sempre spiegato in questo modo il fenomeno del fanatismo religioso, che si va via via diffondendo fra i musulmani (sia ben chiaro che “fanatismo” non si identifica con “terrorismo”, fenomeno su cui preferisco non esprimermi). Il fanatismo non fa parte della tradizione dell’Islam, che anzi è sempre stato piuttosto tollerante. Esso può essere spiegato solo come una forma di reazione a un supposto attacco, una forma di autodifesa, quanto si vuole irrazionale ma comprensibile, della propria civiltà.

4. In questa analisi del moderno Occidente, noi cristiani potremmo pure trovarci d’accordo con i musulmani. Che cosa è rimasto di cristiano all’Occidente? Praticamente nulla. Perché allora farci suoi difensori presso gli altri popoli? Semplicemente perché noi viviamo in Occidente? Ma non ci rendiamo conto che ormai la maggior parte dei cristiani non vive piú in Occidente? Perché piuttosto non ci chiediamo anche noi come potremmo rispondere al fenomeno della secolarizzazione? Il fanatismo, come giustamente rileva Padre Samir, può insinuarsi anche fra i cristiani. L’unica risposta valida sta nel ravvivare la nostra fede.

5. Una volta che si vive saldi nella fede, l’unica preoccupazione è quella di conservare tale fede e di diffonderla intorno a noi, infischiandocene di quel che nel frattempo accade all’Occidente e ai suoi valori. Chi vive nella fede non si angoscia piú di tanto per quel che vede avvenire intorno a sé; anzi, scopre delle opportunità (come oggi si dice) lí dove gli altri vedono solo rovina. Il mio ex-Superiore generale, che promosse la fondazione nelle Filippine (con un occhio alla Cina), soleva dire che il comunismo aveva reso un grande servizio alla Chiesa, perché aveva fatto piazza pulita di tutte le pseudo-religioni e le superstizioni diffuse fra i popoli, spianando cosí la strada all’evangelizzazione. Forse, aggiungo io, il comunismo non ha fatto in tempo a compiere la sua opera, ed è giunta la globalizzazione a proseguire il lavoro, con la secolarizzazione di cui si fa portatrice. Sta a noi cristiani scoprire in questo un’occasione per annunciare il Vangelo. A una condizione: che, anziché piangerci addosso e lasciarci a nostra volta sopraffare dalla secolarizzazione, teniamo viva la fiamma della fede, pronti ad appiccare il fuoco, non appena possibile, in ogni angolo della terra.

lunedì 27 luglio 2009

Lettera aperta a Mons. Fellay

Eccellenza Reverendissima,

Non so se questa "lettera aperta" giungerà mai nelle Sue mani. Io l'affido agli angeli, perché Gliela recapitino personalmente. Già altra volta avevo scritto un articolo avendo in mente la vostra Fraternità; lo pubblicai su questo blog (fu il mio primo post), ed esso giunse miracolosamente a destinazione: fu ripreso dai vostri siti e definito "molto interessante".

Questa volta mi rivolgo a Lei, perché so che sono in corso i preparativi dei colloqui dottrinali con la Santa Sede, da voi a lungo richiesti e finalmente, con la remissione della scomunica, accordati da Papa Benedetto XVI. A quanto mi risulta, Lei è già stato a Roma per prendere i primi contatti con la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Personalmente, sono sempre stato del parere che non ci sia bisogno di "colloqui" per la riammissione nella comunione della Chiesa cattolica. L'unica cosa necessaria, a parer mio, dovrebbe essere la professione di fede prevista dai sacri canoni. Una volta che condividiamo la stessa fede, dovremmo essere in piena comunione. Sul resto, che non è compreso in quella professione di fede, ritengo che sia sempre possibile discutere liberamente, ma stando all'interno, non all'esterno della Chiesa. L'accettazione di un Concilio, che si è autodefinito "pastorale", non dovrebbe, secondo me, essere una condizione per la riammissione nella comunione ecclesiastica. Sono d'accordo che sia quanto mai urgente una riflessione sul valore e l'interpretazione del Vaticano II; ma non mi sembra che questo debba essere oggetto di una trattativa fra la Santa Sede e la Fraternità di San Pio X; mi sembra piuttosto un problema che riguarda l'intera Chiesa. È per questo motivo che ho proposto piú volte da questo blog che il prossimo Sinodo dei Vescovi sia dedicato all'interpretazione del Concilio.

Ma tant'è: a quanto pare, sia da parte vostra, sia da parte della Sede Apostolica un chiarimento sul Vaticano II è considerato come una condizione previa a qualsiasi altro tipo di accordo. Di qui la necessità di "colloqui dottrinali". Orbene, visto che tali colloqui dottrinali ci saranno, mi permetta di darLe qualche consiglio. Non perché pretenda di saperne piú di Lei, ma solo per esprimerLe, in spirito di fraterna carità, quel che sento in questo delicato momento.

Innanzi tutto, quando verrà a Roma per discutere con la CDF, non venga nella veste di colui che contesta o, peggio, rifiuta il Concilio. Questo significherebbe il fallimento immediato di qualsiasi dialogo. Venga piuttosto come uno che accetta il Vaticano II per quello che esso ha voluto essere, ed è effettivamente stato, cioè un concilio pastorale. Dica pure al Card. Levada che l'unica cosa che voi rifiutate — e su questo siamo tutti d'accordo — è l'assolutizzazione e l'ideologizzazione del Concilio, non il Concilio in quanto tale. Gli dica pure che voi trovate nei documenti del Vaticano II alcuni testi ambigui. Anche su questo, il Card. Levada dovrebbe convenire con Lei. Lo stesso Paolo VI trovò ambigua la trattazione della collegialità episcopale fatta dalla Lumen gentium, tanto è vero che sentí il bisogno di allegare a quella costituzione una "Nota praevia". Aggiunga che, essendoci delle ambiguità nei testi conciliari, si rende necessaria un'opera di interpretazione. Ma, per favore, non si presenti con la pretesa di essere Lei o la Sua Fraternità gli interpreti autorevoli del Concilio. Chieda piuttosto che sia la Sede Apostolica a dare un'interpretazione autentica dei passi piú oscuri. Qualcosa è stato già fatto (la detta "Nota praevia"; la spiegazione del significato dell'espressione "subsistit in"), ma molto rimane ancora da fare. Il criterio generale di tale interpretazione è stato già indicato da Benedetto XVI nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005: l'ermeneutica della riforma in contrapposizione all'ermeneutica della discontinuità e della rottura. E gli dica che voi, su questo, non solo siete pienamente d'accordo col Santo Padre, ma volete mettervi a sua completa disposizione per aiutarlo in quest'opera di rilettura del Concilio nel solco della ininterrotta tradizione della Chiesa.

Eccellenza Reverendissima, sono sicuro che su quanto ho scritto finora Lei si trovi in buona misura d'accordo. Mi pare di percepirlo dal tono dei Suoi ultimi interventi, molto piú concilianti e possibilisti di un tempo. Ma so pure che deve fare i conti, all'interno della Fraternità, con posizioni piú massimaliste, che La mettono in guardia dall'essere troppo arrendevole nei confronti della Santa Sede. A mio modesto parere, dovrebbe far capire a questi Suoi confratelli che non c'è nulla da guadagnare, in questo momento, a irrigidirsi su posizioni intransigenti. Il Santo Padre ha già fatto molti passi verso di voi; ora sta a voi fare qualche passo verso di lui.

Questo non significa cedere sui vostri principi; perché, se veramente avete a cuore le sorti della Chiesa, non c'è luogo migliore, per far valere quei principi, che la Chiesa stessa. Rimanendone fuori, voi lascerete la Chiesa in balia di quelle forze distruttive che la stanno a poco a poco portando alla rovina. Finché voi continuerete a rifiutare il Concilio, queste forze avranno buon gioco a dire: "Vedete? Loro sono fuori della Chiesa, perché rifiutano il Concilio; noi siamo la vera Chiesa, perché accettiamo, difendiamo e attuiamo il Concilio". Se anche voi accettate il Concilio, rimarranno spiazzati; e a quel punto si rivelerà chi è veramente cattolico e chi non lo è; chi interpreta il Concilio alla luce della tradizione e chi lo interpreta ideologicamente, appellandosi a un suo preteso "spirito".

Questo non significa neppure tradire l'eredità dell'Arcivescovo Lefebvre. Lei sa meglio di me che il vostro Fondatore partecipò al Concilio, dando un notevole contributo alle discussioni e all'elaborazione dei suoi documenti, che approvò e firmò nella loro totalità. Come mai? Non si rendeva conto delle ambiguità in essi contenute? Evidentemente sperava che se ne potesse dare un'interpretazione ortodossa. Fu solo quando vide che l'interpretazione e l'applicazione del Concilio era diventata monopolio dei modernisti che irrigidì le sue posizioni. Sono convinto che, se avesse visto che c'era spazio nella Chiesa per continuare le sue battaglie dall'interno, non sarebbe mai giunto a una rottura con la Sede Apostolica. Ora che questo spazio esiste, ed è lo stesso Sommo Pontefice a offrirvelo, mi sembrerebbe sciocco non sfruttare questa occasione irripetibile. Si tratta di scegliere se rimanere nel seno della Chiesa e di lí svolgere un ruolo, certamente difficile, ma prezioso per la salvaguardia della tradizione e la rivitalizzazione della Chiesa stessa; oppure preferire di rimanere ai margini o addirittura fuori della Chiesa, col rischio di trasformarsi nel tralcio separato dalla vite, destinato a seccare.

Eccellenza, mi scusi se mi sono permesso di intervenire su tali delicate questioni. La posso assicurare che, da parte mia, non c'è alcuna pretesa e alcun interesse, c'è solo il desiderio di vedere il ristabilimento della piena comunione nella Chiesa. La Chiesa ha bisogno di voi e voi avete bisogno della Chiesa.

Colgo l'occasione per confermarmi, con sensi di distinto ossequio, dell'Eccellenza Vostra Rev.ma

dev.mo

Giovanni Scalese, CRSP

domenica 26 luglio 2009

XVII domenica "per annum"

«Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?»

«C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?»


Gesú aveva diverse possibilità per saziare la fame della folla che lo seguiva. Essendo il Figlio di Dio, la piú ovvia sembrerebbe quella di creare pane dal nulla: colui che aveva creato dal nulla tutte le cose non avrebbe potuto creare qualche chilo di pane per sfamare cinquemila uomini?

Un'altra opzione, altrettanto praticabile per il Figlio di Dio, poteva essere quella suggerita dal diavolo durante le tentazioni: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane» (Mt 4:3). È vero che «c'era molta erba in quel luogo», ma si sarebbero pure trovate un po' di pietre da trasformare in pane...

Eppure Gesú non sceglie nessuna di queste possibilità: non crea, non trasforma; preferisce moltiplicare pane già esistente. Perché? Probabilmente perché non vuole fare tutto da sé, ma vuole coinvolgerci nei suoi miracoli; vuole che anche noi facciamo la nostra parte.

In questo caso il prescelto a collaborare con l'onnipotenza divina di Cristo è un povero ragazzo, il quale, piú previdente di tanti adulti, s'era portato il suo pranzo al sacco, cinque pani e due pesci, sufficienti per lui, ma... «che cos'è questo per tanta gente?». Eppure quei pochi pani e pesci, messi nelle mani di Gesú, sono sufficienti a sfamare tutta quella folla (e ce ne sarà d'avanzo).

Se quei pani fossero rimasti nella bisaccia di quel ragazzo, sarebbero appena bastati a soddisfare la sua fame; nelle mani di Gesú si sono inspiegabilmente moltiplicati, tanto da saziare migliaia di persone. Ma perché questo avvenisse, è stato necessario che quel ragazzo rinunciasse a quel poco che aveva e lo mettesse a disposizione di Gesú.

Quel che abbiamo — poco o tanto, non importa — se messo generosamente e disinteressatamente a disposizione del Signore, può prodigiosamente moltiplicarsi e diventare fonte di salvezza per l'umanità.

sabato 25 luglio 2009

Ancora su Bugnini

I miei ultimi post in materia liturgica hanno avuto una certa risonanza nella blogosfera cattolica, segno, questo, che si tratta di un argomento che desta un notevole interesse. Ringrazio tutti per l'attenzione; non ho alcun problema se i miei articoli vengono, parzialmente o integralmente, ripresi (purché sia citata la fonte): una volta che un testo viene pubblicato, perciò stesso è di dominio pubblico e può quindi liberamente diffondersi. Il bello di internet è di permettere alle idee di circolare senza ostacoli; per cui non ho mai compreso le limitazioni poste dai vari copyright, assurdi in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo.

Fra le diverse reazioni, mi sembra doverosa una risposta a Padre Matias Augé, che negli ultimi giorni ha citato per ben tre volte Senza peli sulla lingua sul suo interessantissimo blog Liturgia opus Trinitatis. Nel suo ultimo intervento, Padre Augé riprende parte del mio post Mons. Bugnini e la riforma liturgica, nel quale a mia volta riportavo alcune informazioni contenute in una Newsflash del Dr. Robert Moynihan, Direttore della rivista Inside the Vatican.

Padre Augé afferma che nel mio post intendevo "collegare una serie di fatti avvenuti fra il 1962 e il 1964. Questi fatti però sono riportati in modo distorto". E pertanto fa una serie di precisazioni, di cui lo ringrazio. Certamente egli è meglio informato di me, sia perché è un esperto di liturgia, sia perché ha avuto e ha la possibilità di contatti che io non ho mai avuto né, tanto meno, posso avere ora. Al momento, debbo accontentarmi di quanto leggo su internet, letto naturalmente con un certo senso critico e applicando alcuni criteri piú o meno scientifici (p. es., il collegamento dei fatti non è solo una possibilità, ma direi un dovere per uno storico: fare storia non significa solo riportare alcuni fatti, ma collegarli fra loro, cercando di scoprirne i rapporti di causalità e reciproca dipendenza).

Nel mio post mi sono basato sulle informazioni contenute nel dossier pubblicato dal Dr. Moynihan — che reputo giornalista serio — nella sua "Letter from Rome, #23". I fatti a cui facevo riferimento li ho ripresi di lí. Ovviamente conoscevo già l'accusa di massoneria risolta a Mons. Bugnini, ma non sapevo del suo "primo esilio" (tale espressione — The First Exile — è contenuta nell'articolo di Michael Davies Annibale Bugnini: The Main Author of the Novus Ordo). Padre Augé dice che non è vero che Mons. Bugnini "fu sospeso dal suo incarico [di segretario della Commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II] nel 1962". Questo perché in quell'anno tale commissione fu sciolta e fu costituita la Commissione conciliare della sacra liturgia, di cui fu nominato segretario il Padre Ferdinando Antonelli (il futuro cardinale). Secondo il Card. Larraona, interrogato dal Padre Augé, la prassi era di non nominare segretari delle commissioni conciliari le persone che avevano ricoperto tale incarico nelle commissioni preconciliari. A me sta bene qualsiasi spiegazione, purché storicamente e razionalmente fondata. Io avevo usato l'espressione "fu sospeso dal suo incarico nel 1962" cercando di rendere in un italiano piú soft la piuttosto brusca frase inglese di Davies: "He was summarily dismissed from his chair at the Lateran University and from the secretaryship of the Liturgical Preparatory Commission". Quanto alla testimonianza del Card. Larraona, non mi sembra molto attendibile, essendo lui la persona meno adatta per dare una spiegazione, se è vero che lo stesso Bugnini lo accusò di tale rimozione: "In his posthumous La Riforma Liturgica, Archbishop Bugnini blames Cardinal Arcadio Larraona for this action, which, he claims, was unjust and based on unsubstantiated allegations. 'The first exile of P. Bugnini' he commented." (p. 41; io non ho il libro di Bugnini, ma pregherei Padre Augé, che certamente lo possiede, di controllare la citazione).

Il secondo fatto da me riportato è la data dell'iscrizione di Bugnini alla massoneria (23 marzo 1963). Tale informazione non viene dall'intervista del Dr. Moynihan all'innominato Monsignore indicatogli dal Card. Gagnon, ma dall'Addendum allegato alla citata Newsflash, che riprende, come dice Padre Augé, notizie di stampa della seconda metà degli anni Settanta. Padre Augé cerca di smentire l'affiliazione di Bugnini alla massoneria attraverso una confidenza ricevuta da un Monsignore agli inizi degli anno Ottanta. Sinceramente, con tutto il rispetto per l'altrettanto innominato Monsignore, non mi sembra, questa, una prova determinante. La spiegazione data dal prelato appare piuttosto debole. Anche perché non rende ragione di un fatto incontrovertibile: la rimozione di Mons. Bugnini da segretario della Congregazione per il Culto divino e il suo allontanamento da Roma disposto da Paolo VI. È vero che di tale fatto non sono mai state date spiegazioni ufficiali; ma se non ci fossero stati motivi gravissimi e se il Papa non ne avesse avuto la prova piú certa, tale fatto non sarebbe mai avvenuto. Che Mons. Bugnini si sia sempre difeso dalle accuse che gli venivano mosse, mi sembra piú che comprensibile (anche Padre Maciel ha fatto lo stesso), ma questo non è sufficiente a scagionarlo.

Il terzo punto che Padre Augé mi contesta è la connessione da me compiuta fra il "primo esilio" di Bugnini (1962), la sua iscrizione alla massoneria (1963) e la sua nomina a segretario del Consilium ad exsequandam Constitutionem de sacra Liturgia (1964). Postillavo: "L'iscrizione alla massoneria aveva avuto effetto immediato...". In ciò Padre Augé ha tutto il diritto di contestarmi, dal momento che non si tratta di una connessione provata, ma semplicemente di una mia congettura. Come dicevo, il lavoro dello storico (con ciò non voglio atteggiarmi a storico, ma vorrei solo seguire il loro metodo) non è tanto quello di riportare dei fatti, quanto piuttosto quello di collegarli fra loro, per verificare se intercorra fra loro un rapporto di causa-effetto. Ovviamente, si tratta di un lavoro rischioso, perché si possono prendere delle forti cantonate; ma è un rischio che va corso, se si vuole capire qualcosa. La mia esperienza ("limitata, ma sufficiente", ripeto) m'insegna che certe cose sono possibili, e di fatto avvengono, nella società e, ahimè, nella Chiesa. La cosa non mi scandalizza piú di tanto e, se devo proprio essere sincero, neppure mi interessa piú di tanto (non ho alcuna intenzione di giudicare né Mons. Bugnini né alcun altro: sono questioni che riguardano esclusivamente la loro coscienza).

L'intento del mio post — ma questo sono sicuro che Padre Augé lo abbia capito perfettamente — non era quello di ritornare sulla disputata quaestio Bugnini massone sí – massone no; ma semplicemente quello di anticipare l'ovvia (tanto è vero che il Dr. Moynihan l'ha posta) obiezione: ma se l'artefice della riforma liturgica era davvero massone, allora la sua creatura non dovrebbe essere rimessa in discussione? Il mio intento era solo quello di cercare di dare una risposta a questa domanda.

venerdì 24 luglio 2009

Ripartire dal Concilio

Don Gianluigi (che ha la mia stessa età), nel rispondere al mio post If only... #3, dice di condividere sostanzialmente la mia descrizione della liturgia preconciliare. Riconosce che i tradizionalisti, allora, non usavano argomenti convincenti per difendere le loro posizioni; al contrario dei giovani, che erano piú battaglieri nel sostenere le loro idee (è anche vero che questa è solo l'impressione che avevamo noi, che all'epoca eravamo giovani, e forse non capivamo abbastanza le istanze di chi era piú vecchio di noi, mentre eravamo molto sensibili a tutto ciò che sapeva di nuovo...). Ad ogni modo, don Gianluigi conclude cosí il suo messaggio:

«Caro Giovanni, ci voleva sí una riforma; era già iniziata quando siamo nati noi; poi è arrivato il tempo dell'assurdo e del brutto: brutte chiese, brutta arte, brutta musica. Riprendiamo da dove eravamo rimasti negli anni 1955-1965».

Concordo pienamente con quest'ultima affermazione. In fondo, è il senso di quanto cercavo di esprimere nell'articolo Concilio e "spirito del Concilio", pubblicato nel primo post di questo blog. In quell'articolo muovevo varie critiche al Concilio (critiche che piacquero molto agli ambienti tradizionalisti, a cominciare dai lefebvriani); fra queste c'era l'obiezione che il Vaticano II non segnava affatto un "nuovo inizio" nella storia della Chiesa, ma costituiva semplicemente una tappa di un movimento di riforma già in corso da svariati decenni, con questa differenza: che fino ad allora le riforme erano state promosse dalla Sede Apostolica ed erano state condivise piú o meno da tutti; il Concilio invece (che si supporrebbe rappresentare l'intera Chiesa) provocò una lacerazione all'interno della Chiesa. Come mai? Che cosa era successo?

In fondo, se consideriamo i documenti conciliari, li troviamo perfettamente in linea con la tradizione immediatamente precedente (anche se poi esso incoraggia un ritorno alla "grande tradizione" della Chiesa). Da questo punto di vista, il Concilio rappresenta il frutto piú maturo di quel movimento di riforma già in corso nella Chiesa. Il problema nacque nel momento dell'interpretazione e dell'applicazione del Concilio: tali operazioni furono praticamente monopolizzate dall'ala progressista, che era già presente nel Concilio, ma che in quella sede aveva dovuto necessariamente scendere a compromesso con l'ala conservatrice per l'approvazione dei documenti conciliari. Dopo il Concilio, sfruttando le ambiguità insite nei testi conciliari e appellandosi a un presunto "spirito del Concilio", la lobby progressista impose la propria interpretazione del Concilio, che sembrava l'unica autorizzata. Anche la riforma liturgica risentí di tale interpretazione unilaterale, che perciò provocò la reazione lefebvriana, polarizzando cosí le posizioni su due atteggiamenti contrapposti e difficilmente conciliabili.

Come uscire da questo vicolo cieco in cui si trova attualmente la Chiesa? Personalmente non vedo altra via di uscita che il ritorno di tutti al punto di partenza, che non è — sia bene inteso — la Chiesa preconciliare, ma il Concilio stesso. Per quanto si possa discutere, legittimamente, sul Vaticano II (dal momento che non si tratta di un concilio dogmatico, ma "pastorale"), bisogna pur riconoscere che esso è l'unico punto di equilibrio, nel quale tutti — tradizionalisti e progressisti — possiamo ritrovarci. Se vogliamo ristabilire la comunione all'interno della Chiesa, penso che dovremmo fare tutti un passo indietro e tornare al Vaticano II e ripartire di lí, senza pregiudizi ideologici, ma lasciandoci condurre esclusivamente dallo Spirito di Dio verso le mete che egli stesso ci indicherà.

giovedì 23 luglio 2009

Chiesa Cattolica e Chiesa Anglicana

ZENIT ha pubblicato un interessante articolo sul Card. Newman, in procinto di essere beatificato. Ancora piú interessante un aforisma di Oscar Wilde, citato dall'articolista, Paolo Gulisano:

«La Chiesa Cattolica è per i santi e per i peccatori, per le persone rispettabili è sufficiente la Chiesa Anglicana».

Oscar Wilde, da buon irlandese, aveva perfettamente colto la natura della Chiesa Cattolica e ciò che la differenzia da qualsiasi Chiesa o Comunità nata dalla Riforma. Farebbero bene a riflettere tanti cattolici benpensanti dei nostri giorni...

mercoledì 22 luglio 2009

"Sensus fidelium"

Dopo aver letto il mio post di ieri su Mons. Bugnini e la riforma liturgica, Giovanni mi ha mandato il seguente messaggio, di cui lo ringrazio vivamente:


«
Fa un po' di senso apprendere che chi ha pensato la Messa, che oggi abbiamo e che per mezzo di voi sacerdoti celebriamo, sia stato un massone. Ma non sembra l'unico caso di commistione tra Chiesa e massoneria.

Qualche tempo fa analizzammo con il mio sacerdote, formatosi in San Giovanni Rotondo, l'architettura della nuova chiesa di San Pio, per intenderci quella di Renzo Piano, perché avevamo capito che il suo architetto era un massone e che la chiesa da uno studio accuratissimo di alcune persone ... era piena zeppa di simboli massonici. Stavamo per partire con una petizione per chiedere alla Santa Sede di proibire il Santo Sacrificio all'interno di quel luogo. Ma poi ci siamo fermati. Perché ci siamo resi conto, forse sbagliando, che in ogni caso dentro quella chiesa c'era e c'è Gesù in anima, corpo e divinità e, ammesso che il diavolo si possa essere impadronito delle progettazione, ormai in quel tabernacolo c'è Gesù il Signore dell'universo che vince sempre su tutto, fosse anche Satana.

La stessa cosa in fondo credo valga per la Santa Messa: l'ha composta un massone? Va bene, ma al centro c'è sempre il grande mistero del Sacrificio di Cristo e le mani di voi sacerdoti che fate diventare il pane e il vino Corpo e Sangue di Gesù. E questo è ciò che conta».


Mi sembra una testimonianza molto bella di quel sensus fidelium, che permette alla Chiesa di ritrovare l'orientamento nel bel mezzo della tempesta. Che nella Chiesa ci possano essere delle contaminazioni, non è la prima volta che avviene: è sempre avvenuto, fin dagli inizi della sua storia. Che si debba stare in guardia e mettere in guardia dai pericoli, lo richiedono le virtú della prudenza e della carità. Ma poi, alla fine, dobbiamo starcene tranquilli, sapendo che Cristo ha vinto il mondo (Gv 16:33) e che "le porte degli inferi non prevarranno" (Mt 16:18).

A questo proposito forse può essere utile rammentare quanto affermava il Beato Antonio Rosmini nelle sue preziosissime Massime di perfezione cristiana (che non mi stancherò mai di raccomandare come libro di meditazione):


«TERZA MASSIMA: rimanere in perfetta tranquillità circa tutto ciò che avviene per disposizione di Dio riguardo alla Chiesa di Gesú Cristo, lavorando per essa secondo la chiamata di Dio.

1. Gesú Cristo ha la potestà su tutte le cose, in cielo come in terra, e si è meritato di diventare Signore unico di tutti gli uomini. Per questo egli è anche l’unico che regola tutti gli avvenimenti con sapienza, potenza e bontà inenarrabile, secondo il suo beneplacito divino, per il maggior bene dei suoi eletti che formano la sua diletta sposa, la Chiesa.


2. Perciò il cristiano, per quanto gli avvenimenti possano sembrare contrari al bene della stessa Chiesa, deve godere una perfetta tranquillità e conservare una gioia piena, riposando interamente nel suo Signore. Tuttavia non deve smettere di gemere e di supplicare che avvenga la volontà del Signore come in cielo cosí in terra: cioè che gli uomini pratichino sulla terra la sua santa legge di carità come i santi la vivono in cielo.

3. Il cristiano, dunque, deve bandire dal proprio cuore l'inquietudine e ogni specie di ansietà e di preoccupazione: anche quella che sembra talvolta avere per scopo il solo bene della Chiesa di Gesú Cristo. Molto meno ancora egli deve temerariamente lusingarsi di poter mettere riparo a questi mali prima di vedere chiara la volontà del Signore a loro riguardo. Deve aver presente che solo Gesú Cristo governa la sua Chiesa, e che la cosa che piú gli dispiace ed è piú indegna del suo discepolo, è la temerità di quanti, dominati da cecità di mente e da nascosto orgoglio, senza essere chiamati e mossi da lui, presumono di fare di propria iniziativa qualche bene, anche minimo, nella Chiesa. Come se il divin Redentore avesse bisogno della loro miserabile cooperazione o di quella di chiunque altro. Nessuno è necessario al divin Redentore per la glorificazione della sua Chiesa. Essa consiste nella redenzione dalla schiavitú del peccato, in cui tutti gli uomini si trovano. Solamente per la sua gratuita misericordia egli assume fra i redenti quelli che gli piace elevare a tale onore. Di solito, poi, per le opere piú grandi, egli si serve di ciò che è piú infermo e piú spregevole agli occhi del mondo».


L'atteggiamento giusto del cristiano nei confronti della Chiesa è, sí, quello di lavorare e soffrire con essa e per essa, ma rimanendo sempre nella piú assoluta pace interiore, perché egli sa che, al di là dei Papi, Vescovi e sacerdoti che si succedono (e che possono sbagliare), è Cristo stesso, attraverso il suo Spirito, a guidare la Chiesa.

martedì 21 luglio 2009

Mons. Bugnini e la riforma liturgica

Ieri, proprio mentre stavo pubblicando il mio post If only... #3, ho ricevuto la Newsflash del Dr. Robert Moynihan, Direttore di Inside the Vatican (chi legge l'inglese può trovarla sul sito della rivista: la parte che mi interessa inizia col titoletto "The Briefcase Left Behind"). Si tratta di una inquietante intervista a un non meglio precisato Monsignore, indicato al Dr. Moynihan dal Card. Gagnon un mese prima di morire. L'intervista riguarda il caso di Mons. Annibale Bugnini, accusato di essere iscritto alla massoneria, un'accusa arcinota, ma che era rimasta finora sempre circondata da un'alone di dubbio, che poteva far sperare in una calunnia, piuttosto che in una realtà. Invece, a stare a ciò che dice il Monsignore intervistato (e che deve essere molto bene informato sui fatti), "It is certain". Il Monsignore spiega anche come si sia arrivati a tale conclusione, appunto grazie a una valigetta dimenticata.

Giustamente, il Dr. Moynihan pone l'obiezione che chiunque di noi porrebbe: "Ma se è davvero cosí, allora Paolo VI, nell'approvare la nuova Messa, potrebbe essere stato vittima di un inganno. Un fatto del genere non potrebbe mettere in discussione tutta la riforma liturgica? Ma allora, perché Paolo VI non ripartí da zero, se era convinto che ciò fosse vero?". L'obiezione è molto seria; se non si trova una risposta ad essa, saremo destinati a vivere nel dubbio che non solo Paolo VI, ma tutti noi siamo vittime di una grande impostura.

La limitata, ma sufficiente esperienza che ho in materia mi ha fatto giungere alla conclusione che, nella maggior parte dei casi, non si diventa massoni per motivi ideologici, ma semplicemente per interesse (anche se poi, una volta dentro, si è costretti a diventare strumenti per la diffusione dell'ideologia massonica). Mi pare che Mons. Bugnini non faccia eccezione a questa regola. Consideriamo le date. Nella sua Newsflash il Dr. Moynihan riporta anche un interessantissimo articolo di Michael Davies, dal quale si apprende che Mons. Bugnini, che era segretario della Commissione liturgica preparatoria del Concilio Vaticano II, era stato già sospeso dal suo incarico nel 1962 (non si sono mai conosciuti i motivi di tale allontanamento; Bugnini accusò del fatto il Card. Larraona, ma certamente ci doveva essere l'approvazione di Giovanni XXIII). Ora, l'iscrizione alla massoneria avvenne il 23 marzo 1963. Ebbene, che cosa avvenne nel 1964? Bugnini fu nominato da Paolo VI segretario del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia. L'iscrizione alla massoneria aveva avuto effetto immediato...

Ma allora, come mai Paolo VI non rimise in discussione l'intero impianto della riforma liturgica, che era stato ideato e realizzato da un massone? Evidentemente non rinvenne un legame cosí stretto tra i due fatti. Papa Montini, non appena ebbe la certezza della colpevolezza di Mons. Bugnini, lo rimosse dal suo incarico di Segretario della Congregazione per il culto divino e lo inviò Nunzio apostolico in Iran, non perché aveva fatto la riforma liturgica, ma semplicemente perché iscritto alla massoneria. Quanto alla riforma liturgica, evidentemente Paolo VI era convinto della sua bontà: anche se fra i suoi ispiratori c'era un massone, essa non poteva essere considerata una sua creatura né, tanto meno, una riforma "massonica". Lo stesso Pontefice molto probabilmente si considerava il garante di quella riforma: essa era stata fatta sotto il suo personale controllo e portava il sigillo della sua autorità.

lunedì 20 luglio 2009

If only... #3

Don Gianluigi mi ha mandato il seguente messaggio dopo aver letto il mio post di sabato scorso:


«P. Giovanni, ti scrivo circa l'ultimo tuo post "If only... #2". Secondo me sei stato un po' troppo duro e sbrigativo col tuo lettore.

1. Perché criticare il NO [= Novus Ordo] non significa necessariamente ritenerlo invalido (io lo celebro quotidianamente eppure mi sento in dovere di muovere rilievi critici). Se teologi e liturgisti scrivono che c'è bisogno di una riforma della riforma (vedi don N. Bux con il libro "La riforma di Benedetto XVI") una qualche ragione ci sarà. Se il card. Ratzinger poteva scrivere alcuni anni fa che la riforma la quale avrebbe dovuto essere una rivitalizzazione della liturgia, in realtà si è rivelata una "devastazione" (cfr. "La reforme liturgique en question") significa che ci sono ragioni più che fondate per dubitare della reale bontà della liturgia riformata.

2. Tu citi Paolo VI, per indicare la sua volontà di imporre il NO come alternativo al vecchio. E qui si rivela in tutta la sua tragica debolezza l'affare del Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia che ha elaborato la nuova messa. Il papa disse: "Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II". Il papa non si avvide nemmeno che quello che egli aveva approvato smentiva le richieste del Concilio stesso (latino, intangibilità dei testi, gregoriano, polifonia). Quando il Papa se ne avvide, non fece nulla per riportare la riforma ai dettami della Sacrosanctum Concilium.
Egli non seguì e non chiese conto del lavoro del Consilium ad exequendam, tant'è vero che autorevoli membri si lamentarono del modo di procedere precipitoso di Bugnini (cfr. card. Antonelli). Non poteva nemmeno chiedere conto, perché non è stato tenuto un regolare verbale degli incontri e quindi non sappiamo, e manco il papa sapeva, le ragioni che portarono a togliere parti della messa tradizionale e a produrne delle altre. (Perché, per esempio, è stato tolto ogni riferimento esplicito alla Trinità a cui va il sacrificio di lode, sia nell'offertorio sia alla fine? Chi lo propose? con quali motivazioni?).
Ci fu una così "matura deliberazione" che il papa approvò — spero senza accorgersene — una definizione della messa quantomeno ambigua. La messa è un'azione sacrificale, mentre il n. 7 dell'Institutio la definì "riunione del popolo di Dio, che si raduna insieme... per celebrare il memoriale del Signore". Una formula che poteva accontentare anche i sei esperti protestanti che ebbero un ruolo attivo in questa fase, ma che certo limitava il concetto cattolico di messa. Dopo pochi mesi il papa approvò una nuova Institutio modificata. Ma quei concetti così nuovi rispetto alla teologia liturgica cattolica rimasero nei nuovi riti che da essi erano stati ispirati.
Questa nuova messa ancora sperimentale fu celebrata nell’ottobre del 1967; al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione della cosiddetta "messa normativa", ideata dal Consilium. Tale messa suscitò non poche perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62 iuxta modum) e 4 astensioni su 187 votanti. Nonostante ciò fu imposta a tutta la chiesa senza sostanziali modifiche.

3. Tu dici: "Che abbiamo impedito ai fedeli di fare esperienza diretta dell'autentica liturgia". Insomma la colpa sarebbe dei vescovi e dei preti che non valorizzano appieno il NO e si lanciano in arbitrarie sperimentazioni. Ma a me sembra che le improvvisazioni e gli arbitrii scaturiscano dalla riforma stessa che lascia aperte troppe porte: quanti vel... pro opportunitate e simili circa i riti da compiere, che hanno finito per confondere le idee, tanto che in ogni paese si celebra un rito diverso.

4. Ciò che Pio XII condannò nella Mediator Dei si è ripresentato nel NO, come l'archeologismo. Si è idealizzato il primo millennio (vedi comunione in mano e in piedi, scambio di pace), tranne il digiuno eucaristico e la preghiera rivolta a Oriente e si è bandito tutto ciò che era scaturito nel secondo millennio.

5. Infine quello che mi sembra più grave, non è stata rispettata l'essenza del rito romano. La messa tipica iniziava con il canto dell'introito, mentre le preghiere ai piedi dell'altare erano private del celebrante. L'offertorio esprimeva in modo inequivocabile il fine per cui si offre il sacrificio: cancellato completamente con preghiere prese non dalla tradizione, ma addirittura dall'ebraismo. Il canone che era un tutt'uno con le altre parti è stato reso intercambiabile con anafore realizzate a tavolino che non hanno un'origine comune con il rito stesso. La preghiera sotto voce che era una caratteristica codificata dal concilio di Trento e che favorisce la partecipazione intima e spirituale dei fedeli, disprezzata completamente, tanto che oggi si canta anche il canone.

Detto questo, penso che il tuo lettore avesse qualche ragione nell'affermare che non è abbastanza celebrare in latino e bene il NO per riportare un vero spirito liturgico. È insita nel NO la svolta antropologica di Rahner, che porta inevitabilmente il celebrante a sentirsi protagonista della liturgia, non foss'altro perché guarda in faccia i fedeli e parla continuamente per farsi sentire da loro e non da Dio. I fedeli sono condizionati dal suo sguardo, dalla sua espressione, dal tono di voce, dagli interventi ad libitum che possono essere in ogni momento. Rivolgersi a Dio diventa effettivamente un'impresa non facile.
Ma a Dio tutto è possibile».


Accolgo di buon grado l'avviso fraterno di don Gianluigi: se sono stato troppo duro e sbrigativo, chiedo scusa. Coloro che mi leggono da qualche tempo dovrebbero ormai sapere che talvolta mi lascio prendere la mano, specialmente quando si tratta di questioni che mi stanno molto a cuore, come in questo caso.

Per me la riforma liturgica, come tutte le cose umane, non è perfetta: ha molti limiti e potrebbe (dovrebbe?) essere migliorata (e per questo condivido non poche delle osservazioni di don Gianluigi); ma questo non significa che essa debba essere gettata a mare e si debba tornare, semplicemente, alla liturgia pre-conciliare.

Quando si sente parlare della liturgia prima del Concilio, sembra che questa fosse perfetta e che a un certo punto siano arrivati degli iconoclasti che abbiano voluto distruggere tutto, non si capisce bene perché. Se si è sentito il bisogno di una riforma liturgica, qualche motivo ci sarà pur stato. Io ho fatto in tempo a conoscere la liturgia tridentina, perché sono diventato chierichetto prima della riforma liturgica. E ricordo il mio parroco che celebrava la Messa in un quarto d'ora: non era uno spettacolo cosí edificante... Le chiese erano certamente piú piene di ora, ma non c'era tutta quella devozione e raccoglimento che oggi si immagina: in prima fila i bambini (il viceparroco doveva inventarsi tutti gli stratagemmi per tenerli un po' attenti); poi le donne che recitavano il rosario; poi gli uomini (quei pochi che c'erano...) che si facevano i fatti loro; e in fondo alla chiesa i giovani che... guardavano le ragazze. Per questo si è sentito il bisogno di una partecipazione piú attiva. Che poi, con la riforma liturgica, non si sia ottenuto il risultato (probabilmente perché si sono sbagliati i mezzi per raggiungerlo), è un'altra questione; ma perlomeno si dovrebbe riconoscere la buona intenzione e
apprezzare lo sforzo per raggiungerlo.

Quando leggo le critiche di parte tradizionalista al Novus Ordo (che per lo piú hanno un'unica origine: il Breve esame critico del "Novus Ordo Missae", a quanto pare promosso dalla compianta Cristina Campo e presentato a Papa Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci), ho l'impressione che esse partano da un presupposto sbagliato. Tali critiche fondamentalmente consistono in un confronto tra il vecchio e il nuovo rito; e in genere sottolineano gli elementi del vecchio rito assenti nel nuovo. Presupponendo che il vecchio rito fosse perfetto, è ovvio che il nuovo risulti piuttosto carente. Ma probabilmente non è questo l'atteggiamento giusto: il Novus Ordo va considerato in sé stesso, non confrontato col Vetus (e in tale prospettiva penso che Paolo VI lo esaminò). Poi bisogna chiedersi: questo o quell'elemento è valido, è portatore di un significato teologico ortodosso o veicola una qualche tesi piú o meno ereticheggiante? Sinceramente, non mi sembra che nella nuova Messa ci siano eresie. È vero che l'offertorio (o "presentazione dei doni", come oggi viene chiamato) è radicalmente cambiato; è vero che esso non insiste piú cosí tanto sull'aspetto sacrificale; ma forse per questo la Messa ha perso il suo carattere sacrificale? Ci sono altri elementi che lo sottolineano (nello stesso offertorio, Paolo VI in persona volle conservare l'Orate fratres a rammentare tale verità). D'altra parte il Novus Ordo ha messo in luce tanti altri aspetti che nel Vetus Ordo, pur non venendo negati, erano forse un tantino trascurati. La Messa va vista nel suo insieme; non si possono isolare e assolutizzare i diversi elementi. Nell'insieme, mi pare che il nuovo rito della Messa sia equilibrato e piú ricco dell'antico. Ciò non toglie che ci siano alcuni aspetti che possano o addirittura debbano essere rivisti (p. es., il modo in cui sono stati reintrodotti l'oratio fidelium e il rito della pace o il modo di ricevere la comunione).

Che la riforma liturgica sia stata fatta un po' affrettatamente e che essa non sia l'attuazione fedele di quanto previsto dal Concilio, è un dato di fatto. Per questo vado ripetendo che, nonostante le legittime critiche che si possono rivolgere al Concilio, esso costituisce quel punto di equilibrio in cui tutti ci possiamo ritrovare (non solo in campo liturgico). Il Concilio aveva dato delle indicazioni sobrie, ma molto precise, su come si sarebbe dovuta realizzare la riforma liturgica. Il Consilium andò oltre il mandato conciliare (e in questo ha ragione don Gianluigi, con l'avallo di Paolo VI), e ora ne raccogliamo i frutti. Ci si fosse limitati a fare quanto il Concilio aveva prescritto, forse a quest'ora non staremmo qui a discutere.

È proprio in questo contesto di "ritorno al Concilio" che io mi faccio sostenitore di una liturgia rinnovata in latino: non è una mia idea balzana; è semplicemente ciò che aveva previsto il Concilio (Sacrosanctum Concilium, n. 36). Che il gregoriano debba essere il "canto proprio della liturgia romana" (non solo di quella tridentina, ma anche di quella rinnovata), non sono io a dirlo, ma il Concilio (ib., n.116). A proposito, don Gianluigi, hai mai provato a cantare in gregoriano la preghiera eucaristica? Per favore, fallo almeno una volta, poi sappimi dire quel che tu hai provato e la reazione dei fedeli che vi hanno assistito. Tu hai ragione a dire che nelle liturgie postconciliari, il protagonista è diventato il celebrante e i fedeli sono condizionati dalla sua presenza invadente. Ti assicuro, non c'è bisogno di voltare le spalle ai fedeli per scomparire. Basta spersonalizzare il piú possibile la propria performance; basta applicare alla lettera le rubriche del messale: tutti capiranno, senza fatica, che non stai recitando una parte, ma stai semplicemente eseguendo un rito che non ti appartiene, di cui tu sei soltanto un ministro. Il modo di celebrare la Messa, pur non toccando l'essenza del rito, ha la sua importanza, nel Vetus come nel Novus Ordo: tanto la Messa tridentina quanto quella postconciliare possono essere celebrate bene o male; e questo ha la sua incidenza sulla effettiva partecipazione dei fedeli. Forse uno dei limti della riforma liturgica è stato proprio questo: pensare che bastasse modificare qualche rito per ottenere la actuosa participatio. I liturgisti del Consilium forse non si avvidero che ciò che innanzi tutto si doveva fare era cambiare l'atteggiamento con cui ci si accosta ai santi misteri. Pertanto, ben venga una "riforma della riforma", ma con l'accortezza che a nulla varranno le migliori riforme esteriori se, cambiando i riti, non cambieremo anche i cuori.

domenica 19 luglio 2009

XVI domenica "per annum"

«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».

Certamente il vangelo odierno mette in risalto l'umanità di Gesú, che si commuove di fronte alle folle e ai loro bisogni, materiali e spirituali. Sono dei poveri sbandati: hanno bisogno di una guida. Sono affamati: Gesú moltiplicherà per loro i pani. Ma, ancor prima della fame materiale, Gesú soddisfa la loro fame spirituale: "si mise a insegnare loro molte cose".

Ma nel testo citato possiamo vedere anche un'icona di tutta l'esistenza terrena di Gesú, a partire dal mistero dell'incarnazione. Facendosi uomo, il Figlio di Dio vide di fronte a sé l'umanità allo sbando: "pecore che non hanno pastore". E ne ebbe compassione. E per questo accettò di diventarne il pastore: il "buon pastore", il vero, l'unico pastore dell'umanità.

La condizione dell'umanità non è cambiata. Nonostante i tanti leader che continuamente le si propongono e nelle cui mani le folle ripongono le loro speranze, gli uomini continuano a errare come "pecore che non hanno pastore". Perché solo uno è il Pastore che ha veramente a cuore la loro sorte, non fa il proprio interesse ed è disposto a dare (e di fatto ha dato) la sua vita per loro. Solo in Cristo l'umanità ritrova sicurezza, unità e pienezza di vita.

sabato 18 luglio 2009

If only... #2

Un lettore mi ha scritto a proposito del mio post If only... del 6 marzo scorso:


«Ho avuto occasione di leggere il Suo intervento ... ed ho deciso di risponderLe. L'argomento del Novus Ordo è troppo complesso per essere affrontato in poche righe, ma Le posso dire che la frequentazione della Parrocchia della SS. Trinità dei Pellegrini a Roma, che grazie al Motu Proprio del Papa è divenuta "Parrocchia Personale" per la celebrazione di tutti i sacramenti nel Rito Tradizionale con il Messale rivisto da Papa Giovanni XXIII nel 1962, è stata un'esperienza grandiosa per me che ha comportato l'apertura di nuovi scenari nella mia esperienza spirituale.
Nel Suo testo c'è il pregio di una notevole capacità di tolleranza, persino nei confronti della messa antica, e questo Le dà il merito di non essere confuso con quella parte del clero che ha visto nel Motu Proprio una pericolosa inversione di tendenza verso il Medioevo (salvo poi che occorrerebbe vedere quanto il Medioevo fosse peggiore del nostro mondo moderno, apparentemente molto disinfettato sul piano materiale, ma molto lurido su quello spirituale).
Ma questa Sua frase merita un commento a parte; si riferisce alla coppia di Filippini:

"Cosí, ho proposto di celebrare la Messa in latino secondo il Messale di Paolo VI, in canto gregoriano e con le letture in inglese. Sono rimasti cosí soddisfatti, che ho pensato: se tutti i sacerdoti avessero sempre celebrato il novus ordo nel modo dovuto, forse a questo punto nessuno avrebbe nostalgia del vecchio uso e non ci sarebbe stato bisogno di nessun motu proprio..."

Effettivamente quello che Lei dice non ha molto senso, se è vero, come è vero, che la Riforma Liturgica fu voluta "apparentemente" proprio per venire incontro alla richiesta da parte di un gran numero di fedeli che da tempo sollecitavano — a detta dei riformatori — una maggiore comprensione dei testi. Ma Lei sa benissimo che il Novus Ordo non è affatto la trasposizione in lingua vernacolare della Liturgia Cattolica, ma un sua totale trasformazione, che è stata analizzata e bocciata da molti teologi tra cui i Cardinali Ottaviani e Bacci subito dopo la promulgazione. Lei vorrebbe salvare le apparenze riconsegnando al latino una liturgia riformata che dista anni luce da quella della Chiesa Cattolica tradizionale, forse perché si rende conto del baratro di abusi e sbavature che questa riforma ha comportato. Lei forse vorrebbe che almeno formalmente si ritornasse all'antico, magari con il rischio che nessuno capisca nulla, ma con un rito accettabile per ordine e compostezza?
Questo non è giusto e mi creda non rende giustizia alla verità delle cose. La Messa tradizionale cattolica è la Polifonia Antica, il Novus Ordo è il Festival di San Remo, questa è la mia opinione, e non è possibile nobilitarla traducendola in latino.
La Sua posizione è comunque interessante perché indica un disagio nei confronti di un rito che ha dato risultati anche scandalosi, e riconosca almeno una cosa: grazie al Santo Padre ed al Suo Motu Proprio anche Lei nel novembre del 2007 ha acquistato il Suo Messalino...
La saluto con simpatia.
Dr. Alessandro Guzzi».


Mi spiace per il gentile lettore, ma non mi sembra che abbia capito bene la mia posizione. Forse ha scoperto solo di recente questo blog, e quindi non ha ancora avuto modo di conoscermi a fondo.

Innanzi tutto, lo inviterei a pesare bene le parole. Forse non si rende conto, ma fa delle affermazioni pesanti, che certamente non sono in sintonia con il motu proprio. Quando parla di "Lituriga Cattolica", la identifica sic et simpliciter col Vetus Ordo; il Novus Ordo ne sarebbe una "totale trasformazione", "che dista anni luce" dalla liturgia "della Chiesa Cattolica tradizionale". La logica conseguenza di tali affermazioni è quella di considerare invalido il nuovo rito, cosa che non solo è contro il motu proprio, ma sapit haeresim. Stiamo attenti a non diventare eretici in nome della tradizione.

Per quanto riguarda la mia posizione, il lettore afferma che io vorrei "salvare le apparenze riconsegnando al latino una liturgia riformata"; vorrei "che almeno formalmente si ritornasse all'antico, magari con il rischio che nessuno capisca nulla, ma con un rito accettabile per ordine e compostezza". Interessante notare che, per criticare la mia posizione, il lettore, che si dice tradizionalista, si serve di un argomento che ci si aspetterebbe da un progressista. Perché tanta preoccupazione che la gente non capisca nulla? Forse capirebbe di piú col Vetus Ordo? Ho già detto in un mio precedente post che non mi sembra poi un problema cosí insormontabile se l'Ordo Missae (diverso è il caso delle letture) dovesse rimanere in latino: una volta che so (e, se non lo so, basterebbe usare un messalino o un foglietto de La Domenica) che Dominus vobiscum significa "Il Signore sia con voi" e che la risposta è Et cum spirito tuo (che significa "E con il tuo spirito"), sarebbe cosí problematico anche per chi non conosce il latino ripetere quelle semplici formulette? In fondo, anche nella liturgia in volgare continuiamo a ripetere Amen e Alleluia senza aver studiato l'ebraico...

Ma quello che mi fa piú riflettere è l'affermazione secondo cui non è possibile nobilitare la nuova liturgia "traducendola in latino". Il lettore, e chissà quanti con lui, pensa che la nuova liturgia sia nata nelle lingue volgari e che, se la si vuol celebrare in latino, sia necessario "tradurla". Il lettore neppure immagina che il Messale di Paolo VI è in latino; non solo, ma non immagina neppure che, mentre nelle lingue volgari siamo alla 2a edizione (in inglese siamo ancora alla 1a!), il Messale di Paolo VI in latino ha già raggiunto la ristampa "riveduta e corretta" della 3a edizione. E tale Messale può essere utilizzato da qualsiasi sacerdote, in qualsiasi luogo, in qualsiasi circostanza, senza bisogno di alcun indulto o motu proprio. Il problema è che nessuno lo fa. È questo che mi fa arrabbiare. I fedeli non hanno mai avuto la possibilità di sperimentare la "vera" liturgia rinnovata; molto spesso sono costretti ad subirne scadenti scimmiottature. E poi ci si meraviglia che alcuni cerchino rifugio nella Messa tridentina. Ripeto e confermo quanto scritto nel mio post If only... e qui ripreso dal gentile lettore. La sua lettera dimostra la tremenda responsabilità di tutti noi (vescovi e sacerdoti), che abbiamo impedito ai fedeli di fare esperienza diretta dell'autentica liturgia; li abbiamo privati di un loro diritto; li abbiamo defraudati di qualcosa che loro apparteneva. Perché meravigliarci ora se alcuni di loro pensano che, per ritrovare la "Liturgia Cattolica", ci si debba necessariamente rivolgere al rito tridentino? Ed è proprio questo che mi preoccupa maggiormente del m. p. Summorum Pontificum: che alla fine, chi ci rimette, sia esclusivamente il Novus Ordo in latino. State pur certi che il motu proprio non intaccherà minimamente i diffusi abusi esistenti: semplicemente avremo, per usare le immagini del lettore, giustapposte fra loro, alcune chiese con la "Polifonia Antica" e altre con il "Festival di Sanremo".

Potrei fermarmi qui, ma penso che sia opportuno che chiarisca una volta per tutte la mia opinione a proposito del motu proprio. Naturalmente, lo accetto con religioso ossequio, come si conviene a qualsiasi decisione del Romano Pontefice. Il Papa può decidere autonomamente quel che ritiene piú opportuno per il bene della Chiesa (gli unici limiti gli sono posti dalla rivelazione). Il Papa potrebbe anche decidere l'abolizione del Novus Ordo e la restaurazione del Vetus Ordo tout court. Non sta certo a me sindacare il suo operato.

Quel che non mi convince è la motivazione che Benedetto XVI ha portato per giustificare il suo (ripeto, piú che legittimo) intervento: che il precedente Messale non sia stato mai abolito. Personalmente avrei qualche dubbio in materia. Recentemente il Padre Matias Augé ha pubblicato nel suo blog stralci di un illuminante discorso pronunciato da Paolo VI il 24 maggio 1976. Papa Montini, fra l'altro, affermava:

«L’adozione del nuovo “Ordo Missae” non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l’Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell’antica forma, con l’autorizzazione dell’Ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populo. Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino».

Se le parole hanno un senso, mi pare che la reale intenzione di Paolo VI nel promulgare il nuovo Messale sia piú che evidente. Che poi i suoi successori abbiano l'autorità di rivedere le decisioni di Paolo VI, non ci piove; ma, a mio parere, dovrebbe essere detto esplicitamente. Io stesso (che pure successore di Paolo VI non sono) ho l'impressione che egli restringesse eccessivamente la possibilità di celebrare secondo l'antico rito (ai sacerdoti anziani e malati che celebrano sine populo). Personalmente sono sempre stato del parere che non ci sia alcun problema che determinati gruppi possano celebrare la Messa secondo il Vetus Ordo. Sono sempre esistite Chiese sui juris (le Chiese orientali), diocesi (p. es., la diocesi di Milano), chiese (p. es., la cattedrale di Toledo), ordini religiosi con un loro rito proprio. Non vedo perché non ci possano essere oggi circoscrizioni ecclesiastiche (p. es. un'amministrazione apostolica), prelature personali, parrocchie, istituti di vita consacrata, società di vita apostolica o associazioni di fedeli che abbiano come loro rito proprio il rito tridentino.

Quel che mi fa problema è la liberalizzazione generalizzata di tale rito. Capisco il motivo della decisione pontificia (l'opposizione ai precedenti indulti da parte di non pochi vescovi), e lo condivido. Ma mi pare che tale liberalizzazione possa essere accettata solo come una fase transitoria in vista di una possibile, forse necessaria, "riforma della riforma", che riveda il Novus Ordo, recuperando alcuni elementi del Vetus. A quel punto, il rito romano della Messa dovrebbe tornare a essere uno solo per tutti, pur ammettendo, come ho detto, che alcuni gruppi possano continuare a celebrare la Messa secondo il vecchio rito. E questo non per benevola concessione o per semplice "tolleranza", ma come espressione di un legittimo pluralismo, che è sempre esistito e ha sempre costituito una ricchezza nella Chiesa.

venerdì 17 luglio 2009

Spunti di riflessione

Un lettore, Andrea (che ringrazio per l'attenzione), mi ha inviato un testo del Card. John Henry Newman, riguardante il tema che stiamo trattando in questi giorni:


Strettamente parlando la Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito. Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve avere le caratteristiche di un partito che ha la priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano, e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza di influenza fino alla fine dei tempi... I cristiani non osservano il proprio dovere, e divengono politici in senso offensivo..., non quando si comportano come partito, ma quando si dividono in molti par­titi. I credenti della Chiesa primitiva non interferirono negli atti di governo civile semplicemente perché, privi di diritti civili, non potevano agire legalmente. Ma il caso è diverso quando essi godono di diritti. Allora si può parlare di spirito secolare, non nel caso in cui essi usano tali diritti, ma qualora se ne servano per fini diversi da quelli per cui furono loro concessi...

Dal momento che è diffusa l’errata opinione che i cristiani, e specialmente il clero in quanto tale, non abbiano nessuna rela­zione con gli affari temporali, è opportuno cogliere ogni occa­sione per negare formalmente tale posizione e per domandarne le prove. È vero invece che la Chiesa è strutturata al fine speci­fico di occuparsi o (come direbbero i non credenti) di immi­schiarsi del mondo, i membri di essa non fanno che il loro dovere quando si associano fra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, alle corti dei re o tra le varie moltitudini. E se essi non possono ottenere di più, possono almeno soffrire per la verità e tenere desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di per­seguitarli.

(Gli Ariani del IV secolo, Jaca Book-Morcelliana, Milano-Brescia 1981, pp. 188 ss)


Mi sembra un testo molto interessante, che forse, lí per lí, ci lascia un tantino perplessi, dal momento che in questi anni, specialmente dopo il Concilio (vi ricordate la "scelta religiosa" dell'Azione Cattolica?), abbiamo sentito discorsi diametralmente opposti. Non dico che Newman abbia assolutamente ragione; può darsi che la Chiesa, nelle sue successive riflessioni, abbia colto qualche aspetto che era sfuggito al grande Cardinale inglese. Dico solo che non possiamo chiuderci nelle nostre certezze, senza lasciarci almeno mettere in discussione da cosí grandi pensatori.

Riflettendo su questo testo, mi è tornato in mente un intervento che avevo fatto una decina d'anni fa, quando ero rettore del Collegio alla Querce. Un nostro professore, Franco Banchi (attualmente coordinatore toscano dei Popolari Liberali) aveva pubblicato un libro ("Breviario del buon governo", Firenze 1998); il 19 giugno 1998, nella Sala dei Principi del Collegio ci fu la presentazione del libro, che io introdussi col seguente intervento:


Un punto di riferimento essenziale

Spesso si ripete, a ragione, che la politica può essere — deve essere — per il cristiano, una forma di carità. Essa è certamente un servizio, e il servizio è una delle espressioni più alte della carità. Ma non si dice mai che l’impegno politico per un cristiano è, innanzi tutto, una forma di apostolato. Di solito si dà a questa espressione un significato restrittivo, come se stesse a indicare esclusivamente l’annunzio del vangelo, un compito per altro solitamente demandato al clero.
Afferma il Concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’apostolato dei laici: «La missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e di perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico» (Apostolicam actuositatem, n. 5). Dunque un’unica missione, che però si realizza in due direzioni: l’evangelizzazione e la “sacramentalizzazione” da una parte, l’animazione cristiana delle realtà terrene dall’altra. L’apostolato consiste nell’attività della Chiesa ordinata alla realizzazione di questa missione (cf ibidem, n. 2). La Chiesa esercita l’apostolato mediante tutti i suoi membri, sia chierici sia laici, anche se, in genere, ai primi è riservata preferibilmente la predicazione e l’amministrazione dei sacramenti, ai secondi l’animazione cristiana della società. Si tratta comunque pur sempre del medesimo apostolato, svolto in due ordini diversi, quello spirituale e quello temporale. A proposito di tali ordini, il Concilio aggiunge: «Questi ordini, sebbene siano distinti, nell’unico disegno di Dio sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creazione, in modo iniziale su questa terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno» (ibidem, n. 5). Ne deriva il seguente corollario: «In ambedue gli ordini il laico, che è a un tempo fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sola coscienza cristiana (“una conscientia christiana continenter duci debet”)» (ibidem).
Dunque, due sono gli ordini, ma una sola è — deve essere — la coscienza: il cristiano deve essere guidato nel suo impegno temporale esclusivamente dalla coscienza cristiana. Bando perciò a tutte le dicotomie — vere e proprie schizofrenie! — che hanno segnato e, purtroppo, spesso continuano a segnare la presenza dei cattolici in politica. Talvolta si pensa che il cristiano abbia due coscienze: una, quella cristiana, a cui far riferimento nella propria vita personale, e un’altra, quella civile, necessariamente “laica”, a cui far riferimento nel proprio impegno nel mondo. Tale atteggiamento è assolutamente inaccettabile per un credente. Più volte, nei giorni scorsi, L’Osservatore romano ci ha riproposto l’esempio di re Baldovino, che preferì dimettersi — ed era disposto a rinunciare al trono — pur di non firmare una legge contraria alla sua coscienza cristiana.
Ma non corriamo, in tal modo, il pericolo di ricadere in una nuova forma di integralismo?

Per evitare l’integralismo

La riflessione della Chiesa negli ultimi anni ha portato a una nuova importante acquisizione, che, se osservata, impedirà di cadere nel pericolo, sempre incombente, dell’integralismo.
La nuova acquisizione consiste nel distinguere vari momenti nell’impegno cristiano, una specie di rifrazione, attraverso la quale, si scoprono, prima dell’impegno propriamente politico, una serie di momenti pre-politici, che non possono in alcun modo essere trascurati, se si vuole svolgere una corretta azione politica.
Innanzi tutto il momento spirituale: il momento della fede, della preghiera, del silenzio, dell’ascolto della parola di Dio, della formazione biblica, teologica e spirituale. È il punto di partenza, che non si può mai tralasciare: è il momento necessario per “abbeverarsi” alla fonte.
Quindi il momento culturale, il momento dell’inculturazione del vangelo, dell’incarnazione del messaggio nelle categorie proprie di una determinata cultura. A questo proposito, meraviglia come oggi si parli tanto di inculturazione con riferimento ai popoli del terzo mondo, e poi a casa nostra si esiga un cristianesimo “tutto spirituale”, purificato da qualsiasi incrostazione culturale. Per capire l’importanza della mediazione culturale, non è necessario ricorrere a Gramsci, con la sua “teoria dell’egemonia”, dal momento che i cristiani hanno sempre fatto ciò che poi Gramsci ha teorizzato: si pensi alla prima diffusione del vangelo o anche, più vicino a noi, a ciò che avvenne nell’Italia postunitaria, mentre vigeva il Non expedit. Constatiamo con piacere che la Chiesa italiana si è messa su questa strada, con la decisione, presa al Convegno di Palermo, di procedere all’elaborazione di un nuovo “progetto culturale”.
In terzo luogo, il momento sociale, che consiste nell’animazione della società civile. Si pensi ai vari campi in cui è solitamente impegnato il volontariato: i giovani, i tossicodipendenti, gli handicappati, gli anziani, i lavoratori, i disoccupati, gli extracomunitari, gli emarginati in genere. Si pensi ancora alla difesa della vita e dell’ambiente. In questo vasto campo il punto di riferimento rimane la dottrina sociale della Chiesa, che durante quest’ultimo secolo ha allargato i suoi orizzonti dalla questione operaia a tutti i problemi della società odierna.
Infine il momento specificamente politico, che consiste nella presenza del cristiano nelle istituzioni (quartiere, comune, provincia, regione, Stato) e che può comportare anche l’assunzione di determinate responsabilità, ma che non può in alcun modo trasformarsi in pura e semplice “occupazione del potere”. L’autenticità di quest’ultimo momento dipende tutta dai momenti precedenti: solo chi è disposto a percorrere le tappe pre-politiche, sarà anche un buon politico cattolico.

Un errore da evitare

Occorre assolutamente evitare l’errore di pensare che l’unico problema sia da che parte stare, se a destra o a sinistra, o se non sia piuttosto necessario ricostituire un “grande centro”, in cui far confluire tutti i cattolici.
Il problema, in realtà, è molto più profondo. Attualmente noi ci troviamo di fronte non solo a una sinistra, ma anche a una destra e, ahimè, anche a un centro completamente secolarizzati. Allora il vero problema è quello di rievangelizzare la politica. Occorre ricominciare da capo, come duemila anni fa: il cristiano, ovunque schierato, è chiamato a “permeare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico”. Su questo piano, sul piano della fede e dei valori morali, tutti i cattolici sono — devono essere — uniti, al di là degli schieramenti. Devono essere non cattolici di destra, di sinistra o di centro, non “cattolici liberali” o “cattolici democratici”, “cattocomunisti” o “clericofascisti”, ma semplicemente cattolici — come ci ricordava giorni fa L’Osservatore romano (15-16 giugno 1998) — “cattolici senza aggettivi”.


A parte alcuni riferimenti datati, mi sembra che tale riflessione conservi la sua attualità. Ecco, rispetto a quanto sosteneva il Card. Newman, in sé giustissimo, mi pare che la Chiesa abbia preso coscienza che forse è opportuna una distinzione di ruoli (clero e laicato) e una distinzione di momenti nell'impegno del cristiano (spirituale, culturale, sociale e politico). Per il resto, pienamente d'accordo.

mercoledì 15 luglio 2009

Che fare? #2

Ho ricevuto da un fedele lettore, avvocato, una cordialissima lettera, che vorrei condividere con tutti voi:

Reverendo Padre,
ho letto con il consueto interesse il suo ultimo post ... Se mi posso permettere, atteso che non siamo in campo teologico, vorrei fare alcune osservazioni.
Vero è che le tradizionali etichette di destra e sinistra sono da lungo tempo superate, specie a livello mondiale e particolarmente se osservate dall'unico punto di vista corretto, che è quello cristiano-cattolico, l'unico in grado di costruire davvero una società più giusta.
Peraltro, pur non essendo un elettore berlusconiano (men che meno, però, comunista o "democratico" o dipietrista: in effetti fatico molto a trovare un posto dove mettere la x), non posso che condividere quanto, con riferimento specifico alla realtà italiana, osservava recentemente Padre Livio in una recente intervista:

Rosy Bindi ha detto: “Non possiamo lasciare che sia Radio Maria a formare la coscienza dei cristiani”.
«I cattolici del Pd ci sentono lontani, ma sui temi etici sono loro a essere lontani dalla Chiesa. Bindi è per i Dico, la Chiesa è contro. Noi siamo per il cattolicesimo integrale, loro per un cristianesimo diluito. Bindi è un politico, a me interessa l'Aldilà».

Chi è più attento ai valori cristiani, destra o sinistra?

«Il centrodestra perché nelle sue file ci sono più cattolici. A sinistra la loro presenza è poco incisiva».

Io, che me lo posso permettere, sarei ancora più drastico nei confronti della sinistra italiana ed occidentale. Essa, travolta irrimediabilmente l'ideologia marxista e persa per strada ogni velleità di aiutare le classi più deboli (perché non è con l'odio di classe che si fa giustizia sociale ma con la carità e l'amore), è tristemente ridotta a un radicale materialismo anticattolico, al pervicace ateismo, all'anticristianesimo militante. Se c'è da votare sull'aborto la sinistra è sempre a favore di esso, se c'è da votare sul divorzio idem, se c'è da votare sull'uso degli embrioni idem, se c'è da votare sulla pillola del giorno dopo idem, se c'è da rendere impossibile la sopravvivenza delle scuole cattoliche la sinistra è in prima fila, se il Papa deve parlare alla Sapienza la sinistra lo costringe a rinunciare.
Stamani l'onorevole (o ex onorevole) Menconi presentava a Rainews 24 (altra roccaforte di sinistra anticattolica) un libro su quelle che sarebbero le "anime" della attuale sinistra: citava fiero il povero Michael Jackson (pace all'anima sua) e la sua collega Ciccone (il cui nome d'arte preferisco non scrivere visto che lo usa con chiaro intento dissacratore). Queste sarebbero le guide etiche e sociali della sinistra? Purtroppo lo sono! E quel che è peggio (forse), alcuni — a dire il vero sempre meno — esponenti di sinistra si definiscono cattolici, così confondendo il già depresso elettorato. Salvo definirsi "adulti" tutte le volte (più o meno sempre) votano leggi che si oppongono sia alla Volontà di Dio che al Magistero del Papa. Benedetto XVI nella monumentale omelia a chiusura dell'Anno Paolino ha già dato meglio di me la corretta definizione del "cattolico adulto".
Per carità, e lo ripeto, nel centro-destra ci sono tutt'altro che santi. Basti pensare ai continui interventi del Presidente Fini, tutti in linea con il rigetto aprioristico di ogni etica tipico della "cultura" di sinistra (non a caso applaudito da tutta l'opposizione).
Pur tuttavia c'è oggettivamente un maggior rispetto della vita (basti pensare ai limiti all'uso delle cellule staminali embrionali, alla maggior attenzione alle politiche di tutela della maternità, al decreto legge sul caso Englaro bocciato dal Presidente della Repubblica — non a caso di sinistra), dell'uomo in quanto tale e della Chiesa.
Anche dal punto di vista sociale, non posso essere d'accordo col simpatico lettore che ritiene la sinistra più vicina ai "servi della gleba". Si vada a vedere come sono i contratti di lavoro nelle cooperative rosse, o nel partito della Rifondazione comunista. Si vada a vedere quante tasse pagano le cooperative e quante ne pagano i lavoratori autonomi (ovviamente in percentuale sui guadagni e sui versamenti di denaro). I contadini "servi della gleba" spesso sono piccoli lavoratori autonomi. Si è mai chiesto, il lettore, come mai l'amministratore delegato di Unicredit si è onorato di avere per primo votato alle primarie del Pd? Si è mai chiesto come mai tutti (o quasi) i poteri forti (banche, assicurazioni, Fiat, cooperative, grandi gruppi editoriali) hanno sostenuto prima Prodi e poi Veltroni? Forse per aiutare i "servi della gleba"? Si è mai chiesto come mai i contadini che producono incassano sullo stesso prodotto meno di un decimo di quello che incassa poi la grande distribuzione (solitamente "rossa")? Si è mai chiesto perché, prima delle pressioni esercitate dell'ultimo governo italiano, nell' Europa si imponevano le dimensioni agli zucchini, se non per favorire le grandi multinazionali a discapito dei contadini e dei piccoli produttori?
Non mi pare che si possa poi assimilare come fa il lettore l'aborto con la insicurezza sul lavoro. Nel primo caso si tratta di un omicidio volontario autorizzato per legge, scientemente e scientificamente voluto. Nel secondo (ammesso che la sinistra abbia mai tutelato la sicurezza, il che non mi risulta) si tratta della scelta di mezzi più o meno appropriati per prevenire rischi che nessuno obbiettivamente spera si trasformino in incidenti. I dirigenti della Thyssen sono sotto processo, chi abortisce lo fa addirittura a spese dello Stato (è tutto gratuito) e quindi anche a spese del lettore. È probabilmente vero che certe multinazionali tentano di diminuire gli oneri di sicurezza e che la sicurezza va invece in ogni modo aumentata, ma l'uccisione scientifica di bambini innocenti (i dati parlano di miliardi di feti) è sicuramente un'altra cosa.
Pienamente d'accordo con Lei, Padre, sul fatto che ormai più che dei singoli governi occorrerebbe parlare dei poteri forti chiamandoli per nome e cognome. Forse anche le Autorità ecclesiastiche, concordo con lei, potrebbero affrontarli con maggiore intransigenza. Ma pensare che questo lo possa fare la sinistra mi pare un colossale errore. Penso che sui poteri forti torneremo altre volte. Per ora l'ho annoiata già abbastanza. Cordiali saluti.
Alberto.

Caro Avvocato, Lei sfonda una porta aperta. Come cittadino (e cittadino cattolico), Le Sue argomentazioni mi trovano pienamente d'accordo. Non ho mai fatto, nel mio blog, simili riflessioni, semplicemente perché non mi sembra mio compito, come sacerdote, intervenire nell'agone politico italiano. Però, anche in quanto cittadino, mi lasci dire: non facciamoci illusioni. Certo, se si deve scegliere fra due mali, si sceglie il male minore (per tutti i motivi che Lei ha esaurientemente elencato), ma ciò non deve esimerci dal guardare in faccia la realtà cosí come essa è. È vero che la sinistra, dopo il crollo dell'ideologia marxista, è ormai ridotta a un partito radicale di massa (a poco a poco si direbbe che stia perdendo anche questa caratteristica "di massa"); ma la destra non mi pare che navighi in acque migliori. Qual è la destra che abbiamo di fronte? Una destra totalmente secolarizzata e secolarizzante. Lei fa riferimento al Presidente della Camera: non so come un uomo del genere possa continuare a definirsi "di destra" (qualcuno ha argutamente notato: finalmente la sinistra ha trovato il suo leader!); se è di destra, non lo è certo in senso tradizionale; si tratta di una nuova destra, una destra "secolarizzata", appunto. Ma questa destra è anche "secolarizzante": certo, non si può ascrivere a Berlusconi il fenomeno della secolarizzazione in Italia; ma non si può neppure dire che, con le sue TV, lo abbia contrastato...

Va riconosciuto obiettivamente che le politiche della destra, almeno nelle intenzioni, sono piú in sintonia con la visione cattolica della realtà. Ma anche in questo caso, vanno fatte almeno due precisazioni. Innanzi tutto, nessuno nella destra si è finora mai sognato, non dico di mettere in discussione, ma perlomeno di rivedere le leggi vigenti in materia di divorzio e aborto. In secondo luogo, non possiamo ridurre la morale cattolica esclusivamente alla difesa della vita nascente (pur essendo questo un punto qualificante oggi per l'impegno politico dei cattolici). Concordo con Lei che non si possono mettere sullo stesso piano l'aborto e gli incidenti sul lavoro. Ma non si può difendere la vita e poi, come sembra stia facendo la Chiesa cattolica americana, ignorare o addirittura sostenere certe politiche criminali delle amministrazioni vecchie e nuove di quel paese. In campo internazionale l'atteggiamento dell'attuale destra italiana (sottolineo "attuale", perché non era cosí in passato) è completamente appiattito sulle posizioni israelo-americane. Perché mai un cattolico — non dico un cattolico di sinistra ma anche un cattolico di destra — dovrebbe farsi sostenitore di certe politiche?

Per questo il mio discorso di ieri non voleva in alcun modo prendere posizione da una parte o dall'altra, a destra o a sinistra; ma voleva andare oltre queste distinzioni, ormai logore, per cercare un terreno comune, dove tutti gli "uomini di buona volontà", reduci della destra e della sinistra, possano ritrovarsi e incominciare a ricostruire la società dalle sue fondamenta. Ho l'impressione che ci siano molti delusi, tanto a destra quanto a sinistra; ieri parlavo di disorientamento: molti non si riconoscono piú in quella che consideravano la loro area di riferimento. È vero che, con la politica, è cambiata anche la società: in parte questi partiti, questi uomini politici, sono il riflesso di una società ormai completamente secolarizzata. Ma è anche vero che c'è in giro tanta sete di giustizia, di rigore, di pulizia. Con queste persone, forse, si potrebbe cominciare l'opera di "ricostruzione", che prima di essere politica, deve essere una ricostruzione culturale e morale. E in tale opera di ricostruzione credo che la Chiesa abbia un enorme contributo da dare.