Padre Augé ha pubblicato l’altro ieri sul suo blog (Liturgia Opus Trinitatis) un sondaggio informale condotto fra i clarettiani latinoamericani partecipanti al capitolo generale della loro Congregazione. Tema del sondaggio: la situazione liturgica in America Latina, ricorso alla forma straordinaria del rito romano, parere su una eventuale “riforma della riforma”. I risultati del sondaggio sono: la riforma liturgica è stata pacificamente accettata; solo gruppi marginali celebrano la Santa Messa usando il messale del 1962; l’eventualità di una “riforma della riforma” viene vista con apprensione.
Capisco pienamente l’intenzione del Padre Augé nel promuovere tale sondaggio: dimostrare che, a differenza di Europa e Nord America (dove ci sono gruppi di una certa consistenza che fanno ricorso all’usus antiquior), in America Latina (dove vive «quasi la metà dei cattolici dell’intero pianeta») questa esigenza non è in alcun modo sentita. Per cui viene spontanea la domanda: è proprio cosí urgente pensare a una “riforma della riforma”, quando la riforma liturgica va bene cosí com’è (semmai «in alcuni ambienti c’è il desiderio di testi piú attuali, piú vicini alla sensibilità della gente; se volete, alcuni vorrebbero una riforma della riforma che vada avanti nella linea di quella posteriore al Vaticano II»)?
Confesso che, fra me e me, avevo fatto anch’io considerazioni analoghe. Non conosco la realtà latinoamericana (solo venticinque anni fa ebbi l’occasione di trascorrere un mese in Brasile e di rendermi conto di quale fosse, allora, la situazione della Chiesa in quel paese). Posso però parlare della mia limitatissima esperienza quinquennale nelle Filippine. Ebbene, da quel che ho sperimentato in questo paese, potrei confermare in pieno i risultati del sondaggio di Padre Augé: la situazione è praticamente la stessa (non per niente, le Filippine sono considerate un pezzo di America Latina finito per sbaglio in Asia...). La riforma liturgica è pacificamente accettata in ogni ambiente; la partecipazione dei fedeli è buona (sia quantitativamente sia qualitativamente); non ci sono grossi abusi (anche se naturalmente si potrebbe fare meglio); non si sente nessun bisogno di “tornare all’antico” (anche perché nessuno sa di che cosa si tratti); il rito tridentino è usato solo da piccoli gruppi marginali; sarebbe difficilmente ipotizzabile una “riforma della riforma”, che annulli i cambiamenti introdotti nella liturgia dopo il Concilio.
Eppure c’è qualcosa che non torna nel sondaggio di Padre Augé. Il suo difetto non è quello di non essere scientifico (se si facesse un sondaggio scientifico, sono sicuro che otterrebbe i medesimi risultati). Il difetto è alla radice, nell’idea che lo ha ispirato, quasi che le riforme, nella Chiesa, si debbano fare in base ai sondaggi. Per carità, non voglio dire che non sia lecito fare i sondaggi, che non si possa sentire il polso della “base”; lo si può fare tranquillamente; ma non dovrebbe essere questo il criterio ultimo di decisione da parte della Chiesa. Certo, nel prendere le sue decisioni, la Chiesa deve anche tener conto di ciò che i fedeli (clero e laici) pensano, ma poi le sue decisioni devono essere ispirate unicamente a ciò che è giusto in sé e a ciò che è, obiettivamente, bene per i fedeli. Sappiamo a che cosa ha portato la politica dell’Auditel: alla TV-spazzatura. Compito dell’autorità, di qualsiasi autorità, non è quello di rincorrere il consenso e assecondare a tutti i costi i gusti della gente, ma quello di perseguire il bene comune.
Giustamente qualche lettore ha ricordato a Padre Augé che la stessa riforma liturgica non è nata come risposta a un’esigenza dei fedeli, ma è stata in qualche modo “imposta” dall’alto. Qualcun altro ha replicato che essa è il frutto del movimento liturgico, esistente da decenni prima del Concilio. È vero, ma spesso si dimentica che tali movimenti sono generalmente movimenti di élite, che non coinvolgono in alcun modo le masse. Io ero bambino, quando è stata fatta la riforma liturgica, ma ricordo molto bene le reazioni dei fedeli: se le persone semplici (come la mia povera mamma) l’accolsero con favore («Almeno adesso capiamo qualcosa!»), le persone di una certa cultura fecero molta fatica ad accettarla. In ogni caso, la Chiesa ritenne giusto procedere a tale riforma; e io penso che fece bene. A parte tutte le altre considerazioni che si potrebbero fare, la Chiesa forse prevedeva che il suo volto stava cambiando; forse percepiva che il suo futuro non sarebbe piú stato in Europa, ma in altre parti del mondo, e si rendeva conto che doveva adattarsi a questa nuova prospettiva. La storia le ha dato ragione: ormai la maggior parte dei cattolici vive fuori d’Europa. Forse, anche la riforma liturgica ha contribuito a farli sentire protagonisti nella Chiesa.
Ciò non significa, però, che tutto vada bene, e che si possa riposare sugli allori, respingendo chiunque venga a disturbare la pax liturgica esistente con l’ipotesi di una inutile “riforma della riforma”. Come la Chiesa è stata lungimirante cinquant’anni fa (quando tutto sembrava andare bene), cosí deve continuare a esserlo oggi. Non mancano i segni di una crisi strisciante, non solo in Europa (dove ormai siamo allo stadio terminale), ma anche in America Latina (io avevo percepito le avvisaglie di tale crisi già venticinque anni fa). Proprio mentre Padre Augé scriveva il suo post, il Papa riceveva un gruppo di Vescovi brasiliani, ai quali ricordava la secolarizzazione del loro paese e l’«autosecolarizzazione» della loro Chiesa... Io potrei dire la stessa cosa delle Filippine: per il momento la situazione è tranquilla, ma da un momento all’altro potrebbe cambiare tutto. Non sarebbe la prima volta che un paese profondamente cattolico, da un giorno all’altro, si ritrovi completamente secolarizzato: si pensi alla Polonia o all’Irlanda. La Chiesa deve prevedere e, per quanto possibile, prevenire certi fenomeni. Anche la liturgia svolge un ruolo importante in tale opera di prevenzione. Per cui non escluderei a priori la possibilità di una “riforma della riforma”.
Convengo che si tratta di una impresa delicatissima e riconosco che abbiamo tutti, ancora, le idee abbastanza confuse. Di che cosa dovrebbe trattarsi? Nessuno lo sa; forse, neppure Papa Ratzinger che ha lanciato l’idea. Non mi sembra un caso che, dopo quattro anni di pontificato, gli unici interventi in materia liturgica sono stati l’inserimento, nel messale latino, di alcune formule di dimissione dell’assemblea alternative all’Ite, missa est, e un nuovo stile, per altro non molto imitato altrove, delle celebrazioni pontificie. Non è un caso neppure che la notizia, data da Andrea Tornielli, di alcune ipotesi di “riforma della riforma”, che sarebbero all’esame della Congregazione del Culto divino, sia stata immediatamente smentita. Il motivo non credo sia, come sostengono alcuni, solo quello di voler coinvolgere l’episcopato, ma sia soprattutto quello che non si sa ancora bene che cosa fare e ci si rende conto che è incombente il pericolo dell’ibridismo (da cui non mi sembra del tutto esente lo stesso nuovo stile delle celebrazioni pontificie).
Io stesso non ho affatto le idee chiare in materia. Però penso che qualche punto si potrebbe cominciare a fissarlo, perché altrimenti non si comincia mai. Provo a buttar giú qualche appunto.
1. “Riforma della riforma” non significa rinnegamento della riforma liturgica, che, nell’insieme, può essere giudicata positivamente.
2. “Riforma della riforma” non significa, di per sé, ritorno al passato: certamente non significa un ritorno alla liturgia preconciliare (ciò non esclude che chi lo voglia possa celebrare secondo la forma straordinaria, a norma del motu proprio Summorum Pontificum; qui si sta parlando della forma ordinaria); semmai, se proprio ci deve essere un ritorno al passato, questo dovrebbe essere un “ritorno al Concilio”, vale a dire una piú attenta applicazione di quanto il Vaticano II aveva previsto.
3. “Riforma della riforma” va intesa, innanzi tutto, come completamento della riforma liturgica iniziata. Questa infatti non è stata ancora del tutto attuata. Un esempio: la riforma della liturgia delle ore prevedeva la pubblicazione di un “Lezionario facoltativo” (Principi e norme della liturgia delle ore, n. 161), che non è stato ancora pubblicato. En passant, un affezionato lettore recentemente mi segnalava il sito Schola Saint Maur, dove si riconosce la necessità di un grande lavoro ancora da fare in campo musicale (per un auspicabile “re-incantamento” della liturgia).
4. “Riforma della riforma” va intesa, in secondo luogo, come continuazione della riforma liturgica, che preveda la correzione di eventuali errori commessi (non bisogna avere paura di riconoscere onestamente gli sbagli, se ci sono stati), il recupero di elementi frettolosamente abbandonati dell’antica liturgia e l’introduzione di ulteriori adattamenti che dovessero rendersi necessari. Non si tratta perciò di sconfessare il cammino finora percorso, ma di proseguire sulla stessa linea. Del resto, in questi anni si sono già avuti non pochi adattamenti: se si confronta la terza edizione del messale latino con la prima si scopriranno numerose differenze.
5. Capisco che un conto è parlare in astratto e un conto è poi decidere quali concrete modifiche apportare; ma non è che dobbiamo fare noi, qui e ora, la “riforma della riforma”; ci stiamo solo chiarendo le idee. In ogni caso, onde evitare ibridismi, bisognerà tenere presente un altro principio generale: ogni modifica dovrà essere coerente con l’insieme del rito e non dovrà rompere l’equilibrio e l’armonia della celebrazione.
Personalmente ritengo che tali punti si potrebbero fissare in maniera definitiva, ma non escludo che essi possano essere corretti e che se ne possano aggiungere altri. Una volta chiariti i principi, si potrà iniziare a considerare le singole proposte di riforma. Senza paura di quel che dirà la gente: l’esperienza mi insegna che i fedeli sono pronti ad accogliere qualsiasi novità, purché si tratti di cose serie, e non solo di trovate estemporanee, dettate dall’ultima moda o dalla fantasia e dai gusti personali di questo o quel sacerdote.
Capisco pienamente l’intenzione del Padre Augé nel promuovere tale sondaggio: dimostrare che, a differenza di Europa e Nord America (dove ci sono gruppi di una certa consistenza che fanno ricorso all’usus antiquior), in America Latina (dove vive «quasi la metà dei cattolici dell’intero pianeta») questa esigenza non è in alcun modo sentita. Per cui viene spontanea la domanda: è proprio cosí urgente pensare a una “riforma della riforma”, quando la riforma liturgica va bene cosí com’è (semmai «in alcuni ambienti c’è il desiderio di testi piú attuali, piú vicini alla sensibilità della gente; se volete, alcuni vorrebbero una riforma della riforma che vada avanti nella linea di quella posteriore al Vaticano II»)?
Confesso che, fra me e me, avevo fatto anch’io considerazioni analoghe. Non conosco la realtà latinoamericana (solo venticinque anni fa ebbi l’occasione di trascorrere un mese in Brasile e di rendermi conto di quale fosse, allora, la situazione della Chiesa in quel paese). Posso però parlare della mia limitatissima esperienza quinquennale nelle Filippine. Ebbene, da quel che ho sperimentato in questo paese, potrei confermare in pieno i risultati del sondaggio di Padre Augé: la situazione è praticamente la stessa (non per niente, le Filippine sono considerate un pezzo di America Latina finito per sbaglio in Asia...). La riforma liturgica è pacificamente accettata in ogni ambiente; la partecipazione dei fedeli è buona (sia quantitativamente sia qualitativamente); non ci sono grossi abusi (anche se naturalmente si potrebbe fare meglio); non si sente nessun bisogno di “tornare all’antico” (anche perché nessuno sa di che cosa si tratti); il rito tridentino è usato solo da piccoli gruppi marginali; sarebbe difficilmente ipotizzabile una “riforma della riforma”, che annulli i cambiamenti introdotti nella liturgia dopo il Concilio.
Eppure c’è qualcosa che non torna nel sondaggio di Padre Augé. Il suo difetto non è quello di non essere scientifico (se si facesse un sondaggio scientifico, sono sicuro che otterrebbe i medesimi risultati). Il difetto è alla radice, nell’idea che lo ha ispirato, quasi che le riforme, nella Chiesa, si debbano fare in base ai sondaggi. Per carità, non voglio dire che non sia lecito fare i sondaggi, che non si possa sentire il polso della “base”; lo si può fare tranquillamente; ma non dovrebbe essere questo il criterio ultimo di decisione da parte della Chiesa. Certo, nel prendere le sue decisioni, la Chiesa deve anche tener conto di ciò che i fedeli (clero e laici) pensano, ma poi le sue decisioni devono essere ispirate unicamente a ciò che è giusto in sé e a ciò che è, obiettivamente, bene per i fedeli. Sappiamo a che cosa ha portato la politica dell’Auditel: alla TV-spazzatura. Compito dell’autorità, di qualsiasi autorità, non è quello di rincorrere il consenso e assecondare a tutti i costi i gusti della gente, ma quello di perseguire il bene comune.
Giustamente qualche lettore ha ricordato a Padre Augé che la stessa riforma liturgica non è nata come risposta a un’esigenza dei fedeli, ma è stata in qualche modo “imposta” dall’alto. Qualcun altro ha replicato che essa è il frutto del movimento liturgico, esistente da decenni prima del Concilio. È vero, ma spesso si dimentica che tali movimenti sono generalmente movimenti di élite, che non coinvolgono in alcun modo le masse. Io ero bambino, quando è stata fatta la riforma liturgica, ma ricordo molto bene le reazioni dei fedeli: se le persone semplici (come la mia povera mamma) l’accolsero con favore («Almeno adesso capiamo qualcosa!»), le persone di una certa cultura fecero molta fatica ad accettarla. In ogni caso, la Chiesa ritenne giusto procedere a tale riforma; e io penso che fece bene. A parte tutte le altre considerazioni che si potrebbero fare, la Chiesa forse prevedeva che il suo volto stava cambiando; forse percepiva che il suo futuro non sarebbe piú stato in Europa, ma in altre parti del mondo, e si rendeva conto che doveva adattarsi a questa nuova prospettiva. La storia le ha dato ragione: ormai la maggior parte dei cattolici vive fuori d’Europa. Forse, anche la riforma liturgica ha contribuito a farli sentire protagonisti nella Chiesa.
Ciò non significa, però, che tutto vada bene, e che si possa riposare sugli allori, respingendo chiunque venga a disturbare la pax liturgica esistente con l’ipotesi di una inutile “riforma della riforma”. Come la Chiesa è stata lungimirante cinquant’anni fa (quando tutto sembrava andare bene), cosí deve continuare a esserlo oggi. Non mancano i segni di una crisi strisciante, non solo in Europa (dove ormai siamo allo stadio terminale), ma anche in America Latina (io avevo percepito le avvisaglie di tale crisi già venticinque anni fa). Proprio mentre Padre Augé scriveva il suo post, il Papa riceveva un gruppo di Vescovi brasiliani, ai quali ricordava la secolarizzazione del loro paese e l’«autosecolarizzazione» della loro Chiesa... Io potrei dire la stessa cosa delle Filippine: per il momento la situazione è tranquilla, ma da un momento all’altro potrebbe cambiare tutto. Non sarebbe la prima volta che un paese profondamente cattolico, da un giorno all’altro, si ritrovi completamente secolarizzato: si pensi alla Polonia o all’Irlanda. La Chiesa deve prevedere e, per quanto possibile, prevenire certi fenomeni. Anche la liturgia svolge un ruolo importante in tale opera di prevenzione. Per cui non escluderei a priori la possibilità di una “riforma della riforma”.
Convengo che si tratta di una impresa delicatissima e riconosco che abbiamo tutti, ancora, le idee abbastanza confuse. Di che cosa dovrebbe trattarsi? Nessuno lo sa; forse, neppure Papa Ratzinger che ha lanciato l’idea. Non mi sembra un caso che, dopo quattro anni di pontificato, gli unici interventi in materia liturgica sono stati l’inserimento, nel messale latino, di alcune formule di dimissione dell’assemblea alternative all’Ite, missa est, e un nuovo stile, per altro non molto imitato altrove, delle celebrazioni pontificie. Non è un caso neppure che la notizia, data da Andrea Tornielli, di alcune ipotesi di “riforma della riforma”, che sarebbero all’esame della Congregazione del Culto divino, sia stata immediatamente smentita. Il motivo non credo sia, come sostengono alcuni, solo quello di voler coinvolgere l’episcopato, ma sia soprattutto quello che non si sa ancora bene che cosa fare e ci si rende conto che è incombente il pericolo dell’ibridismo (da cui non mi sembra del tutto esente lo stesso nuovo stile delle celebrazioni pontificie).
Io stesso non ho affatto le idee chiare in materia. Però penso che qualche punto si potrebbe cominciare a fissarlo, perché altrimenti non si comincia mai. Provo a buttar giú qualche appunto.
1. “Riforma della riforma” non significa rinnegamento della riforma liturgica, che, nell’insieme, può essere giudicata positivamente.
2. “Riforma della riforma” non significa, di per sé, ritorno al passato: certamente non significa un ritorno alla liturgia preconciliare (ciò non esclude che chi lo voglia possa celebrare secondo la forma straordinaria, a norma del motu proprio Summorum Pontificum; qui si sta parlando della forma ordinaria); semmai, se proprio ci deve essere un ritorno al passato, questo dovrebbe essere un “ritorno al Concilio”, vale a dire una piú attenta applicazione di quanto il Vaticano II aveva previsto.
3. “Riforma della riforma” va intesa, innanzi tutto, come completamento della riforma liturgica iniziata. Questa infatti non è stata ancora del tutto attuata. Un esempio: la riforma della liturgia delle ore prevedeva la pubblicazione di un “Lezionario facoltativo” (Principi e norme della liturgia delle ore, n. 161), che non è stato ancora pubblicato. En passant, un affezionato lettore recentemente mi segnalava il sito Schola Saint Maur, dove si riconosce la necessità di un grande lavoro ancora da fare in campo musicale (per un auspicabile “re-incantamento” della liturgia).
4. “Riforma della riforma” va intesa, in secondo luogo, come continuazione della riforma liturgica, che preveda la correzione di eventuali errori commessi (non bisogna avere paura di riconoscere onestamente gli sbagli, se ci sono stati), il recupero di elementi frettolosamente abbandonati dell’antica liturgia e l’introduzione di ulteriori adattamenti che dovessero rendersi necessari. Non si tratta perciò di sconfessare il cammino finora percorso, ma di proseguire sulla stessa linea. Del resto, in questi anni si sono già avuti non pochi adattamenti: se si confronta la terza edizione del messale latino con la prima si scopriranno numerose differenze.
5. Capisco che un conto è parlare in astratto e un conto è poi decidere quali concrete modifiche apportare; ma non è che dobbiamo fare noi, qui e ora, la “riforma della riforma”; ci stiamo solo chiarendo le idee. In ogni caso, onde evitare ibridismi, bisognerà tenere presente un altro principio generale: ogni modifica dovrà essere coerente con l’insieme del rito e non dovrà rompere l’equilibrio e l’armonia della celebrazione.
Personalmente ritengo che tali punti si potrebbero fissare in maniera definitiva, ma non escludo che essi possano essere corretti e che se ne possano aggiungere altri. Una volta chiariti i principi, si potrà iniziare a considerare le singole proposte di riforma. Senza paura di quel che dirà la gente: l’esperienza mi insegna che i fedeli sono pronti ad accogliere qualsiasi novità, purché si tratti di cose serie, e non solo di trovate estemporanee, dettate dall’ultima moda o dalla fantasia e dai gusti personali di questo o quel sacerdote.