Ieri il quotidiano Italia Oggi ha pubblicato un articolo di Marco Bertoncini, dal titolo “Latino derelitto in Vaticano”. Prendendo spunto dalla recente pubblicazione dell’edizione latina dell’ultima enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate (che porta la data del 29 giugno 2oo9), l’articolista rileva come il latino sia ormai diventato una specie di cenerentola, oltre che nella Chiesa in genere, anche all’interno delle mura leonine.
Che i preti non conoscessero piú il latino, lo si sapeva da tempo; ma, se devo essere sincero, è da non minor tempo che mi ero reso conto della scarsa padronanza della lingua di Cicerone da parte delle nuove leve nei dicasteri della Curia Romana. Qualche anno fa, quando ero a Roma, nella nostra Curia generalizia, da una delle Congregazioni ci arrivò un decreto di nomina con uno stupefacente “Alexandrius” (che, secondo lo sprovveduto estensore, sarebbe dovuto essere il corrispettivo latino dell’italiano “Alessandro”). E quando fu dichiarata l’eroicità delle virtú di uno dei nostri Servi di Dio, dovemmo apportare non pochi ritocchi al relativo decreto prima della pubblicazione.
A dire il vero, all’uscita dell’enciclica, lo scorso luglio, non mi ero reso conto che il testo ufficiale latino non era stato pubblicato. È però risaputo che qualcosa di simile successe con il Catechismo della Chiesa Cattolica: 1ª edizione, nelle diverse lingue moderne, 1992; edizione latina, “approvata e promulgata” con una specifica lettera apostolica, 1997. In tal caso, forse, la dilazione può essere stata anche provvidenziale, dal momento che permise di “ripensare” il testo e apportarvi alcune modifiche.
C’è da meravigliarsi della presente situazione? Non piú di tanto: la Chiesa non vive fuori dal mondo; non tutto dipende sempre e solo dalle sue decisioni; spesso essa subisce le conseguenze di scelte fatte altrove o, piú in generale, di fenomeni che sfuggono al suo controllo. Personalmente ritengo che l’ignoranza del latino nella Chiesa è il risultato di diversi fattori.
Innanzi tutto, è il risultato della disistima, in Occidente, per la cultura classica. In Italia, ancora ancora, non possiamo lamentarci. In fondo, esiste ancora il liceo classico (dopo aver girato un po’ il mondo, mi sono convinto che si tratta del miglior tipo di scuola in assoluto); ma altrove, dove si studiano ancora le lingue classiche?
C’è poi da considerare le diverse modalità di reclutamento del clero. Fino a cinquant’anni fa, si entrava in seminario da bambini, e tutti seguivano in esso gli studi classici. Oggi si arriva in seminario avanti negli anni, dopo aver compiuto studi di vario genere (spesso anche tecnico-professionale); per quanto in seminario si cerchi di recuperare, mancando le basi, è come costruire sulla sabbia.
C’è infine da ricordare il fenomeno della internazionalizzazione della Chiesa. Oggi, la maggior parte delle vocazioni vengono dal terzo mondo, dove il massimo che si può desiderare è la conoscenza di una lingua europea (inglese o francese). Il latino? Semplicemente, non esiste.
Si dirà: a prescindere dal contesto in cui si vive, la Chiesa dovrebbe organizzarsi per conto proprio al suo interno; nei seminari lo studio del latino dovrebbe essere obbligatorio. Sí, certo. Il problema è che le leggi in tal senso già ci sono; ma rimangono lettera morta, come le gride di manzoniana memoria, appunto perché il contesto in cui si vive, non permette di metterle in pratica.
Scusatemi se faccio riferimento, ancora una volta, alla mia personale esperienza; è solo per farvi capire. Ho vissuto per cinque anni nelle Filippine. I nostri studenti teologi frequentavano (e tuttora frequentano) il Divine Word Seminary dei Verbiti a Tagaytay, dove, come in tutte le altre scuole di teologia, è richiesta, per l’ammissione, la conoscenza del latino, che può essere certificata con una dichiarazione. Siccome io mi rendevo conto che i miei studenti non conoscevano affatto il latino (nonostante dichiarassero di averlo studiato durante il noviziato), proposi ai responsabili del Seminario l’istituzione di una Scuola di lingue classiche e moderne, interna al Seminari stesso, che permettesse uno studio serio delle diverse lingue; per il latino e l’italiano diedi anche la mia disponibilità. Non se ne fece nulla. A quel punto incominciai, per mio conto, a insegnare in casa ai miei studenti latino e italiano (che per il nostro Ordine è un po’ una sorta di lingua franca). All’inizio, potete immaginare le battaglie; ma a poco a poco incominciarono ad apprezzare queste lingue. Anzi, se devo essere sincero, riuscivano meglio in latino (naturalmente, un latino ecclesiastico) che in italiano. Ora ho lasciato le Filippine: pensate che qualcuno continuerà ha insegnare loro il latino? Per l’italiano non ci sono problemi, dal momento che i nuovi responsabili, filippini, hanno tutti studiato in Italia; ma il latino, nessuno lo sa. Un giorno mi divertii a fare una ricerca su internet, per cercare una (dicasi: “una”) facoltà di lingue classiche nelle università filippine, civili o ecclesiastiche. Ebbene, non l’ho trovata: se un filippino volesse studiare il latino o il greco, non troverà in patria nessuna scuola dove farlo (e pensare che il loro eroe nazionale, José Rizal, aveva voti eccellenti in latino e greco!).
Il problema è questo. Facile dire: bisogna che i candidati al sacerdozio studino il latino. Sí, ma chi glielo insegna? Sono d’accordo che non ci si può rassegnare. Bisogna fare qualcosa, ma nella consapevolezza che, se si vuole essere efficaci, lo sforzo sarà notevole e i tempi necessariamente lunghi. L’esperienza raccolta in questi anni mi ha insegnato che non c’è bisogno di ingrullire per cinque anni su Cicerone o sul De bello Gallico per comprendere il latino liturgico o canonico. Esistono delle eccellenti grammatiche che permettono in tempi ragionevoli di orientarsi nei meandri del latino ecclesiastico.
Anche perché non è necessario partire dal piú difficile per arrivare al piú facile; semmai, è vero il contrario. Io ho frequentato il classico, che certamente mi ha dato delle buone basi grammaticali; però, se devo essere sincero, quando ho terminato il liceo, non posso dire che conoscessi il latino. Ho cominciato ad apprezzare quella lingua e a capirci qualcosa, quando sono arrivato all’Angelicum e ho iniziato a leggere San Tommaso nel testo originale. Quel latino medievale facile facile mi ha permesso di prendere dimestichezza con una lingua che, fino ad allora, mi era apparsa decisamente ostica. Poi ho continuato a tenermi in esercizio con la recita dell’Ufficio divino in latino (dove però ancora incontro difficoltà, specialmente in certe traduzioni umanistiche dei padri greci), e sono arrivato al punto di dilettarmi, di tanto in tanto, anche in qualche semplice composizione.
A Roma esistono istituzioni che permettono di uscire dall’impasse: all’Università Salesiana c’è la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche (l’ex Institutum Altioris Latinitatis); alla Gregoriana un tempo c’era la Scuola Superiore di Lettere Latine (non so se esista ancora). Bisognerebbe fare un piano, in modo che tutte le diocesi del mondo, come mandano qualche studente a studiare Sacra Scrittura, teologia o diritto canonico, cosí mandino pure qualcuno a studiare latino, in modo che possa diventare insegnante nei locali seminari. So che non è facile, ma neppure impossibile. È tutta una questione di volontà politica. Certamente non è sufficiente contare, in questo caso, sulla Fondazione Latinitas, che non è competente in materia. Bisognerebbe che la Congregazione per l’Educazione cattolica prendesse in mano la situazione. Volere è potere. Ops! Velle est posse.
Che i preti non conoscessero piú il latino, lo si sapeva da tempo; ma, se devo essere sincero, è da non minor tempo che mi ero reso conto della scarsa padronanza della lingua di Cicerone da parte delle nuove leve nei dicasteri della Curia Romana. Qualche anno fa, quando ero a Roma, nella nostra Curia generalizia, da una delle Congregazioni ci arrivò un decreto di nomina con uno stupefacente “Alexandrius” (che, secondo lo sprovveduto estensore, sarebbe dovuto essere il corrispettivo latino dell’italiano “Alessandro”). E quando fu dichiarata l’eroicità delle virtú di uno dei nostri Servi di Dio, dovemmo apportare non pochi ritocchi al relativo decreto prima della pubblicazione.
A dire il vero, all’uscita dell’enciclica, lo scorso luglio, non mi ero reso conto che il testo ufficiale latino non era stato pubblicato. È però risaputo che qualcosa di simile successe con il Catechismo della Chiesa Cattolica: 1ª edizione, nelle diverse lingue moderne, 1992; edizione latina, “approvata e promulgata” con una specifica lettera apostolica, 1997. In tal caso, forse, la dilazione può essere stata anche provvidenziale, dal momento che permise di “ripensare” il testo e apportarvi alcune modifiche.
C’è da meravigliarsi della presente situazione? Non piú di tanto: la Chiesa non vive fuori dal mondo; non tutto dipende sempre e solo dalle sue decisioni; spesso essa subisce le conseguenze di scelte fatte altrove o, piú in generale, di fenomeni che sfuggono al suo controllo. Personalmente ritengo che l’ignoranza del latino nella Chiesa è il risultato di diversi fattori.
Innanzi tutto, è il risultato della disistima, in Occidente, per la cultura classica. In Italia, ancora ancora, non possiamo lamentarci. In fondo, esiste ancora il liceo classico (dopo aver girato un po’ il mondo, mi sono convinto che si tratta del miglior tipo di scuola in assoluto); ma altrove, dove si studiano ancora le lingue classiche?
C’è poi da considerare le diverse modalità di reclutamento del clero. Fino a cinquant’anni fa, si entrava in seminario da bambini, e tutti seguivano in esso gli studi classici. Oggi si arriva in seminario avanti negli anni, dopo aver compiuto studi di vario genere (spesso anche tecnico-professionale); per quanto in seminario si cerchi di recuperare, mancando le basi, è come costruire sulla sabbia.
C’è infine da ricordare il fenomeno della internazionalizzazione della Chiesa. Oggi, la maggior parte delle vocazioni vengono dal terzo mondo, dove il massimo che si può desiderare è la conoscenza di una lingua europea (inglese o francese). Il latino? Semplicemente, non esiste.
Si dirà: a prescindere dal contesto in cui si vive, la Chiesa dovrebbe organizzarsi per conto proprio al suo interno; nei seminari lo studio del latino dovrebbe essere obbligatorio. Sí, certo. Il problema è che le leggi in tal senso già ci sono; ma rimangono lettera morta, come le gride di manzoniana memoria, appunto perché il contesto in cui si vive, non permette di metterle in pratica.
Scusatemi se faccio riferimento, ancora una volta, alla mia personale esperienza; è solo per farvi capire. Ho vissuto per cinque anni nelle Filippine. I nostri studenti teologi frequentavano (e tuttora frequentano) il Divine Word Seminary dei Verbiti a Tagaytay, dove, come in tutte le altre scuole di teologia, è richiesta, per l’ammissione, la conoscenza del latino, che può essere certificata con una dichiarazione. Siccome io mi rendevo conto che i miei studenti non conoscevano affatto il latino (nonostante dichiarassero di averlo studiato durante il noviziato), proposi ai responsabili del Seminario l’istituzione di una Scuola di lingue classiche e moderne, interna al Seminari stesso, che permettesse uno studio serio delle diverse lingue; per il latino e l’italiano diedi anche la mia disponibilità. Non se ne fece nulla. A quel punto incominciai, per mio conto, a insegnare in casa ai miei studenti latino e italiano (che per il nostro Ordine è un po’ una sorta di lingua franca). All’inizio, potete immaginare le battaglie; ma a poco a poco incominciarono ad apprezzare queste lingue. Anzi, se devo essere sincero, riuscivano meglio in latino (naturalmente, un latino ecclesiastico) che in italiano. Ora ho lasciato le Filippine: pensate che qualcuno continuerà ha insegnare loro il latino? Per l’italiano non ci sono problemi, dal momento che i nuovi responsabili, filippini, hanno tutti studiato in Italia; ma il latino, nessuno lo sa. Un giorno mi divertii a fare una ricerca su internet, per cercare una (dicasi: “una”) facoltà di lingue classiche nelle università filippine, civili o ecclesiastiche. Ebbene, non l’ho trovata: se un filippino volesse studiare il latino o il greco, non troverà in patria nessuna scuola dove farlo (e pensare che il loro eroe nazionale, José Rizal, aveva voti eccellenti in latino e greco!).
Il problema è questo. Facile dire: bisogna che i candidati al sacerdozio studino il latino. Sí, ma chi glielo insegna? Sono d’accordo che non ci si può rassegnare. Bisogna fare qualcosa, ma nella consapevolezza che, se si vuole essere efficaci, lo sforzo sarà notevole e i tempi necessariamente lunghi. L’esperienza raccolta in questi anni mi ha insegnato che non c’è bisogno di ingrullire per cinque anni su Cicerone o sul De bello Gallico per comprendere il latino liturgico o canonico. Esistono delle eccellenti grammatiche che permettono in tempi ragionevoli di orientarsi nei meandri del latino ecclesiastico.
Anche perché non è necessario partire dal piú difficile per arrivare al piú facile; semmai, è vero il contrario. Io ho frequentato il classico, che certamente mi ha dato delle buone basi grammaticali; però, se devo essere sincero, quando ho terminato il liceo, non posso dire che conoscessi il latino. Ho cominciato ad apprezzare quella lingua e a capirci qualcosa, quando sono arrivato all’Angelicum e ho iniziato a leggere San Tommaso nel testo originale. Quel latino medievale facile facile mi ha permesso di prendere dimestichezza con una lingua che, fino ad allora, mi era apparsa decisamente ostica. Poi ho continuato a tenermi in esercizio con la recita dell’Ufficio divino in latino (dove però ancora incontro difficoltà, specialmente in certe traduzioni umanistiche dei padri greci), e sono arrivato al punto di dilettarmi, di tanto in tanto, anche in qualche semplice composizione.
A Roma esistono istituzioni che permettono di uscire dall’impasse: all’Università Salesiana c’è la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche (l’ex Institutum Altioris Latinitatis); alla Gregoriana un tempo c’era la Scuola Superiore di Lettere Latine (non so se esista ancora). Bisognerebbe fare un piano, in modo che tutte le diocesi del mondo, come mandano qualche studente a studiare Sacra Scrittura, teologia o diritto canonico, cosí mandino pure qualcuno a studiare latino, in modo che possa diventare insegnante nei locali seminari. So che non è facile, ma neppure impossibile. È tutta una questione di volontà politica. Certamente non è sufficiente contare, in questo caso, sulla Fondazione Latinitas, che non è competente in materia. Bisognerebbe che la Congregazione per l’Educazione cattolica prendesse in mano la situazione. Volere è potere. Ops! Velle est posse.