David mi ha inviato un messaggio, come al solito ricco di spunti di riflessione:
«Torno sul caso della Chiesa, oggi restia a ragionare in termini di impresa. Premetto che non sono un fanatico del “libero mercato”: Lehman Brothers non mi è crollata sulla zucca...
La storia della Chiesa per molti secoli è stata piena di religiosi, sacerdoti e laici che si sono “sporcati le mani” in economia. Ti ricordo i monaci benedettini e cistercensi che hanno rivoluzionato attorno all’anno Mille le tecniche agricole e che fino a Napoleone hanno saputo gestire enormi proprietà tenendo insieme innovazione, rispetto della persona e del territorio e sviluppo economico: non c’è quasi vino, formaggio o salume in Italia che non sia “figlio” loro! Credo che pesino qualcosa come il 10% del PIL italiano e forse il doppio nell’export. Ti ricordo anche — come esempi — Sant’Omobono, Marco Polo e Francesco Datini, che seppero fondare imperi commerciali e considerarono Messer Domineddio come il loro miglior investimento: aiuto ai poveri, apostolato, formazione, arte sacra, sostentamento del clero, missione... Quante cose un imprenditore poteva fare per non perdere la sua anima, mentre guadagnava il mondo intero! Viene in mente Ignazio di Loyola che, tenendo i conti dell’azienda agricola di famiglia, fu ispirato a discernere il bene dal male cosí come si distingue il vino buono dal vino da aceto... Che dire poi dei figli di Sant’Ignazio, che si attirarono l’ira dei nobili sfaccendati europei perché con gli indios seppero fare meraviglie, anche in termini di produzione, di organizzazione del lavoro ecc.? Per non parlare poi dei santi che hanno chiesto al Padrone della Messe di diventare soci nell’Impresa piú grande e innovativa del mondo: la Redenzione degli uomini, mettendo al servizio le loro imprese, le terre, l’ingegno... Pensiamo a Giulia Colbert, a Francesco Faà di Bruno...
Ti voglio far notare come il Maestro Divino non chieda ai ricchi (ma gli imprenditori sono tutti ricchi? tutti i ricchi sono imprenditori?) di abbandonare la loro ricchezza: lo chiede agli ingordi, a quanti ragionano secondo il mondo. Questi sono i ricchi. Un Leonardo Mondadori, convertito prima della morte, pur pieno di denari, avrebbe potuto essere povero e umile nel cuore, ti pare?
Rileggiamo insieme la parabola del Buon Samaritano, l’imprenditore come piace al Signore:
Costui “era in viaggio” dalle parti di Gerusalemme, quindi per motivi di commercio, non essendo quella la città santa per lui. Passando accanto al suo prossimo “n’ebbe compassione”. Il Signore aggiunge: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Ha un cavallo e ricche provviste, probabilmente è vestito bene e ha pure fretta (Gerusalemme non doveva essere sicura per lui, eretico), ma ha compassione del prossimo, fa sue cioè le sofferenze di uno sfortunato. A questo punto, capisce che è arrivato il momento di fare un investimento importante: “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in piú, te lo rifonderò al mio ritorno”. E cosí accumula tesori in Cielo. Il Signore non lo ripagherà il sabato, ma al tempo opportuno...
C’è da chiedersi perché la Chiesa non invogli i suoi figli a fare questo... Ha forse paura di essere tacciata di paternalismo dai miseri — e fallimentari — eredi del socialismo?
Vedi, lo scandalo non sono i sacerdoti o i cattolici che maneggiano denari, ma i cattivi sacerdoti e laici cattolici che lo fanno: la differenza fra Giuda, “che teneva la borsa” ed “era ladro”, e Simon Pietro, che estrae la moneta dalla bocca del pesce per pagare le tasse, non sta nei denari maneggiati, ma in chi li maneggia. Fra un sacerdote “malandrino” e Don Bosco (o Padre Pio), che fa il fund raiser, la differenza la fa la stoffa dell’uomo, non le monete che tintinnano in tasca. E lo sai bene che “un albero buono darà frutti buoni”. Vogliamo ascoltarLo, una buona volta?»
Come al solito interessante la ricostruzione storica, che indirettamente ci invita a sbarazzarci una volta per tutte dei pregiudizi verso il passato, che ci sono stati istillati dalla cultura illuministica, e a “riappropriarci” della nostra storia, di cui non abbiamo proprio da vergognarci, ma semmai andar fieri. Sono stati commessi degli errori, certo (ma non continuiamo a commetterli anche oggi? e non li hanno commessi e commettono anche quelli che cristiani non sono?); ma quante realizzazioni è stata capace la Chiesa di produrre nel corso dei secoli?
Molto interessante anche la rilettura della parabola del buon Samaritano: sinceramente, non ci avevo mai pensato. Penso che quanto affermato da David, da un punto di vista etico, sia corretto: il denaro, in sé stesso, non ha alcuna valenza morale; non è lo “sterco del diavolo”, come una certa mentalità manichea vorrebbe farci credere. Tutto sta a come lo si usa. Il problema non è il denaro, ma il cuore di chi lo maneggia. Dalle mani di una persona distaccata possono passare fiumi di denaro, utilizzati per la gloria di Dio e il benessere dei fratelli. Un cuore attaccato al denaro può peccare anche con pochi spiccioli. Gli esempi di santi portati da David mi sembrano piú che sufficienti.
Ciò non significa che non ci siano pericoli. È dell’altro giorno la notizia dell’ennesima ristrutturazione dello IOR (speriamo che questa sia la volta buona!): segno, questo, che, quando si maneggia il denaro, anche con le migliori intenzioni, si rischia di “sporcarsi le mani”. Che fare allora: stare alla larga da mammona? Ma in tal modo si rischierebbe di cadere in un pericolo ben maggiore: per non sporcarsi le mani, si rischia di non aiutare piú i bisognosi. L’Angelica Paola Antonia Negri (di cui ci siamo già occupati su questo blog), in una lettera scritta a suo nome da Sant’Antonio Maria Zaccaria, afferma:
«Sotto l’apparenza di falsa umiltà e di non voler sembrare di avere grazie, ho diminuita e tolta l’utilità del prossimo, confermandomi in questo gli scrupoli, i quali mi suggerivano che tutto quello che mi veniva in mente di dire o di fare derivasse dalla vanagloria ... E in tal modo ho seppellito il talento di rendermi utile al prossimo. E pian piano ho perso il primo fervore che avevo di guadagnare il prossimo; e, dietro a questo, il lume e la conoscenza del mio procedere interiore ... E cosí, impaurita dalla mia stessa ombra, resto in tiepidezza, avendo nel predetto modo perso il mio primo lume. E minor male mi sarebbe stato, nel sollecitare gli altri, l’essermi in parte impolverata, ritenendo detto lume, che non, lasciando loro, aver perso quello, che mi dava la vita interiore, e all’ultimo mi avrebbe mondata da tal polvere. Guardate, amabile Padre, che cosa fa il troppo temere i propri doni: ... il temere la propria ombra ci fa, mentre fuggiamo un vizio, cadere in un altro maggiore».
Sembrerebbe che la Negri stia descrivendo la situazione della Chiesa attuale: tutta preoccupata di non insudiciarsi, essa non si accorge di venir meno ai doveri che le derivano dalla missione che il Signore le ha affidato. È curioso constatare come spesso ci preoccupiamo di non impolverarci, e non ci accorgiamo di essere seduti nel fango.
«Torno sul caso della Chiesa, oggi restia a ragionare in termini di impresa. Premetto che non sono un fanatico del “libero mercato”: Lehman Brothers non mi è crollata sulla zucca...
La storia della Chiesa per molti secoli è stata piena di religiosi, sacerdoti e laici che si sono “sporcati le mani” in economia. Ti ricordo i monaci benedettini e cistercensi che hanno rivoluzionato attorno all’anno Mille le tecniche agricole e che fino a Napoleone hanno saputo gestire enormi proprietà tenendo insieme innovazione, rispetto della persona e del territorio e sviluppo economico: non c’è quasi vino, formaggio o salume in Italia che non sia “figlio” loro! Credo che pesino qualcosa come il 10% del PIL italiano e forse il doppio nell’export. Ti ricordo anche — come esempi — Sant’Omobono, Marco Polo e Francesco Datini, che seppero fondare imperi commerciali e considerarono Messer Domineddio come il loro miglior investimento: aiuto ai poveri, apostolato, formazione, arte sacra, sostentamento del clero, missione... Quante cose un imprenditore poteva fare per non perdere la sua anima, mentre guadagnava il mondo intero! Viene in mente Ignazio di Loyola che, tenendo i conti dell’azienda agricola di famiglia, fu ispirato a discernere il bene dal male cosí come si distingue il vino buono dal vino da aceto... Che dire poi dei figli di Sant’Ignazio, che si attirarono l’ira dei nobili sfaccendati europei perché con gli indios seppero fare meraviglie, anche in termini di produzione, di organizzazione del lavoro ecc.? Per non parlare poi dei santi che hanno chiesto al Padrone della Messe di diventare soci nell’Impresa piú grande e innovativa del mondo: la Redenzione degli uomini, mettendo al servizio le loro imprese, le terre, l’ingegno... Pensiamo a Giulia Colbert, a Francesco Faà di Bruno...
Ti voglio far notare come il Maestro Divino non chieda ai ricchi (ma gli imprenditori sono tutti ricchi? tutti i ricchi sono imprenditori?) di abbandonare la loro ricchezza: lo chiede agli ingordi, a quanti ragionano secondo il mondo. Questi sono i ricchi. Un Leonardo Mondadori, convertito prima della morte, pur pieno di denari, avrebbe potuto essere povero e umile nel cuore, ti pare?
Rileggiamo insieme la parabola del Buon Samaritano, l’imprenditore come piace al Signore:
Costui “era in viaggio” dalle parti di Gerusalemme, quindi per motivi di commercio, non essendo quella la città santa per lui. Passando accanto al suo prossimo “n’ebbe compassione”. Il Signore aggiunge: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui”. Ha un cavallo e ricche provviste, probabilmente è vestito bene e ha pure fretta (Gerusalemme non doveva essere sicura per lui, eretico), ma ha compassione del prossimo, fa sue cioè le sofferenze di uno sfortunato. A questo punto, capisce che è arrivato il momento di fare un investimento importante: “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in piú, te lo rifonderò al mio ritorno”. E cosí accumula tesori in Cielo. Il Signore non lo ripagherà il sabato, ma al tempo opportuno...
C’è da chiedersi perché la Chiesa non invogli i suoi figli a fare questo... Ha forse paura di essere tacciata di paternalismo dai miseri — e fallimentari — eredi del socialismo?
Vedi, lo scandalo non sono i sacerdoti o i cattolici che maneggiano denari, ma i cattivi sacerdoti e laici cattolici che lo fanno: la differenza fra Giuda, “che teneva la borsa” ed “era ladro”, e Simon Pietro, che estrae la moneta dalla bocca del pesce per pagare le tasse, non sta nei denari maneggiati, ma in chi li maneggia. Fra un sacerdote “malandrino” e Don Bosco (o Padre Pio), che fa il fund raiser, la differenza la fa la stoffa dell’uomo, non le monete che tintinnano in tasca. E lo sai bene che “un albero buono darà frutti buoni”. Vogliamo ascoltarLo, una buona volta?»
Come al solito interessante la ricostruzione storica, che indirettamente ci invita a sbarazzarci una volta per tutte dei pregiudizi verso il passato, che ci sono stati istillati dalla cultura illuministica, e a “riappropriarci” della nostra storia, di cui non abbiamo proprio da vergognarci, ma semmai andar fieri. Sono stati commessi degli errori, certo (ma non continuiamo a commetterli anche oggi? e non li hanno commessi e commettono anche quelli che cristiani non sono?); ma quante realizzazioni è stata capace la Chiesa di produrre nel corso dei secoli?
Molto interessante anche la rilettura della parabola del buon Samaritano: sinceramente, non ci avevo mai pensato. Penso che quanto affermato da David, da un punto di vista etico, sia corretto: il denaro, in sé stesso, non ha alcuna valenza morale; non è lo “sterco del diavolo”, come una certa mentalità manichea vorrebbe farci credere. Tutto sta a come lo si usa. Il problema non è il denaro, ma il cuore di chi lo maneggia. Dalle mani di una persona distaccata possono passare fiumi di denaro, utilizzati per la gloria di Dio e il benessere dei fratelli. Un cuore attaccato al denaro può peccare anche con pochi spiccioli. Gli esempi di santi portati da David mi sembrano piú che sufficienti.
Ciò non significa che non ci siano pericoli. È dell’altro giorno la notizia dell’ennesima ristrutturazione dello IOR (speriamo che questa sia la volta buona!): segno, questo, che, quando si maneggia il denaro, anche con le migliori intenzioni, si rischia di “sporcarsi le mani”. Che fare allora: stare alla larga da mammona? Ma in tal modo si rischierebbe di cadere in un pericolo ben maggiore: per non sporcarsi le mani, si rischia di non aiutare piú i bisognosi. L’Angelica Paola Antonia Negri (di cui ci siamo già occupati su questo blog), in una lettera scritta a suo nome da Sant’Antonio Maria Zaccaria, afferma:
«Sotto l’apparenza di falsa umiltà e di non voler sembrare di avere grazie, ho diminuita e tolta l’utilità del prossimo, confermandomi in questo gli scrupoli, i quali mi suggerivano che tutto quello che mi veniva in mente di dire o di fare derivasse dalla vanagloria ... E in tal modo ho seppellito il talento di rendermi utile al prossimo. E pian piano ho perso il primo fervore che avevo di guadagnare il prossimo; e, dietro a questo, il lume e la conoscenza del mio procedere interiore ... E cosí, impaurita dalla mia stessa ombra, resto in tiepidezza, avendo nel predetto modo perso il mio primo lume. E minor male mi sarebbe stato, nel sollecitare gli altri, l’essermi in parte impolverata, ritenendo detto lume, che non, lasciando loro, aver perso quello, che mi dava la vita interiore, e all’ultimo mi avrebbe mondata da tal polvere. Guardate, amabile Padre, che cosa fa il troppo temere i propri doni: ... il temere la propria ombra ci fa, mentre fuggiamo un vizio, cadere in un altro maggiore».
Sembrerebbe che la Negri stia descrivendo la situazione della Chiesa attuale: tutta preoccupata di non insudiciarsi, essa non si accorge di venir meno ai doveri che le derivano dalla missione che il Signore le ha affidato. È curioso constatare come spesso ci preoccupiamo di non impolverarci, e non ci accorgiamo di essere seduti nel fango.