Sarà che, dopo cinque mesi di forzato distacco, la mancanza dei filippini si fa sentire; ma devo confessare che a leggere questa notizia su AsiaNews mi sono commosso. Sapere di questa ragazza che è andata in chiesa a Manila per confessarsi e partecipare alla Messa per l’ultima volta prima di partire per Riyadh mi ha stretto il cuore. E, come lei, chissà quanti altri (a quanto pare, ogni giorno duemila filippini abbandonano il loro paese per andare a lavorare all'estero). E purtroppo sappiamo che cosa li attende: oltre all’impossibilità di praticare la loro fede (mi piacerebbe sapere se ai nostri ventenni costerebbe cosí tanto dover rinunciare ai sacramenti...), la prospettiva di dover lavorare 12 ore al giorno, spesso in condizioni disumane (senza contare che le donne spesso vengono letteralmente schiavizzate e sfruttate sessualmente...).
Qualcuno dirà: E chi glielo fa fare? Perché non se ne stanno a casa loro? Vorrei vederli, quelli che si pongono tali domande, al posto di questi giovani costretti a lasciare il loro paese. Vorrei vederli, magari con un titolo accademico, doversi accontentare di poche migliaia di pesos (1 euro = 70 pesos). Chissà, forse anche loro hanno in casa un filippino o una filippina, e non sanno che ha una laurea, che è un dottore o un architetto, che deve rassegnarsi ai lavori piú umili per guadagnare dieci volte quel che guadagnerebbe nel suo paese esercitando la professione.
Non voglio santificarli, i filippini. Ormai penso di conoscerli abbastanza; conosco i loro pregi e i loro difetti. So bene che, in patria o all’estero, non sono dei santi. Il Vescovo Ballin — un veneto — Vicario Apostolico del Kuwait, recentemente li ha dovuti richiamare al dovere della fedeltà coniugale, rammentando loro quello che i suoi conterranei hanno dovuto patire in passato in giro per il mondo. Talvolta qualche ragazza finisce nell’harem di qualche signorotto locale ed è costretta anche a ripudiare la fede cristiana e a convertirsi all’Islam. Ma si tratta di casi eccezionali.
Lo vediamo nelle nostre città, quanto i filippini siano attaccati alla religione cattolica: in quante parrocchie ormai c’è una comunità filippina, che si ritrova settimanalmente per la celebrazione dell’Eucaristia? A Kabul l’unica chiesa cattolica esistente è la cappella dell’Ambasciata d’Italia: dovrebbe essere frequentata, principalmente, da italiani e da europei; ma da un po’ di anni a questa parte la comunità piú numerosa (e fervente) è quella filippina.
Direi che i filippini sono piú praticanti quando sono all’estero che non quando sono a casa: probabilmente la Messa diventa anche un modo per ritrovarsi e per sentirsi in qualche modo in patria; ma non è certo questo il motivo che li spinge ad andare in chiesa. Magari sarà talvolta una religiosità, secondo i nostri canoni, un po’ formalistica; ma vi posso assicurare che non si tratta di pura esteriorità; credono veramente a ciò che fanno. Forse non saranno sempre coerenti con quel che professano (e noi lo siamo?); ma almeno sono capaci di riconoscerlo onestamente e di pentirsene (talvolta anche con penitenze eccessive).
L’articolo di AsiaNews è intitolato “Migranti cattolici filippini, testimoni della fede nei Paesi islamici”. Potrebbe apparire esagerato; e forse lo è, se guardiamo alle intenzioni: i filippini non decidono di lasciare il loro paese per annunziare il vangelo nel mondo; non hanno la vocazione dei missionari. Lasciano il loro paese per guadagnarsi da vivere. Eppure, missionari lo sono lo stesso, a prescindere dalle loro intenzioni: con la loro semplicità, la loro bontà, la loro dolcezza, il loro sorriso (anche il filippino piú arrabbiato o angosciato sarà capace di farvi un sorriso). E poi con il loro essere cristiani, che va oltre le loro possibili incoerenze e infedeltà. Essere cristiani non significa essere impeccabili: si può testimoniare la fede anche nella fragilità.
Infine, non possiamo dimenticare un altro aspetto: Dio compie la sua opera servendosi di strumenti spesso fallibili. San Paolo ci ricorda che «quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1 Cor 1:27-28). Sono convinto che Dio abbia scelto i filippini per rivelarsi a molti che ancora non lo conoscono. Li ha scelti, non perché siano migliori degli altri, ma perché credono in lui.
Qualcuno dirà: E chi glielo fa fare? Perché non se ne stanno a casa loro? Vorrei vederli, quelli che si pongono tali domande, al posto di questi giovani costretti a lasciare il loro paese. Vorrei vederli, magari con un titolo accademico, doversi accontentare di poche migliaia di pesos (1 euro = 70 pesos). Chissà, forse anche loro hanno in casa un filippino o una filippina, e non sanno che ha una laurea, che è un dottore o un architetto, che deve rassegnarsi ai lavori piú umili per guadagnare dieci volte quel che guadagnerebbe nel suo paese esercitando la professione.
Non voglio santificarli, i filippini. Ormai penso di conoscerli abbastanza; conosco i loro pregi e i loro difetti. So bene che, in patria o all’estero, non sono dei santi. Il Vescovo Ballin — un veneto — Vicario Apostolico del Kuwait, recentemente li ha dovuti richiamare al dovere della fedeltà coniugale, rammentando loro quello che i suoi conterranei hanno dovuto patire in passato in giro per il mondo. Talvolta qualche ragazza finisce nell’harem di qualche signorotto locale ed è costretta anche a ripudiare la fede cristiana e a convertirsi all’Islam. Ma si tratta di casi eccezionali.
Lo vediamo nelle nostre città, quanto i filippini siano attaccati alla religione cattolica: in quante parrocchie ormai c’è una comunità filippina, che si ritrova settimanalmente per la celebrazione dell’Eucaristia? A Kabul l’unica chiesa cattolica esistente è la cappella dell’Ambasciata d’Italia: dovrebbe essere frequentata, principalmente, da italiani e da europei; ma da un po’ di anni a questa parte la comunità piú numerosa (e fervente) è quella filippina.
Direi che i filippini sono piú praticanti quando sono all’estero che non quando sono a casa: probabilmente la Messa diventa anche un modo per ritrovarsi e per sentirsi in qualche modo in patria; ma non è certo questo il motivo che li spinge ad andare in chiesa. Magari sarà talvolta una religiosità, secondo i nostri canoni, un po’ formalistica; ma vi posso assicurare che non si tratta di pura esteriorità; credono veramente a ciò che fanno. Forse non saranno sempre coerenti con quel che professano (e noi lo siamo?); ma almeno sono capaci di riconoscerlo onestamente e di pentirsene (talvolta anche con penitenze eccessive).
L’articolo di AsiaNews è intitolato “Migranti cattolici filippini, testimoni della fede nei Paesi islamici”. Potrebbe apparire esagerato; e forse lo è, se guardiamo alle intenzioni: i filippini non decidono di lasciare il loro paese per annunziare il vangelo nel mondo; non hanno la vocazione dei missionari. Lasciano il loro paese per guadagnarsi da vivere. Eppure, missionari lo sono lo stesso, a prescindere dalle loro intenzioni: con la loro semplicità, la loro bontà, la loro dolcezza, il loro sorriso (anche il filippino piú arrabbiato o angosciato sarà capace di farvi un sorriso). E poi con il loro essere cristiani, che va oltre le loro possibili incoerenze e infedeltà. Essere cristiani non significa essere impeccabili: si può testimoniare la fede anche nella fragilità.
Infine, non possiamo dimenticare un altro aspetto: Dio compie la sua opera servendosi di strumenti spesso fallibili. San Paolo ci ricorda che «quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1 Cor 1:27-28). Sono convinto che Dio abbia scelto i filippini per rivelarsi a molti che ancora non lo conoscono. Li ha scelti, non perché siano migliori degli altri, ma perché credono in lui.