Mi è stato chiesto che cosa penso di don Milani. Beh, quando è morto (1967) ero ancora un ragazzo (avevo dodici anni). Il primo contatto con lui lo ebbi al ginnasio, quando, durante l’ora di religione, leggemmo alcune pagine di Lettere a una professoressa; ma, sinceramente, non ci trovai niente di interessante. Già a quell’epoca, era diventato un’icona della sinistra. Per questo motivo, in un periodo cosí ideologizzato come quello, io, che mi consideravo un accanito anticomunista, non potevo simpatizzare per un tipo come don Milani. Bastava un’espressione come “L’obbedienza non è piú una virtú” per alienargli le mie simpatie. Non che lo combattessi o lo criticassi (non conoscendolo, sarebbe stato scorretto); semplicemente, lo ignoravo.
Passarono molti anni. Un giorno, quando ormai avevo abbracciato la vita religiosa (ma non ero ancora diventato sacerdote), viaggiando in macchina con un mio confratello, non so come, il discorso cadde su don Milani. Il mio confratello mi chiese se lo conoscessi. Al che risposi di no. E lui mi invitò a leggere qualcosa di lui, perché — mi disse — “è una bella figura, con una profonda spiritualità”. Rimasi interdetto: don Milani, una bella figura con una profonda spiritualità? Ma se per me non era mai stato nulla di piú che un prete politicante... La cosa finí lí. Ma rimase in me la curiosità di sapere chi fosse realmente don Milani. Qualche tempo dopo comprai le Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, e cominciai a leggerle. Fu una rivelazione: scoprii un personaggio straordinario, di cui condividevo buona parte delle idee. Per esempio, il fatto che rifiutasse i metodi pastorali in voga al suo tempo (oratorio, sport, cinema, TV, ecc.) e che in quegli anni stavano ormai mostrando tutti i loro limiti, e che avesse puntato tutto esclusivamente sulla scuola, non poteva che riscuotere la mia approvazione.
Diventato sacerdote e studente all’Università di Bologna, ebbi la fortuna di dover leggere, per l’esame di letteratura italiana, Esperienze pastorali. Anche in questo caso, lo trovai un libro straordinario. E non riuscii a capire per quale motivo il Santo Uffizio ne avesse disposto il ritiro dal commercio: non ci trovavo assolutamente nulla di eretico.
Ebbi successivamente modo di approfondire il rapporto, contrastato, di don Milani con i Barnabiti. Quando la sua famiglia si era trasferita a Milano, fu alunno, per un breve periodo, dell’Istituto Zaccaria, e proprio in quel periodo chiese, con grande stupore della famiglia, di ricevere la prima comunione. Quando era priore di Barbiana, non poteva non rimarcare il carattere alternativo della sua esperienza educativa rispetto quella dei Barnabiti, educatori della borghesia. Non esitò però a chiedere in prestito alla Querce un cannocchiale per i suoi ragazzi, e mantenne sempre ottimi rapporti col compianto Padre Luigi Rima.
Che cosa penso oggi di lui? Penso che sia stata una figura importante nella storia recente della Chiesa italiana. Non ho difficoltà ad ammettere che fosse un estremista (non in senso politico, ma per la radicalità delle sue posizioni), un rigorista, oggi diremmo un fondamentalista, un “talebano”. Ma ciò non significa niente; è solo l’involucro esteriore di una esperienza umana, spirituale e pastorale eccezionale.
Certamente aveva un carattere difficile. Ricordo che un giorno, quando ero rettore alla Querce, ebbi l’occasione di incontrare Michele Gesualdi, allora Presidente della Provincia. Tentai di strappargli qualche confidenza; ma lui, molto evasivamente, mi rispose: “Don Lorenzo era un tipo un po’ particolare...”. Certi eccessi, innegabili, possono inoltre essere facilmente ricondotti all’ambiente in cui è vissuto: chi non è mai stato in Toscana non può capire certe cose.
Ma il suo rigorismo ha anche una spiegazione razionale, che non si può non condividere:
«Se la vita è un bel dono di Dio non va buttata via e buttarla via è peccato. Se un’azione è inutile, è buttar via un bel dono di Dio. È un peccato gravissimo, io lo chiamo bestemmia del tempo. E mi pare una cosa orribile perché il tempo è poco, quando è passato non torna».
Fu un cattocomunista? A stare alla famosa lettera a Pipetta, si direbbe proprio di no:
«Ma il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia dei ricchi, ricordati Pipetta, non ti fidare di me, quel giorno ti tradirò. Quel giorno io non resterò lí con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te di fronte al mio Signore crocefisso».
L’obiezione di coscienza? Beh, oggi dovremmo ringraziarlo per quella battaglia, che pose per la prima volta una questione diventata ai nostri giorni di estrema attualità.
Non si può in alcun modo mettere in discussione il suo amore alla Chiesa:
«Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno piú volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa».
«T’ho scritto solo per metterti in guardia contro te stesso e per difendere la mia carissima moglie Chiesa che amo tra infiniti litigi e contrasti (come ogni buon marito usa fare)».
Interessante notare, a questo proposito, che gli ultimi anni della vita di don Milani coincisero con il Concilio Vaticano II. Ebbene, leggendo i suoi scritti, sembrerebbe che quell’evento non sia mai avvenuto: mai una espressione di approvazione nei confronti di un avvenimento che stava suscitando tanti entusiasmi nella Chiesa. Quando i preti cominciavano ad “adattarsi” al mondo, egli non smise mai la sua talare. A quanto mi risulta, il rapporto con Giovanni XXIII, il “Papa Buono”, il profeta della “nuova primavera della Chiesa”, fu di reciproca disistima.
Ma la cosa piú commovente è, secondo me, l’attaccamento ai suoi ragazzi, che rivela la sua profonda umanità e, al tempo stesso, lascia intravedere il mistico che si nascondeva sotto quel carattere burbero:
«Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio».
«[Cari ragazzi], ho voluto piú bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».
Passarono molti anni. Un giorno, quando ormai avevo abbracciato la vita religiosa (ma non ero ancora diventato sacerdote), viaggiando in macchina con un mio confratello, non so come, il discorso cadde su don Milani. Il mio confratello mi chiese se lo conoscessi. Al che risposi di no. E lui mi invitò a leggere qualcosa di lui, perché — mi disse — “è una bella figura, con una profonda spiritualità”. Rimasi interdetto: don Milani, una bella figura con una profonda spiritualità? Ma se per me non era mai stato nulla di piú che un prete politicante... La cosa finí lí. Ma rimase in me la curiosità di sapere chi fosse realmente don Milani. Qualche tempo dopo comprai le Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, e cominciai a leggerle. Fu una rivelazione: scoprii un personaggio straordinario, di cui condividevo buona parte delle idee. Per esempio, il fatto che rifiutasse i metodi pastorali in voga al suo tempo (oratorio, sport, cinema, TV, ecc.) e che in quegli anni stavano ormai mostrando tutti i loro limiti, e che avesse puntato tutto esclusivamente sulla scuola, non poteva che riscuotere la mia approvazione.
Diventato sacerdote e studente all’Università di Bologna, ebbi la fortuna di dover leggere, per l’esame di letteratura italiana, Esperienze pastorali. Anche in questo caso, lo trovai un libro straordinario. E non riuscii a capire per quale motivo il Santo Uffizio ne avesse disposto il ritiro dal commercio: non ci trovavo assolutamente nulla di eretico.
Ebbi successivamente modo di approfondire il rapporto, contrastato, di don Milani con i Barnabiti. Quando la sua famiglia si era trasferita a Milano, fu alunno, per un breve periodo, dell’Istituto Zaccaria, e proprio in quel periodo chiese, con grande stupore della famiglia, di ricevere la prima comunione. Quando era priore di Barbiana, non poteva non rimarcare il carattere alternativo della sua esperienza educativa rispetto quella dei Barnabiti, educatori della borghesia. Non esitò però a chiedere in prestito alla Querce un cannocchiale per i suoi ragazzi, e mantenne sempre ottimi rapporti col compianto Padre Luigi Rima.
Che cosa penso oggi di lui? Penso che sia stata una figura importante nella storia recente della Chiesa italiana. Non ho difficoltà ad ammettere che fosse un estremista (non in senso politico, ma per la radicalità delle sue posizioni), un rigorista, oggi diremmo un fondamentalista, un “talebano”. Ma ciò non significa niente; è solo l’involucro esteriore di una esperienza umana, spirituale e pastorale eccezionale.
Certamente aveva un carattere difficile. Ricordo che un giorno, quando ero rettore alla Querce, ebbi l’occasione di incontrare Michele Gesualdi, allora Presidente della Provincia. Tentai di strappargli qualche confidenza; ma lui, molto evasivamente, mi rispose: “Don Lorenzo era un tipo un po’ particolare...”. Certi eccessi, innegabili, possono inoltre essere facilmente ricondotti all’ambiente in cui è vissuto: chi non è mai stato in Toscana non può capire certe cose.
Ma il suo rigorismo ha anche una spiegazione razionale, che non si può non condividere:
«Se la vita è un bel dono di Dio non va buttata via e buttarla via è peccato. Se un’azione è inutile, è buttar via un bel dono di Dio. È un peccato gravissimo, io lo chiamo bestemmia del tempo. E mi pare una cosa orribile perché il tempo è poco, quando è passato non torna».
Fu un cattocomunista? A stare alla famosa lettera a Pipetta, si direbbe proprio di no:
«Ma il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia dei ricchi, ricordati Pipetta, non ti fidare di me, quel giorno ti tradirò. Quel giorno io non resterò lí con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te di fronte al mio Signore crocefisso».
L’obiezione di coscienza? Beh, oggi dovremmo ringraziarlo per quella battaglia, che pose per la prima volta una questione diventata ai nostri giorni di estrema attualità.
Non si può in alcun modo mettere in discussione il suo amore alla Chiesa:
«Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno piú volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa».
«T’ho scritto solo per metterti in guardia contro te stesso e per difendere la mia carissima moglie Chiesa che amo tra infiniti litigi e contrasti (come ogni buon marito usa fare)».
Interessante notare, a questo proposito, che gli ultimi anni della vita di don Milani coincisero con il Concilio Vaticano II. Ebbene, leggendo i suoi scritti, sembrerebbe che quell’evento non sia mai avvenuto: mai una espressione di approvazione nei confronti di un avvenimento che stava suscitando tanti entusiasmi nella Chiesa. Quando i preti cominciavano ad “adattarsi” al mondo, egli non smise mai la sua talare. A quanto mi risulta, il rapporto con Giovanni XXIII, il “Papa Buono”, il profeta della “nuova primavera della Chiesa”, fu di reciproca disistima.
Ma la cosa piú commovente è, secondo me, l’attaccamento ai suoi ragazzi, che rivela la sua profonda umanità e, al tempo stesso, lascia intravedere il mistico che si nascondeva sotto quel carattere burbero:
«Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio».
«[Cari ragazzi], ho voluto piú bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto».