Dall’omelia di Benedetto XVI a Brescia, in Piazza Paolo VI (8 novembre 2009):
«Cari amici! A partire da questa icona evangelica [della povera vedova], desidero meditare brevemente sul mistero della Chiesa, del Tempio vivo di Dio, e cosí rendere omaggio alla memoria del grande Papa Paolo VI, che alla Chiesa ha consacrato tutta la sua vita. La Chiesa è un organismo spirituale concreto che prolunga nello spazio e nel tempo l’oblazione del Figlio di Dio, un sacrificio apparentemente insignificante rispetto alle dimensioni del mondo e della storia, ma decisivo agli occhi di Dio. Come dice la Lettera agli Ebrei — anche nel testo che abbiamo ascoltato — a Dio è bastato il sacrificio di Gesú, offerto “una volta sola”, per salvare il mondo intero (cf Eb 9:26.28), perché in quell’unica oblazione è condensato tutto l’Amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l’amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere. La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesú, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento. È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo. [...]
È questa la Chiesa che il servo di Dio Paolo VI ha amato di amore appassionato e ha cercato con tutte le sue forze di far comprendere e amare. Rileggiamo il suo Pensiero alla morte, là dove, nella parte conclusiva, parla della Chiesa. “Potrei dire — scrive — che sempre l’ho amata ... e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse”. Sono gli accenti di un cuore palpitante, che cosí prosegue: “Vorrei finalmente comprenderla tutta, nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei — continua il Papa — abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla”. E le ultime parole sono per lei, come alla sposa di tutta la vita: “E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo”.
Che cosa si può aggiungere a parole cosí alte ed intense? Soltanto vorrei sottolineare quest’ultima visione della Chiesa “povera e libera”, che richiama la figura evangelica della vedova. Cosí dev’essere la Comunità ecclesiale, per riuscire a parlare all’umanità contemporanea. L’incontro e il dialogo della Chiesa con l’umanità di questo nostro tempo stavano particolarmente a cuore a Giovanni Battista Montini in tutte le stagioni della sua vita, dai primi anni di sacerdozio fino al Pontificato. Egli ha dedicato tutte le sue energie al servizio di una Chiesa il piú possibile conforme al suo Signore Gesú Cristo, cosí che, incontrando lei, l’uomo contemporaneo possa incontrare Lui, Cristo, perché di Lui ha assoluto bisogno. Questo è l’anelito di fondo del Concilio Vaticano II, a cui corrisponde la riflessione del Papa Paolo VI sulla Chiesa. Egli volle esporne programmaticamente alcuni punti salienti nella sua prima Enciclica, Ecclesiam suam, del 6 agosto 1964, quando ancora non avevano visto la luce le Costituzioni conciliari Lumen gentium e Gaudium et spes.
Con quella prima Enciclica il Pontefice si proponeva di spiegare a tutti l’importanza della Chiesa per la salvezza dell’umanità e, al tempo stesso, l’esigenza che tra la Comunità ecclesiale e la società si stabilisca un rapporto di mutua conoscenza e di amore (cf Enchiridion Vaticanum, 2, p. 199, n. 164). “Coscienza”, “rinnovamento”, “dialogo”: queste le tre parole scelte da Paolo VI per esprimere i suoi “pensieri” dominanti — come lui li definisce — all’inizio del ministero petrino, e tutt’e tre riguardano la Chiesa. Anzitutto, l’esigenza che essa approfondisca la coscienza di se stessa: origine, natura, missione, destino finale; in secondo luogo, il suo bisogno di rinnovarsi e purificarsi guardando al modello che è Cristo; infine, il problema delle sue relazioni con il mondo moderno (cf ibid., pp. 203-205, nn. 166-168). Cari amici — e mi rivolgo in modo speciale ai Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio —, come non vedere che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale? Che, anzi, gli sviluppi della secolarizzazione e della globalizzazione l’hanno resa ancora piú radicale, nel confronto con l’oblio di Dio, da una parte, e con le religioni non cristiane, dall’altra? La riflessione di Papa Montini sulla Chiesa è piú che mai attuale; e piú ancora è prezioso l’esempio del suo amore per lei, inscindibile da quello per Cristo. “Il mistero della Chiesa — leggiamo sempre nell’Enciclica Ecclesiam suam — non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev’essere un fatto vissuto, in cui ancora prima di una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza” (ibid., p. 229, n. 178). Questo presuppone una robusta vita interiore, che è — cosí continua il Papa — “la grande sorgente della spiritualità della Chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano” (ibid., p. 231, n. 179). Proprio il cristiano aperto, la Chiesa aperta al mondo hanno bisogno di una robusta vita interiore.
Carissimi, che dono inestimabile per la Chiesa la lezione del Servo di Dio Paolo VI! E com’è entusiasmante ogni volta rimettersi alla sua scuola! È una lezione che riguarda tutti e impegna tutti, secondo i diversi doni e ministeri di cui è ricco il Popolo di Dio, per l’azione dello Spirito Santo. In questo Anno Sacerdotale mi piace sottolineare come essa interessi e coinvolga in modo particolare i sacerdoti, ai quali Papa Montini riservò sempre un affetto e una sollecitudine speciali. Nell’Enciclica sul celibato sacerdotale egli scrisse: “«Preso da Cristo Gesú» (Fil 3,12) fino all’abbandono di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura piú perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’eterno Sacerdote ha amato la Chiesa suo corpo, offrendo tutto se stesso per lei... La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio” (Sacerdotalis caelibatus, 26). Dedico queste parole del grande Papa ai numerosi sacerdoti della Diocesi di Brescia, qui ben rappresentati, come pure ai giovani che si stanno formando nel Seminario. E vorrei ricordare anche quelle che Paolo VI rivolse agli alunni del Seminario Lombardo il 7 dicembre 1968, mentre le difficoltà del post-Concilio si sommavano con i fermenti del mondo giovanile: “Tanti — disse — si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesú Cristo, a cui preme la sua Chiesa piú che non a chiunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta... Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensí di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione che Gesú ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza. Anche il Papa ha bisogno di essere aiutato con la preghiera” (Insegnamenti, VI, [1968], 1189)».
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